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Estratto dal corpo della memoria da noi depositata, in difesa dei contribuenti ed in vista dell’udienza di trattazione:
“In data XXX, la società XXX, odierna ricorrente, riceveva la notifica degli avvisi di accertamento n. XXX e n. XXX, formati rispettivamente in relazione ai periodi d'imposta XXX e XXX, cui seguiva la notifica ai due soci, sulla base della rettifica operata nei confronti della società, degli avvisi di accertamento n. XXX, n. XXX, n. XXX e n. XXX.
Gli avvisi richiamano “il Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto in data XXX dalla Guardia di Finanza, Compagnia di XXX” che a sua volta cita, così come gli atti impositivi, la nota nr. XXX del 2 febbraio XXX, con cui la guardia di Finanza di XXX avrebbe verificato che il soggetto che forniva il pane al ristorante (il XXX, nel proseguo anche solamente il “panificio”) non rilasciava validi documenti fiscali, cedendo il pane in definitiva “in nero”.
Orbene, l’Ufficio si è posto l’obiettivo di verificatore se i coperti dichiarati fossero congrui rispetto al pane acquistato dal “panificio”.
I verificatori hanno quindi dapprima conteggiato i coperti dichiarati dal ristorante, pari a 9.937 nel XXX e 9.818 nel XXX.
Gli stessi hanno nel contempo accertato tramite – non meglio precisate – indagini di parte pubblica (mai prodotte), asseritamente effettuate presso i ristoratori della zona, che vengono consumati tra i 100 ed i 150 grammi di pane per ogni coperto (leggiamo a pagina 3 degli avvisi: “indagine di mercato fra alcuni ristoratori nella zona del XXX, da cui si desume che per ogni singolo coperto il quantitativo medio di pane è di circa 100-150 grammi”).
Gli stessi infine hanno accertato l’acquisto di e 1.370,6 kg di pane nel XXX e 1.296,5 kg di pane nel 2011.
I verificatori hanno quindi incrociato i tre dati, considerato il quantitativo di pane acquistato dal panificio di cui sopra quale criterio per esaminare la congruità dei coperti dichiarati, sulla base del consumo medio di pane sopra indicato.
Orbene, la logica di cui a tale metodologia accertativa vorrebbe che, nel caso in cui il consumo di pane sia superiore a quello consumabile (4) dai coperti dichiarati, in tal caso, l’eccedenza attesti l’esistenza di ulteriori coperti non dichiarati.
Ma a ben vedere, applicando tale metodo, i coperti dichiarati risultano assolutamente congrui ed in linea (con le risultanze delle indagini sul consumo medio di pane indicate dallo stesso Ufficio).
Esaminiamo nuovamente il ragionamento con precisione matematica.
La Direzione Provinciale ha verificato che il ristorante ha servito un numero di coperti pari a 9.937 nel XXX e 9.818 nel XXX.
Nel contempo la Direzione Provinciale ha accertato, per mezzo di non meglio precisate indagini presso i ristoratori della zona (che in spregio a qualsiasi diritto di difesa il contribuente non ha, peraltro mai potuto esaminare), che ciascuno di tali coperti consumerebbe mediamente tra i 100 ed i 150 grammi di pane.
Infine, ha accertato l’acquisto di e 1.370,6 kg di pane nel XXX e 1.296,5 kg di pane nel XXX.
Applicando tale criterio (e dunque incrociando i primi due dati) si dovrebbe giungere alla conclusione che è ragionevole che, nel XXX, i 9.937 coperti abbiano consumato tra i 993,7 (9.937 coperti * 0,100 kg a testa) ed i 1.490,55 kg (9.937 coperti * 0,150 kg a testa) di pane e che, nel XXX, i 9.818 coperti abbiano consumato tra i 981,8 kg (9.818 coperti * 0,100 kg a testa) ed i 1.472,7 kg di pane (9.818 coperti * 0,150 kg a testa).
Ciò che risalta all’occhio immediatamente è che il quantitativo di pane acquistato è ampiamente inferiore rispetto a quello presuntivamente consumato – sulla base della media di consumo indicata dall’Ufficio – dai coperti regolarmente dichiarati. In altri termini, a seguire il ragionamento presuntivo dello stesso Ufficio, i coperti “dichiarati” sono perfettamente in linea con le quantità di pane acquistato, tenendo conto anche dei quantitativi di pane asseritamente acquistati “in nero”.
Allora, come è possibile per l’Ufficio anche solamente sostenere che vi siano presunzioni gravi, precisi e concordanti che portano a ritenere presenti ulteriori coperti quando il numero dei coperti dichiarato può ragionevolmente aver consumato (sulla base delle stesse indagini dei verificatori) il quantitativo di pane di cui trattasi?
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Come è stato possibile, a seguito dei calcoli di cui all’accertamento, evidenziare nuova materia imponibile?
D’altronde, i coperti dichiarati giustificavano ampiamente il consumo di pane accertato applicando le indagini dello stesso Ufficio sul consumo medio; non vi sono sforamenti di sorta, ed il consumo è perfettamente in linea con il consumo dei coperti regolarmente dichiarati.
A ben vedere, i Verificatori sono addivenuti a nuova materia imponibile da tassare attraverso un ragionamento francamente inammissibile, che si pone in netto contrasto con le risultanze delle stesse indagini tenute in considerazione a presupposto del calcolo nonché con qualsiasi massima di esperienza. Esaminiamolo.
1) PRIMA OPERAZIONE INAMMISSIBILE: RIFIUTO DELL’UFFICIO DI RICONOSCERE QUALSIASI TIPO DI “SFRIDO”.
Innanzitutto, sulla base di quanto indicato negli avvisi di accertamento, il 100% del pane acquistato dal ristorante sarebbe stato consumato da clienti dello stesso e dovrebbe essere considerato rappresentativo di coperti (mai una volta, secondo il ragionamento dell'Ufficio, il personale di servizio ed i soci avrebbero consumato del pane, mai una volta l'esercizio avrebbe gettato a fine giornata il pane non consumato ed ormai “induritosi”, invero, secondo tale irrazionale ragionamento, ogni grammo sarebbe stato consumato da clienti e sarebbe quindi rappresentativo di coperti). Non v’è chi non veda come ciò sia assolutamente impossibile. In altri termini, ragionando secondo i principi giuridici immanenti tale tipologia di accertamenti, l’Ufficio non ha applicato lo sfrido considerato dalla giurisprudenza indispensabile per ricondurre questa tipologia di ragionamenti nell’ambito della verosimiglianza (c.d. postea, l’ampia rassegna giurisprudenziale di cui al paragrafo A) della presente memoria, la quale attesta come l’applicazione di uno sfrido sia necessario in simili ipotesi).
2) SECONDA OPERAZIONE INAMMISSIBILE: l’UFFICIO NON HA CORRETTAMENTE APPLICATO LE RISULTANZE DELLE PRESUNTE INDAGINI EFFETTUATE.
Ed ancora, dato che gli avventori risultanti dalla documentazione fiscale hanno verosimilmente consumato, sulla base delle stesse indagini rivendicate dai verificatori, tutto il pane acquistato (il pane acquistato è minore rispetto al quantitativo mediamente consumabile dai coperti dichiarati), allora l’Ufficio, ha considerato nei propri calcoli - non l’eccedenza rispetto al consumo normale (in tal caso la materia imponibile sarebbe stata zero), ma – l’eccedenza rispetto al consumo minimo per persona.
In altri termini, non solo il 100% del pane sarebbe rappresentativo di coperti, ma addirittura ciascun avventore avrebbe consumato il quantitativo minimo; eppure le stesse indagini rivendicate dai verificatori attestavano che i consumi per coperto giungevano nella normalità dei casi fino a 150 grammi.
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Peraltro, l’argomentazione è così invalicabile che oggi l’Ufficio, in sede di costituzione in giudizio, disconosce il contenuto dei precedenti avvisi.
È infatti negli avvisi che si legge '“indagine di mercato fra alcuni ristoratori nella zona del XXX, da cui si desume che per ogni singolo coperto il quantitativo medio di pane è di circa 100-150 grammi” pagina XXX degli avvisi impugnati, all. XXX e XXX al ricorso introduttivo).
Oggi, invece, l’Ufficio afferma che il consumo medio accertato sulla base delle indagini, non è più come precedentemente indicato negli avvisi, tra i 100 ed i 150 grammi, ma di 100 grammi a persona.
Eppure a pagina XXX degli atti impositivi, rigo XXX, si legge chiaramente “indagine di mercato fra alcuni ristoratori nella zona del XXX, da cui si desume che per ogni singolo coperto il quantitativo medio di pane è di circa 100-150 grammi”.
Le controdeduzioni sembrano, dunque, ritrattare il contenuto degli avvisi e ciò è in realtà inammissibile, per molteplici motivi, primo tra tutti, poiché di tal guisa si sta modificando la motivazione, che deve preesistere all’atto affinché quest’ultimo si consideri correttamente formato.
Addirittura, si riporta che sarebbe stato il gestore del ristorante, secondo quanto indicato in una nota del PVC, ad indicare che il consumo medio è di 100 grammi, quando in tale nota leggiamo, non “100 grammi”, ma che il “gestore del ristorante in verifica il quale in contraddittorio ha affermato di fornire al tavolo, pane in ragione di 100-150 grammi per coperto”.
Quindi il gestore non ha indicato 100 grammi ma 100-150 grammi.
Oltre a tale difesa errata e non corrispondente, null’altra argomentazione offre parte pubblica adatta a sostegno della propria posizione processuale.
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Orbene, ciò che si contesta più d’ogni altra cosa è che quando l’Ufficio forma, come è oggi accaduto, degli atti con cui impone ad un contribuente il pagamento di somme di denaro, come nel caso di specie, deve quantomeno offrire una spiegazione verosimile ed accettabile del motivo per cui tale esborso dovrebbe essere dovuto.
Peraltro, il criterio di calcolo sembrava così limpidamente errato che, in un primo momento, il ricorrente ha pensato si trattasse di un vero e proprio errore materiale dell’Ufficio.
Mentre, a leggere le controdeduzioni, oggi comprendiamo che l’Ufficio ha effettivamente inteso calcolare i maggiori imponibili nonostante si rientrasse nei criteri di congruità sopra indicati, ricalcolando i coperti sul consumo minimo (3).
Una pretesa di pagamento così motivata non ha ragion d’essere perché le risultanze del calcolo non corrispondono ai dati posti a presupposto dello stesso; in definitiva, una pretesa di pagamento così motivata equivale ad una pretesa immotivata.
Insomma, in altri termini, assodato che l’unico dato offerto dai verificatori non conferma la rettifica ma semmai la sconfessa, non rimane più alcun dato su cui possa basarsi una pretesa di esborso.
L’unico dato rimanente è che si tratta di un ristoratore cinese.
Ma uno stato di diritto può forse ammettere un accertamento unicamente sulla base di tale aspetto?
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Nel proseguo esamineremo i vizi di cui trattasi con maggior attenzione, evidenziando come la necessità di un annullamento derivi, altresì, dai principi di diritto affermati in casi analoghi dalla giurisprudenza di merito e legittimità.
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A) L’IMPRESCINDIBILE NECESSITA’ DI APPLICARE LO SFRIDO – ILLEGITTIMITA’ DELL’OPERATO DEI VERIFICATORI ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E LEGITTIMITA’. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 2729 C.C. E DELL'ART. 39 D.P.R. N. 600/1973.
Innanzitutto, si manifestano evidenti vizi logico-giuridici esaminando il primo dato “presunto” dall'Ufficio: quale percentuale del pane acquistato può verosimilmente essere stata consumata dalla clientela del ristorante.
Secondo quanto affermato negli avvisi, il 100% del pane acquistato dal ristorante sarebbe stato consumato da clienti dello stesso e dovrebbe essere considerato rappresentativo di coperti.
Pertanto, con lampante vizio logico-motivazionale, violazione di ogni massima di esperienza e violazione di qualsiasi indice di verosimiglianza, i Verificatori:
- non deducono, neanche forfettariamente, il quantitativo di pane esclusivamente destinato alla cucina, per fini alimentari, indispensabile per la preparazione di talune portate;
- non deducono, neanche forfettariamente, il quantitativo di pane destinato al consumo dei soci e del personale di servizio eventualmente presente;
- e soprattutto, non sottraggono il quantitativo di pane divenuto inutilizzabile perché deteriorato (che considerando la fisiologica deperibilità giornaliera del pane dovrebbe, invece, assumere ampia rilevanza).
Peraltro, la prassi degli Uffici (formatasi in casi del tutto analoghi) è quella di riconoscere (trattandosi di ragionamenti presuntivi fondati su inferenze concatenate) una riduzione “a forfait”, di modo tale da tenere in considerazione le circostanze/variabili menzionate.
In altri termini, tale tipologia di ragionamenti inferenziali vengono ricondotti nell'ambito della verosimiglianza riconoscendo degli “sfridi”, ossia delle riduzioni forfetarie, al fine di tener conto del pane consumato dal personale di servizio, ormai deterioratosi perché indurito, quello adoperato per la preparazione di pietanze e via discorrendo.
Riduzione indispensabile, per l'appunto, per rendere il ragionamento – che permane assiso non su dati oggettivi ma su presunzioni – quantomeno verosimile (4).
E ciò è stato in più occasioni riconosciuto dalla Suprema Corte di Cassazione (ex pluribus Cass. sentt. nn. 51/1999, 6465/2002, 9884/2002) (5).
Ed infatti un adeguato sfrido o riduzione forfetaria viene sempre riconosciuto già dagli stessi organi verificatori che per l'appunto, in casi analoghi, instaurano al riguardo uno specifico contraddittorio avente ad oggetto l'entità dello sfrido (ex pluribus proc. definito con sent. della Cass. n. 20060/2014, in cui già l'Ufficio aveva riconosciuto uno sfrido del 25%, elevato in primo grado al 40%, ovvero sent. n. 60 del 18 luglio 2013 della CTR, Firenze, Sez. XXIV, che conferma uno sfrido del 25%, anche in tal caso riconosciuto, dagli stessi Verificatori, già in sede di formazione dell'avviso dell'accertamento).
Così tuttavia non opera l’odierno Ufficio della Direzione Provinciale. Lo stesso, infatti, non riconosce alcuna riduzione forfettaria in ragione delle fisiologiche variabili di cui sopra, ed arriva ad elaborare una presunzione del tutto inverosimile, secondo la quale: nel corso di due anni di attività neanche una piccola frazione del pane acquistato è andata deteriorata (mai una volta, secondo il ragionamento dell'Ufficio, l'esercizio avrebbe dovuto gettare a fine giornata il pane non consumato ed ormai “induritosi”), così come neanche una minima quota-parte del pane acquistato sarebbe stata consumata dai soci ovvero dal personale di servizio eventualmente presente.
Secondo il ragionamento erariale il 100% del pane è stato somministrato ad avventori del locale ed è rappresentativo di coperti.
Un ragionamento siffatto, in quanto pienamente contrastante con principi di logica e verosimiglianza è incapace di fondare un qualsiasi ragionamento e/o prova presuntiva.
Dunque, non solo la Direzione Provinciale non utilizza presunzioni gravi, precise e concordanti, ma – addirittura – le asserzioni di cui trattasi si mostrano incapaci di assurgere al grado di mere presunzioni c.d. “semplicissime” (termine con cui vengono identificate le presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza), e si manifestano del tutto insensate ed inconcepibili.
Sotto tale profilo sono dunque indubbiamente viziati gli accertamenti impugnati.
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B) – INFONDATEZZA NEL MERITO – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 2729 C.C. E DELL'ART. 39 D.P.R. N. 600/1973.
Come già menzionato, l'Ufficio ha rideterminato il numero dei coperti che il ristorante ha servito, ricostruendone “virtualmente” i ricavi.
Per come già visto, tuttavia, il calcolo dell’Ufficio è errato e le indagini rivendicate dallo stesso piuttosto che sostenere la pretesa, a ben vedere, attestano la correttezza della dichiarazione fiscale del contribuente.
Abbiamo infatti menzionato quali dati siano stati considerati nel ragionamento:
- i verificatori hanno dapprima calcolato i coperti dichiarati dal ristorante, pari a 9.937 nel XXX e 9.818 nel XXX;
- gli stessi hanno nel contempo accertato tramite – non meglio precisate – indagini di parte pubblica (mai prodotte), asseritamente effettuate presso i ristoratori della zona, che vengono consumati tra i 100 ed i 150 grammi (c.d. consumo medio) di pane per ogni coperto (leggiamo a pagina 3 degli avvisi: “indagine di mercato fra alcuni ristoratori nella zona del XXX, da cui si desume che per ogni singolo coperto il quantitativo medio di pane è di circa 100-150 grammi”).
- gli stessi infine hanno accertato l’acquisto di e 1.370,6 kg di pane nel XXX e 1.296,5 kg di pane nel XXX (c.d. quantitativo di pane acquistato).
I verificatori hanno quindi incrociato i tre dati, considerato il quantitativo di pane acquistato dal panificio di cui sopra quale criterio per esaminare la congruità dei coperti dichiarati sulla base del consumo medio di pane sopra indicato.
Orbene, la logica di cui a tale metodologia accertative vorrebbe che, nel caso in cui il consumo di pane sia superiore a quello consumabile – sulla stessa base dei dati indicati dall’Ufficio – dai coperti regolarmente dichiarati, in tal caso, l’eccedenza attesti l’esistenza di ulteriori coperti non dichiarati.
Ma a ben vedere, applicando tale metodo i coperti dichiarati risultano assolutamente congrui ed in linea (con le risultanze delle indagini sul consumo medio di pane indicate dallo stesso Ufficio).
Riproduciamo ancora una volta il ragionamento con precisione matematica.
Applicando tale criterio (e dunque incrociando i primi due dati) si dovrebbe giungere alla conclusione che è ragionevole che, nel XXX, i 9.937 coperti abbiano consumato tra i 993,7 ed i 1.490,55 kg di pane e che, nel XXX, i 9.818 coperti abbiano consumato tra i 981,8 kg ed i 1.472,7 kg di pane.
Ciò che risalta all’occhio immediatamente è che il quantitativo di pane acquistato (dato n. 3) è ampiamente inferiore rispetto a quello presuntivamente consumato dai coperti regolarmente dichiarati sulla base della media di consumo indicata dall’Ufficio.
Questo ragionamento non conferma forse la congruità dei coperti dichiarati?
Non è forse vero che per addivenire a nuova materia imponibile i verificatori anziché applicare correttamente il criterio, hanno considerato il consumo per ciascun cliente di soli 100 grammi, e ciò pur continuando ad indicare che un cliente ne consuma tra i 100 ed i 150?
Insomma, la motivazione offerta all’evidenza non è in alcun modo capace di sostenere la pretesa.
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Il tutto, come menzionato, assumendo l'imparzialità delle indagini di mercato operate dall'Ufficio, che il contribuente, vedendo per l'effetto compromessi irrevocabilmente i propri diritti di difesa, non ha potuto neanche esaminare (con chiara violazione di quanto disposto dall'art. 7 L. 212/2000).
Pertanto, gli accertamenti si mostrano illegittimi anche solo perché effettuano un richiamo a documenti/dati (id est le presunte indagini di mercato) rispetto ai quali il contribuente non è posto in condizione, tra l'altro:
a) di verificare la metodologia di determinazione adoperata;
b) di esaminare la tipologia di esercizi presunti “similari” posti a base del calcolo e le caratteristiche di questi ultimi (a titolo esemplificativo, è noto che il consumo di pane da parte del singolo avventore, all'interno di una trattoria come quella gestita dalla società ricorrente, è decisamente maggiore rispetto al consumo di pane che avviene in altre tipologie di esercizi);
c) di verificare se le informazioni di cui trattasi siano desunte dall'analisi di un campione seriamente rappresentativo del mercato di riferimento ovvero provengano da indicazioni acquisite da un singolo ristoratore; e via discorrendo.
Al contribuente è stata, dunque, preclusa – in spregio all'art. 24 Cost. e all'art. 7 L. n. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) – addirittura la possibilità di svolgere qualsiasi tipo di verifica sulla correttezza e attendibilità di tali dati.
Sulla base di tutto quanto esposto, non vi è alcun dubbio in ordine all'infondatezza ed illegittimità degli avvisi di accertamento in questa sede impugnati.
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C) DIFETTO DI MOTIVAZIONE. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 7 DELLA LEGGE N. 212/2000.
Salvo quanto retro, va rilevata l'illegittimità degli avvisi impugnati, i quali, per come formulati, si pongono in contrasto con precise disposizioni di legge.
Come già menzionato, infatti, la motivazione di entrambi gli avvisi richiama atti e/o risultanze che non sono né conosciuti né conoscibili dal contribuente (tra cui, per l'appunto, le presunte “indagini di mercato” che dimostrerebbero quale sia il consumo medio di pane da parte del singolo avventore), senza procedere ad una loro allegazione.
Dunque, il diritto di difesa della ricorrente si trova irrimediabilmente compromesso. Come potrebbe la stessa effettuare un vaglio critico su dati/risultanze di cui nulla è noto?!
In punto di stretto diritto, un modus operandi siffatto contrasta con quanto stabiliti dall’art. 7 della L. n. 212/2000, giusto il quale: “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
Orbene, come menzionato, l’Ufficio richiama non meglio precisate “indagini di mercato”. Nulla è dato sapersi su quali siano tali presunte indagini, su quando le stesse siano state effettuate, né con quali modalità o con quali criteri. Con ciò la contribuente risulta privata di ogni possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, a tutela del quale è previsto l'imprescindibile obbligo dell’Amministrazione Finanziaria di motivare i propri atti.
In altri termini, la contribuente non è posta in grado di verificare l'attendibilità dei dati asseriti ma non provati dai Verificatori.
Quindi, non solo, da un lato, il deficitario ragionamento dell'Ufficio risulta incapace di dar corpo ad una motivazione idonea ad illustrare sufficientemente le ragioni di fatto e di diritto sottostanti la pretesa tributaria (nullità degli avvisi per omessa motivazione) ma, addirittura, sotto un secondo profilo, gli avvisi di accertamento si presentano radicalmente nulli per mancata allegazione di atti in essi richiamati (nullità degli avvisi per omessa allegazione di atti ivi richiamati), e quindi per violazione del dettato di cui all'art. 7 della L. n. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente).
In virtù di quanto esposto, non possono ritenersi assolti, in alcun modo, gli obblighi richiesti dalla legge affinché gli atti impositivi trovino legittimazione giuridica; per l'effetto gli stessi dovranno essere dichiarati insanabilmente nulli ed improduttivi di ogni effetto.
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(1) Non è dato tuttavia sapere se tale assunto corrisponda a verità e se la constatazione sia o meno divenuta definitiva.
(2) Sulla stessa base dei dati indicati dall’Ufficio.
(3) Ma se quello è il consumo “minimo” è evidente che ci saranno clienti che avranno consumato un quantitativo maggiore di pane, e che non tutti avranno consumato il quantitativo minimo.
(4) La decurtazione “a forfait” è indispensabile per dare una parvenza di verosimiglianza a conteggi influenzati non da dati reali, ma da ragionamenti totalmente fondati su presunzioni.
(5) E ciò vale per tutte le metodologie di rideterminazione induttiva. A titolo esemplificativo è stato affermato che “l'Ufficio deve, del pari, ragionevolmente sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili”). A maggior ragione ciò vale per il pane, per la rapida deperibilità di tale prodotto, di gran lunga maggiore a qualsiasi altro elemento posto a base della metodologia di accertamento induttivo, come ad esempio, l’acqua, i tovaglioli, il caffè e via discorrendo.
(6) Infatti, le presunte indagini di mercato non sono mai state esibite né tanto meno sono state allegate agli avvisi (benché dagli stessi richiamate a base “fondante” del ragionamento erariale).
(7) Come sarebbe se fosse realmente rispettato l'obbligo motivazionale gravante sull'Ufficio.
(8) Come noto, infatti, il ruolo della motivazione si individua, da un lato, nella sua essenza di rappresentazione della giustificazione del potere autoritativo esercitato nel caso concreto e, dall’altro, quale strumento di garanzia del diritto di difesa a tutela del contribuente.
In altri termini, la funzione della motivazione dell’atto impositivo si esplica nel rendere edotto il contribuente dei presupposti di fatto e di diritto sui quali la rettifica è fondata, nonché dell’iter logico-giuridico in base al quale l’Amministrazione Finanziaria è giunta all’affermazione, in via autoritativa, di una determinata pretesa impositiva.
È evidente, in questi termini, che le argomentazioni alla base della pretesa di pagamento devono essere portate alla conoscenza del contribuente integralmente, e ciò per consentire allo stesso di predisporre un'efficace difesa. Il tutto con la immediata ed evidente conseguenza della necessità che la motivazione consti nella chiara esposizione di tutti gli elementi necessari affinché le predette funzioni vengano effettivamente espletate, vale a dire, di tutti gli elementi su cui la pretesa risulta fondata.
La causa è stata definita con accoglimento dei ricorsi dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, n. 8397/16, passata in giudicato.
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