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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 20750 dell’1 agosto 2019
Rilevato che:
1. L' Agenzia delle Entrate, all'esito di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con separati atti d'accertamento ha rettificato, ai fini IRPEF, IVA ed IRAP, le dichiarazioni della ditta di S., esercente un'impresa di pompe funebri, per gli anni d'imposta 2006, 2007 e 2008, richiedendo maggiori imposte ed irrogando le relative sanzioni. La Guardia di Finanza aveva infatti rilevato: - l'omessa registrazione di fatture nel registro IVA, con conseguente recupero dell'imponibile evaso; - la sottofatturazione dei servizi di pompe funebri, sulla scorta di dichiarazioni rese da clienti della contribuente, oltre che dallo stesso titolare della ditta, il quale aveva indicato come prezzo medio del servizio la somma di euro 2.300,00;
- una difformità, non giustificata, rispetto alla contabilità, nelle giacenze di «casse/cofani» fisicamente rinvenute in magazzino, che, in mancanza di diverse spiegazioni, doveva ritenersi derivante da servizi non contabilizzati e non fatturati.
2. Avverso i predetti atti impositivi, il contribuente ha proposto ricorso dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Perugia, deducendo che: -il rilievo dell'omessa contabilizzazione di alcuni servizi aveva generato una doppia tassazione nel conteggio operato dai verificatori; -la sottofatturazione era infondata nell' an e nel quantum, essendo stata rilevata dall'ufficio con procedimento deduttivo in violazione del divieto di doppia presunzione e con applicazione di un prezzo medio del servizio, determinato in euro 2.300,00, ricavato da dichiarazioni erroneamente interpretate;
- l'omessa fatturazione di ricavi, effettuata sulla base della ricostruzione del magazzino, era errata nella rilevazione delle giacenze, che non teneva conto di un errore contabile della contribuente, e nel criterio probatorio adottato, che aveva violato il divieto di doppia presunzione e, al fine di accertare il numero dei servizi funebri effettivamente eseguiti nei relativi periodi d'imposta, non aveva fatto ricorso ad accertamenti presso i competenti uffici dei Comuni nei quali aveva operato la ricorrente. Riuniti i ricorsi, l'adita CTP li ha rigettati, ritenendo che: - l'omessa fatturazione di operazioni attive risultava accertata e documentata; - non emergevano gli errori di contabilizzazione con i quali il ricorrente aveva tentato di spiegare le rilevate difformità; - il prezzo medio dei servizi era stato dichiarato dallo stesso contribuente; - il mancato accertamento del numero dei servizi funebri effettuati presso i Comuni segnalati dal ricorrente non era rilevante, atteso che non poteva escludersi che la ditta avesse operato anche presso altri Comuni, e considerato peraltro che delle discrepanze, rispetto a quanto dichiarato, emergevano già dai riscontri con i dati emergenti dai Comuni indicati dal contribuente.
3. Proposto appello dal contribuente, la Commissione tributaria regionale dell'Umbria, con la sentenza n. 142/03/12, depositata il 16 novembre 2012, lo ha respinto.
4. Il contribuente propone ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della predetta sentenza d'appello. 5. L'Ufficio si è costituito con controricorso. 6. Il contribuente ha depositato memoria, nella quale ha fatto menzione di sopravvenuti provvedimenti di autotutela parziale che non risulta aver prodotto e notificato, ex art. 372 cod. proc. civ., alla controparte.
Considerato che:
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ.; e degli artt. 39, comma 2, e 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 54, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972. Assume infatti il ricorrente che le dichiarazioni dello stesso contribuente in ordine al prezzo medio dei servizi funebri praticati non sarebbe rappresentativa e sarebbe limitata all'anno in cui è stata resa, non estendendosi agli anni d'imposta precedenti ed oggetto degli accertamenti controversi. Inoltre, le dichiarazioni rese ai verificatori da alcuni clienti del ricorrente sarebbero elementi indiziari privi dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, anche perché non rappresentative, per tipologia e quantità dei servizi resi. Avrebbe quindi errato il giudice a quo nel ritenere che la contestata fatturazione fosse dimostrata dalle dichiarazioni rese da diversi clienti della ditta e dallo stesso titolare di quest'ultima, considerando che esse erano concordanti e che trovavano corrispondenza anche in operazioni regolarmente registrate dalla ricorrente, ove erano annotati corrispettivi coerenti a quello ritenuto dall'Ufficio sulla base di tutti tali elementi.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 92,110 e 163 del d.P.R. n. 917 del 1986; dell' art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2727 cod. civ.
2.1. Con una prima censura, il ricorrente assume che il giudice a quo avrebbe errato nel ritenere corretta la determinazione induttiva del reddito imponibile fondata sulla ricostruzione delle giacenze di «casse/cofani» rinvenute in magazzino al momento della verifica. Infatti, prosegue il ricorrente, i verbalizzanti hanno determinato all'1 gennaio 2010 le esistenze iniziali effettive in 123 elementi (quantificati aggiungendo a quelli fisicamente presenti al momento della verifica quelli risultati utilizzati nel periodo e sottraendo quelli acquistati), in luogo dei 92 contabilizzati, deducendo pertanto che la differenza, pari a 31., era stata acquistata senza fattura ed era imputabile a reddito evaso, quantificato mediante la moltiplicazione del numero di «casse/cofani» mancanti per il prezzo medio di cui ante. Il ricorso al medesimo procedimento, applicato a ritroso agli anni precedenti ed oggetto dell'accertamento, muovendo non dal dato contabile dichiarato dal contribuente, ma da quello rilevato dall'Ufficio nell'anno successivo, senza che esso fosse depurato dalle cessioni presunte e già imputate ad ogni esercizio, determinerebbe, a detta del ricorrente, un effetto moltiplicativo dell'imposizione, che avrebbe invece potuto essere evitato identificando semmai il numero degli elementi che si presumevano acquistati e ceduti «in nero» con il relativo risultato di giacenze iniziali effettive più alto dell'intero periodo esaminato, ovvero 82 per l'anno 2006. L'errore, a detta del contribuente, consisterebbe nell'aver utilizzato il dato, rilevato, delle esistenze iniziali alla data dell'1 gennaio 2010 per determinare le rimanenze finali dell'anno precedente, e così a ritroso per gli anni accertati, reiterando per ciascuno di essi lo scosta mento di partenza, cosicché il maggior reddito imponibile sarebbe tassato più volte. Tale metodo violerebbe pertanto il divieto della doppia imposizione di cui all'art. 163 del d.P.R. n. 917 del 1986; nonché l'art. 92, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo il quale le rimanenze finali di un esercizio nell'ammontare indicato dal contribuente costituiscono le esistenze iniziali dell'esercizio successivo; oltre che l'art. 110, comma 8, del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, per il quale la rettifica da parte dell'ufficio delle valutazioni fatte dal contribuente in un esercizio ha effetto anche per gli esercizi successivi, e l'ufficio tiene conto direttamente delle rettifiche operate e deve procedere a rettificare le valutazioni relative anche agli esercizi successivi. Tutte tali norme, secondo il contribuente, orienterebbero necessariamente la determinazione delle rimanenze finali rettificate non a ritroso, ma pro futuro, in modo da tenerne conto, quali esistenze iniziali e costi, nell'esercizio successivo, quindi a favore del contribuente.
2.2. Con un'ulteriore censura, il ricorrente critica la sentenza impugnata per avere ritenuto corretto l'accertamento induttivo effettuato dall'Ufficio utilizzando un'inammissibile serie di presunzioni ai fini della rideterminazione del reddito imponibile. Lamenta infatti il ricorrente che la ricostruzione contenuta nell'atto impositivo muoverebbe dalla presunzione che ogni «cassa/cofano» acquistato senza fattura fosse destinato ad essere utilizzato per servizi di pompe funebri che a loro volta non sarebbero stati fatturati dal contribuente; e su tale prima presunzione fonderebbe quella, ulteriore, che ogni «cassa/cofano» sarebbe stato utilizzato per un servizio funebre completo.
3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero l'omessa valutazione della documentazione prodotta in appello dalla stessa parte privata e consistente nella certificazione, rilasciata dai vari Comuni dell'Umbria, dei servizi effettivamente resi dalla ditta del contribuente. Assume infatti il ricorrente che la normativa sanitaria ed amministrativa in materia mortuaria comporterebbe l'impossibilità di prestare servizi funerari omettendone la fatturazione, cosicché la produzione delle certificazioni attinenti tutte le attività svolte dallo stesso contribuente presso tutti i Comuni umbri avrebbe rilevanza probatoria ai fini dell'esclusione delle operazioni, con relativo maggior reddito imponibile, che gli sono state attribuite induttivamente dall'Ufficio. Il giudice avrebbe tuttavia omesso ogni valutazione di tale documentazione.
4. Per motivi di ordine logico, appare opportuno esaminare innanzitutto il terzo motivo, per la sua potenziale capacità, ove accolto, di assorbire i restanti. Il motivo è fondato e va accolto. Infatti, come risulta dal ricorso (che, a pag. 29, ha riprodotto in parte l'atto di appello, che menziona l'avvenuta produzione dell'allegato documento n. 9) e dallo stesso controricorso (che della stessa produzione dà atto a pag. 9), ha versato in atti, nel giudizio di secondo grado, certificazioni dei Comuni umbri che attestano le autorizzazioni al trasporto o al seppellimento dei defunti rilasciate, o meno, da ciascun ente territoriale alla ditta del ricorrente. La motivazione della sentenza impugnata (alle pag. 7 s.), sul punto, da un lato assume genericamente l'esistenza di «numerose discrepanze già nel confronto con la certificazione prodotta dal ricorrente», con una formula apodittica, che non consente di comprendere l'oggetto ed i termini del confronto operato ed il contenuto delle «discrepanze» che ne sarebbero emerse; dall'altro, esclude che l'Ufficio fosse tenuto ad assumere analoghe informazioni presso tutti i Comuni italiani. Le argomentazioni della CTR si traducono quindi nella sostanziale omissione della valutazione della documentazione in questione e, quindi, nell' omesso esame di un fatto secondario, dedotto come giustificativo dell'inferenza di un fatto ignoto principale, che essa era destinata a dimostrare, a discarico del ragionamento presuntivo utilizzato dall'Amministrazione ai fini dell'accertamento induttivo (cfr. Cass., 06/07/2018, n. 17720), ovvero l'effettiva dimensione dell'attività svolta dal contribuente, nell'anno d'imposta in questione, quanto meno nella regione in cui ha sede la sua ditta. Invero, sebbene non potesse attribuirsi all'Ufficio l'onere di verificare, presso tutti i Comuni d'Italia, la presenza o meno di pratiche svolte dal ricorrente nel periodo controverso, era invece dovuta dal giudice a quo la valutazione effettiva della documentazione concretamente prodotta dal contribuente, la cui limitazione alla sola regione umbra, in considerazione della collocazione geografica della ditta, non appare peraltro a priori pretestuosa o irragionevole. L'accoglimento del terzo motivo comporta pertanto la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo affinché, in diversa composizione, proceda ai necessari accertamenti in fatto ed a nuova decisione. 5. Gli ulteriori motivi restano assorbiti.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo; dichiara assorbiti gli ulteriori motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell'Umbria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il 31 maggio 2019.
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