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Prima di esaminare nel dettaglio la pronuncia, semplifichiamo alcuni concetti di base in materia di prezzi di trasferimento (transfer price).
Qual è il principale articolo di legge rilevante in materia di transfer price?
Il settimo comma dell’art. 110 TUIR prevede, in deroga al principio di valutazione in base ai corrispettivi pattuiti, una particolare modalità di valutazione dei componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti appartenenti al medesimo gruppo; nello specifico questi, secondo quando recita la disposizione, “sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito”.
Cos’è il transfer pricing e perché è prevista la regola di cui all’art. 110, comma 7?
La norma, contenuta nel settimo comma dell’art. 110 del TUIR, è volta a contrastare il fenomeno del c.d. transfer pricing, ossia la pratica concretantesi nella pattuizione di prezzi difformi da quelli che sarebbero stati pattuiti in base a normali condizioni di mercato per le cessioni di beni o le prestazioni di servizi tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo, al fine di trasferire dei redditi da un soggetto del gruppo ad altro sottoposto a minore tassazione. Sostanzialmente, al fine di sottoporre il gruppo ad un minore carico fiscale complessivo, le transazioni interne al gruppo stesso sono congegnate in modo tale da spostare i ricavi da società situate in Paesi a fiscalità elevata a società situate in Paesi con minore pressione fiscale, facendo figurare un aumento delle spese ed una diminuzione dei ricavi nelle prime, e una diminuzione delle spese ed un aumento dei ricavi nelle seconde.
Si tratta di un fenomeno alquanto risalente, da lungo tempo preso in considerazione dai vari legislatori. Per quanto riguarda il nostro ordinamento, la prima previsione legislativa riguardante la problematica dei prezzi di trasferimento si ritrova nell’art. 17 della legge 1231 del 1936, disposizione che fu sostanzialmente ripresa nell’art. 113 del T.U. approvato con legge n. 645 del 1958; successivamente la tematica dei prezzi di trasferimento fu più ampiamente regolata attraverso gli artt. 53 e 56 del DPR 597/1973 e da ultimo, a seguito delle indicazioni espresse in sede OCSE nel 1979, recepite dall’Amministrazione finanziaria prima con circolare n. 9/2267 del 1980 e poi nella circolare n. 42 del 1981, ha trovato collocazione nell’art. 76 comma 5° del TUIR (ora divenuto, a seguito della riforma del 2003, l’art. 110 7° comma).
La ratio della norma in commento è quella di impedire il trasferimento di utili da uno Stato ad un altro, di evitare l’abbattimento del reddito sottoponibile ad imposizione in Italia perseguito attraverso un’indicazione non veritiera dei componenti di reddito, che nella forma più rudimentale avviene facendo figurare prezzi maggiorati o ridotti rispetto a quelli di mercato in realtà praticati, al fine di ridurre l’imposizione fiscale complessiva del gruppo.
Il legislatore, per scongiurare tale eventualità, prevede una presunzione di cessione a prezzo normale, di modo tale da disconoscere i vantaggi fittiziamente creati attraverso tale pratica.
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Comm. Trib. Reg. per la Lombardia Sezione/Collegio 24
Sentenza del 07/06/2018 n. 2629
Testo:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Considerato che:
con avviso notificato alla N. S.P.A., I'AGENZIA delle ENTRATE - DIREZIONE PROVINCIALE di MONZA e BRIANZA accertò, per l'anno d'imposta 2010, un maggior reddito imponibile, da dichiarare a norma dell'art. 9, comma 3, ed art. 110, commi 2 e 7, d.P.R. 917/1986, pari ad 634.091,57, comportante una maggiore l.RE.S: pari ad € 174.375,00, oltre ad accessori. L'accertamento nasceva da una verifica fiscale e si basava sulla normativa del transfer price. La società, soggetta a verifica, produce e distribuisce pennelli, rulli e strumenti per dipingere ed altri prodotti per il bricolage ed il fai-da-te ed appartiene interamente alla N.G. S.p.a., società con sede in Italia. Questa, a sua volta, dipende al 100 % dalla casa madre N.L. & C. S.r.l., e detiene anche altre partecipazioni in società controllate in vari paesi europei ed extraeuropei, che, con la società sottoposta ad accertamento, intrattengono rapporti commerciali, sia di acquisto, che di vendita. Secondo l'Ufficio accertatore la società applica per alcuni prodotti dei prezzi di vendita maggiori ai clienti terzi indipendenti rispetto a quelli mediamente applicati alle società del gruppo. La N. S.p.a. applica, sua volta, prezzi di vendita differenti anche ai terzi indipendenti, distinguendo tra la grande distribuzione organizzata ed i piccoli rivenditori.
Premesso che la società non aveva predisposto alcuna documentazione concernente il transfer pricing, a norma dell'art. 1, comma 2 ter, d.lgs. 471/1997, l'Ente impositore ha rilevato una commistione tra attività di produzione ed attività distributiva ed ha motivato con questa ragione la scelta di verificare il transfer pricing applicato dalla società con il TNMM (Transactional Net Margin Method), basandosi sullo stato patrimoniale e non sul conto economico, giudicato poco dettagliato e non adeguatamente supportato da elementi certi. L'Agenzia delle Entrate ha ritenuto, quindi, che l'indice più appropriato fosse il ROA (Return on assets: utile operativo sul totale attivo), ed ha constatato che l'utile operativo per l'anno in questione (1.231.894,00) sul totale attivo (38.799.000,00) era pari al 3,18 %, laddove nella banda di oscillazione di tali valori per le altre società operanti in settori comparabili, l'indice centrale si attestava intorno al 5,45 %. Il reddito recuperato era, dunque, pari alla differenza tra l'utile operativo dì società comparabili, operanti sul libero mercato, e il risultato operativo dichiarato dalla società.
Contro l'avviso d'accertamento la società propose ricorso avanti alla Commissione Tributaria Provinciale dì Milano per motivi dì procedimento e di merito. l'Ufficio resistette all'impugnazione. Con Sentenza n. 9639/46/15, depositata in data 30/11/2015, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha accolto il ricorso ed annullato l'avviso d'accertamento, compensando le spese tra le parti. La stessa Commissione ha osservato che, in violazione del disposto ex art. 12, commi 7 e 10, legge 212/2000, era stato utilizzato, nell'analisi del transfer pricing, un indicatore di redditività diverso da quello applicato nel processo verbale di constatazione e che non erano stati considerati gli argomenti addotti dal contribuente per la scelta del cosiddetto best method. Nel merito, i primi Giudici hanno condiviso integralmente gli argomenti di dettaglio addotti dalla società ricorrente.
Contro questa Sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto atto d'appello. La società contribuente resiste con controdeduzioni.
Motivi della decisione.
Assumendo che la Sentenza di primo grado sarebbe immotivata, l'Agenzia delle Entrate ha sostanzialmente riproposto in questo grado le ragioni a sostegno della legittimità dell'accertamento, già esposte alla Commissione Tributaria Provinciale. Quindi l'Agenzia delle Entrate giustifica il cambiamento di metodo utilizzato nell'accertamento in sostituzione di quello utilizzato in sede di processo verbale dì contestazione, con la mancanza di documentazione offerta dalla società.
Tuttavia questa spiegazione non vale a giustificare l'operato dell'Agenzia delle Entrate. L'indice preso inizialmente in esame per la contestazione alla società sottoposta a verifica era il ROS (risultato operativo medio per unità di ricavo). Avendo la società osservato che tale indice non poteva essere applicato uniformemente all'ammontare di tutti i ricavi, occorrendo prendere in considerazione solo i ricavi derivanti da transazioni infra gruppo, l'Agenzia delle Entrate, che aveva riconosciuto l'esattezza dell'osservazione, invece di chiedere alla società il conto economico relativo alle operazioni infra gruppo, ha proceduto all'accertamento sulla base di un indice completamente diverso, il ROA (Return on assets: utile operativo sul totale attivo) e, per calcolare il totale attivo delle transazioni infragruppo, ha selezionato un campione di 25 prodotti ritenuti maggiormente rappresentativi. In tal modo l'Agenzia delle Entrate, per un verso, è venuta meno all'obbligo di lealtà, vanificando completamente il senso del contraddittorio anticipato, giacché esso si è svolto interamente utilizzando un metodo diverso da quello utilizzato nell'accertamento, senza che fosse stata esplorata la possibilità di correggere la contestazione iniziale, invitando la contribuente a produrre la documentazione specificatamente occorrente ed omettendo una nuova contestazione, sulla quale la stessa società potesse esporre le sue osservazioni. Ciò concreta la violazione dei disposti ex art. 12, comma 7, e 10, legge 212/2000.
L'accertamento, per altro, è nullo, perché il metodo prescelto è stato applicato in modo inadeguato.
Innanzi tutto è stato utilizzato un campione non rappresentativo, perché insufficiente a dimostrare il transfer pricing applicato dalla società. Le vendite infragruppo dei prodotti presi in esame dall'Ufficio sono dell'ordine di pochi punti percentuali sul totale delle vendite menzionate e, quindi, non sono rappresentative; infatti il campione, preso in esame, è troppo ristretto per consentire la ricostruzione presuntiva del valore di tutti i beni trasferiti infragruppo.
La società aveva osservato, nel giudizio di primo grado, che le differenze di prezzo, riscontrate nel corso della verifica fiscale, dipendevano dal diverso livello di commercializzazione delle transazioni prese in esame, posto che le società consociate operano nei mercati esteri come distributori non esclusivi sia nei confronti di grossisti, che nei confronti di imprese della grande distribuzione. La censura al riguardo formulata dall'Agenzia delle Entrate nell'atto d'appello, secondo cui tutte le aziende hanno come clienti sia grossisti, che imprese della grande distribuzione, non è giustificata nè da specifiche produzioni nel giudizio, nè da dati di comune esperienza.
La comparabilità delle imprese campione è stata contestata sotto il profilo che l'Ufficio ha preso in considerazione società con volumi d'affari di gran lunga inferiori a quelle di N. che ammonta a circa € 30.000.000,00; solo 1 delle società di comparazione su 11, infatti, raggiunge i 10 milioni di fatturato. Su questo punto l'Agenzia delle Entrate non ha sollevato alcuna contestazione. Tanto basta però ad inficiare il valore del campione delle società di comparazione, perché un forte divario del volume di affari comporta generalmente che le imprese più grandi pratichino prezzi di vendita inferiori, giustificati da economie di scala.
L'Ufficio non ha contestato in appello il fatto che, nel biennio 2007 - 2010, la redditività della N. era stata sempre superiore a quella delle società campione.
L'argomento che precede rafforza la rilevanza dell'evento dedotto dalla società per giustificare la riduzione della redditività nel periodo 2010 - 2011: l'acquisto di C. da parte del gruppo A. (cliente, come la C., della società contribuente), che aveva ridefinito in senso deteriore le condizioni contrattuali e provocato un aggravio dei premi sul fatturato riconosciuti al gruppo A..
Quindi appare condivisibile l'osservazione dell'appellata, che la generica presunzione del tendenziale adeguamento dei profitti conseguiti da imprese operanti nello stesso settore ed in condizioni analoghe è vinto dalla dimostrazione di un fatto specifico che altera le condizioni di comparazione.
In conclusione l'appello è infondato e deve essere respinto. Le spese sono a carico della parte soccombente e sono liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
Respinge l'appello e condanna l'Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del grado, liquidate in € 10.000,00 (diecimila/00) per compenso, oltre agli accessori di legge.
Milano, 13/06/2017
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