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CTR Lombardia respinge l’appello dell’Agenzia delle Entrate: la cessione della lista clienti e dipendenti non è cessione di ramo d’azienda a fini fiscali

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Massima: “La cessione della lista clienti e di dipendenti privi di poteri di rappresentanza, da parte della consociata, non costituisce una cessione di ramo d'azienda, ovvero di un compendio in grado di produrre in via autonoma un reddito d'impresa. Ne consegue che la deduzione del costo d'acquisto è nei limiti di un decimo anziché un diciottesimo”.

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Comm. Trib. Reg. per la Lombardia Sezione/Collegio 24

Sentenza del 24/05/2018 n. 2379 -

FATTO

L'Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale I di Milano propone appello contro la sentenza della Commissione provinciale di Varese in epigrafe, di parziale accoglimento del ricorso della Q.I. s.r.l. contro l'avviso di accertamento n. T93XXXXX83/2015, con il quale la Direzione provinciale dell'Agenzia delle Entrate odierna aveva rettificato il reddito della società ai fini IRES per l'anno di imposta 2010.

In particolare con questo atto impositivo l'Ufficio recuperava a tassazione:

- costi per operazioni infragruppo ex art. 110, comma 7, del testo unico sulle imposte sui redditi di cui al d.P.R. n. 917 del 1986 per ? 2.270.758,14;

- quote di ammortamento per un'operazione di cessione di clientela dalla propria consociata estera Q.C. BV ritenute indeducibili, sulla base della riqualificazione della stessa come cessione di ramo d'azienda per ? 63.466,67, ai sensi dell'art. 103, comma 3, del medesimo testo unico.

Con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria adita dichiarava l'estinzione parziale del giudizio per rinuncia, limitatamente al primo rilievo ed accoglieva per il resto il ricorso della Q.I..

Il giudice dì primo grado escludeva che l'operazione di cessione di clientela avesse dato luogo al trasferimento di «una articolazione organizzativa dotata di stabile autonomia funzionale», a causa dell'assenza di prova che il «compendio formato dalla lista dei clienti ceduta e da due dipendenti impiegati, possa configurare l'insieme di quei beni organizzati atti a produrre reddito autonomamente».

In dispositivo la Commissione tributaria provinciale pronunciava anche l'annullamento dell'ulteriore rilievo contenuto nell'avviso di accertamento, consistente nella violazione dell'art. 1, commi 2 e 2-ter, d.lgs. n. 471 del 1997 (introdotto dall'art. 26 d.l. n. 78 del 2010), per l'inidoneità della documentazione tenuta dalla società contribuente a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell'ambito delle operazioni infragruppo oggetto di verifica.

Nel proprio appello, l'Agenzia delle Entrate censura l'accoglimento parziale del ricorso sotto entrambi i punti a sé sfavorevoli ed insiste nel sostenere la legittimità delle pretese contenute nell'atto impositivo impugnato.

Per resistere all'appello si è costituita con controdeduzioni la società originaria ricorrente.

DIRITTO

Con un primo ordine di censure l'Agenzia delle Entrate lamenta il fatto che l'annullamento della sanzione ex art. 1, commi 2 e! 2-ter, d.lgs. n. 471 del 1997 sia stato pronunciato senza una sottostante motivazione.

Nel merito l'Ufficio ribadisce la legittimità della sanzione, a causa dell'inidoneità della documentazione detenuta dalla Q.I. ed esibita nel corso della verifica fiscale da cui scaturisce l'avviso di accertamento oggetto del presente giudizio a determinare il valore normale degli acquisti di beni compiuti dalla società originaria ricorrente nell'anno di imposta in contestazione. Attraverso un'analitica ricostruzione dei costi e dei ricavi imputabili alla società contribuente l'Amministrazione finanziaria dimostra l'inattendibilità de valori relativi alle operazioni infragruppo da quest'ultima dichiarati.

In contrario la Q.I. evidenzia che la disposizione di cui all'art. 1, comma 2-ler, d.lgs. n. 471 del 1997 ha una finalità premiale rispetto a fattispecie in cui sebbene il valore delle transazioni infragruppo risulti determinato in concreto in modo non conforme all'art. 110, comma 7, d.P.R. n. 917 del 1986, nondimeno lo stesso sia comunque determinabile dall'Amministrazione finanziaria sulla base della documentazione aziendale messa a disposizione dalla società contribuente, a prescindere dagli esiti cui le parti sono rispettivamente pervenute. In ordine a tale profilo la Q.I. sottolinea quindi che l'idoneità della propria documentazione è nel caso di specie dimostrata dal fatto che l'Ufficio impositore ha potuto ricostruire il valore delle transazioni ai fini della rettifica reddituale contenuta nell'avviso di accertamento. Nel merito la società contribuente contesta le ricostruzioni fatte dall'Agenzia delle Entrate e sostiene che le stesse comportano un'ingiustificata sottostima della propria marginalità.

Da ultimo la Q.I. ricorda che le annualità precedenti a quella in contestazione nel presente giudizio (2007, 2008 e ;2009) sono state definite con pronunce a sé favorevoli.

Così sintetizzate le opposte deduzioni difensive, questa Commissione ritiene che le censure formulate dall'Amministrazione finanziaria nel proprio appello siano infondate.

Con riguardo all'annullamento della sanzione ex art. 1, commi 2 e 2-ter, d.lgs. n. 471 del 1997, deve rilevarsi che l'assenza di motivazione sul punto nella sentenza di primo grado non inficia la conformità a diritto di quest'ultima. Va premesso al riguardo che nel processo tributario l'appello ha natura di rimedio devolutivo, limitatamente ai punti della sentenza censurati, e non cassatorio, per cui eventuali carenze motivazionali non comportano l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice di primo grado, ma comportano il riesame della questione controversa da parte del giudice d'appello.

Ciò precisato nel caso di specie devono essere condivise le difese della Q.I. circa l'illegittimità della sanzione applicata nei propri confronti.

La disposizione del comma 2-ter dell'art. 1 d.lgs. n. 471 del 1997 - il quale prevede che <

Tutto ciò precisato, deve ritenersi che la condotta della società originaria ricorrente sia risultata conforme agli obblighi in questione. Prova insuperabile di quanto ora rilevato si trae in particolare dal fatto che l'Agenzia delle Entrate ha potuto determinare il valore normale delle operazioni ex art. 110, comma 7, t.u.i.r., realizzate dalla Q.I. nell'anno di imposta in contestazione, sulla base della documentazione aziendale e contabile da quest'ultima messale a disposizione nel corso della verifica tributaria all'esito della quale è stato emesso l'avviso di accertamento impugnato nel presente giudizio.

Come poc'anzi accennato, affinché l'ipotesi di non punibilità prevista dall'art 1, comma 2-ter, d.lgs. n. 471 del 1997 sia integrata è irrilevante la ricostruzione del valore normale concretamente svolta, è sufficiente che l'Amministrazione finanziaria abbia potuto esercitare con pienezza di cognizione i suoi poteri di accertamento. La tesi opposta, su cui si fonda la sanzione irrogata alla Q.I. e il motivo d'appello qui in esame, determinerebbe quanto mai incerta l'applicazione della sanzione ex art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471 del 1997 ora richiamato in caso di operazioni infragruppo. La sanzione verrebbe quindi applicate per condotte nelle quali è arduo configurare una colpa ai sensi della norma generale in materia si sanzioni amministrative tributario di cui all'art. 5 d.lgs. n. 472 del 1997.

Come poi sottolinea la Q.I., l'interpretazione, finora sostenuta è quella fatta propria .dalla stessa Amministrazione finanziaria. Infatti, con la circolare 58/E del 15 dicembre 2010 l'Agenzia delle Entrate ha affermato che può essere considerata idonea la documentazione necessaria per l'analisi del valore delle transazioni infragruppo «indipendentemente dalla circostanza che, in esito a tale analisi dovesse risultare che tale valore sia diverso da quello individuato dal contribuente>>.

In ragione dei rilievi ora svolti il primo motivo dell'appello va respinto.

Con il secondo ordine di censure di cui quest'ultimo mezzo si compone l'Agenzia delle Entrate contesta l'annullamento della ripresa a tassazione per ammortamenti indeducibili, relativi all'acquisto da parte della Q.l. della lista di clienti dalla propria consociata estera Q. BV. Al riguardo, l'Ufficio reitera l'assunto secondo cui tale cessione, in quanto comprensiva di due dipendenti, avrebbe ad oggetto un compendio di beni in grado di produrre autonomamente un reddito di impresa e dunque qualificabile come ramo d'azienda (con conseguente deducibilità del costo d'acquisto nei limiti di 1/18, ai sensi del citato art. 103, comma 3, t.u.ì.r., anziché dì 1/10, come ritenuto dalla società contribuente.

L'Ufficio appellante richiama a sostegno dei propri assunti il potere di interpretazione e qualificazione degli atti a fini tributari, previsto dall'art. 20 del testo unico sull'imposta di registro (d.P.R. n. 13 del 1986) ed evidenzia che la società contribuente non ha fornito alcuna prova contraria rispetto alla ricostruzione fatta in sede di accertamento.

Anche questo motivo è infondato.

Sul punto vanno infatti ancora una volta condivise le deduzioni difensive della Q.I.

In particolare, premesso che l'operazione si colloca nell'ambito di una riorganizzazione della propria rete di vendita, quest'ultima contesta che elementi a sostegno della tesi dell'Ufficio possano essere ricavati dal fatto che oltre alla lista di clienti il trasferimento ha avuto ad oggetto anche due dipendenti e sottolinea che questi ultimi, riassorbiti non contestualmente alla cessione della lista di clienti, non hanno alcun potere di firma, e dunque di stipulare contratti di vendita con la clientela, ma svolgono attività di mero supporto all'attività commerciale, inidonea di per sé a produrre in modo autonomo un reddito di impresa.

Questa Commissione osserva innanzitutto che i rilievi difensivi dell'originaria ricorrente trovano riscontro nella documentazione agli atti del giudizio ed in particolare di quella depositata nel giudizio svoltosi davanti alla Commissione tributaria provinciale. In particolare, i due dipendenti in questione risultano essere stati licenziati dalla consociata estera per poi essere riassorbiti dall'odierna appellata, per cui l'ipotesi della cessione di un compendio aziendale in grado di produrre in via autonoma un reddito di impresa risulta prima facie infirmata dalla non contestualità delle risorse acquisite dalla Q.l. - id est dalla non necessità di trasferire i dipendenti unitamente alla lista di clienti affinché i rapporti commerciali con questi ultimi siano mantenuti.

Ulteriore elemento in grado di smentire l'ipotesi formulata dall'Agenzia delle Entrate è dato dal fatto che in effetti i due dipendenti non risultano disporre di alcun potere di rappresentanza della società contribuente. Pertanto, anche sotto questo profilo non si manifesta alcuna capacità produttiva di reddito di impresa in grado di connotare il loro passaggio alle dipendenze della Q.I., unitamente alla lista di clienti acquistata dalla consociata estera, come trasferimento di ramo d'azienda. Nella propria attività di riqualificazione l'Amministrazione finanziaria non è poi stata in grado di addurre altri elementi, se non richiamare impropriamente una disposizione di legge relativa ad altra imposta (il citato art 20 del testo unico sull'imposta di registro), e pretendere di ribaltare sul contribuente un onere di prova che è invece posto a suo carico, allorché intenda disconoscere a fini fiscali il valore giuridico di un'operazione e di ricondurre la stessa in diversa fattispecie.

In conclusione, l'appello dell'Amministrazione finanziaria deve essere respinto.

Le spese di causa vanno regolate secondo soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

respinge l'appello e condanna l'Ufficio appellante a rifondere alla Q.I. le spese di causa, liquidate in ? 2.500,00, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Milano, il 10 aprile 2018

 

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