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Corte di Cassazione, Sez. 5,
Ordinanza n. 6029 del 4 marzo 2020
RITENUTO CHE:
In data 24 febbraio 2010, la società Società A. G. H.L. s.r.l. (di seguito società), presentava istanza di interpello disapplicativo, ai sensi dell'articolo 30, comma 4 bis, della legge 23/12/1994 n. 724 e dell'art. 37 bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29/09/1973 n. 600, in relazione alla disciplina delle cd. società di comodo, richiesta che non veniva accolta dall'Agenzia delle Entrate per carenza dei presupposti all'uopo necessari.
La società, preso atto del rigetto, procedeva per l'anno 2009, alla determinazione delle imposte dovute in base al reddito minimo presunto (ai fini Ires) ed alla base imponibile minima (ai fini IRAP), presentando istanza di rimborso per la parte di Ires ed Irap versata in eccesso.
Anche quest'istanza veniva respinta dall'Agenzia delle Entrate per mancanza del reddito minimo presunto.
In fatto, l'Ufficio evidenziava che la società contribuente aveva locato la propria unica azienda ad un canone che non le consentiva di superare il test di operatività previsto dal d.l. n. 223/2006, conv. in I. n. 248 del 2006 e che le ragioni addotte (congruità del canone rispetto ai valori di mercato rilevati per aziende similari nella zona), non potevano costituire la situazione oggettiva richiesta per la disapplicazione della norma.
Avverso il silenzio rifiuto dell'Amministrazione finanziaria, proponeva ricorso la società contribuente che veniva accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Rimini.
Interpone appello l'Agenzia delle Entrate, che veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale con la sentenza di cui in epigrafe.
Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione l'Ufficio, affidato ad un unico motivo.
La società resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
1. L'Agenzia delle Entrate assume la violazione e falsa applicazione dell'art. 30, comma 4 bis, della legge n. 724 del 1994 e successive modificazioni, in rapporto all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., deducendo l'errore dei secondi giudici per aver dato rilevanza alla scelta della società contribuente di intestare l'immobile ad una società per concederlo in locazione a canone di mercato e non, invece, a situazioni oggettive ed indipendenti dalla volontà del contribuente, cui fa riferimento la normativa violata.
La società resiste al motivo, deducendo, preliminarmente, l'inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza; nel merito, deduce l'infondatezza del ricorso per avere la società documentato le circostanze obiettive che le avevano impedito di conseguire il reddito determinato presuntivamente dall'art. 30 L. 724/1994.
2. L'esame del motivo di ricorso richiede una breve ricostruzione della vicenda processuale.
Dall'esposizione dei fatti di cui al ricorso nonchè dalla sentenza della CTR in epigrafe risulta che: - La società contribuente concedeva in affitto il complesso aziendale, denominato P.P., alla M. s.r.I., per il periodo 28/1272006 al 31/12/2018 per un canone di affitto annuo di euro 260.000,000.
In data 24/02/2010 la società domandava all'Amministrazione finanziaria la disapplicazione dell'art.30, comma 4 bis, della legge 23/12/1994 n. 724, richiesta che non veniva accolta per carenza di presupposti all'uopo necessari.
- Successivamente "a scopo meramente cautelativo" (v. sentenza impugnata pagina 2), la società versava, per l'esercizio 2009, le imposte Ires ed Irap in base al reddito minimo presunto determinato in base alla disciplina dei soggetti non operativi e dello specifico procedimento di determinazione del reddito imponibile minimo (Ires) e della base imponibile minima (Irap) previsto dagli artt. 30, comma 4 bis, della legge n. 724 del 1994 e successive modificazioni, dell'art. 35 comma 15 e 16 della I. 248 del 2006 e dell'art. 1 comma 109 I- 296 del 2006.
- Successivamente ritenendo di dovere essere esclusa dall'ambito della disciplina richiamata, presentava istanza di rimborso per la parte di Ires ed Irap versata in eccesso sulla quale si formava il silenzio rifiuto dell'Ufficio. - La CTR, con la sentenza in epigrafe, dopo aver delimitato l'oggetto della controversia «all'accertamento dell'effettività dell'attività d' impresa della persona giuridica appellata ed alla rilevanza delle circostanze addotte da quest'ultima a giustificazione del mancato conseguimento della redditività presunta» (v. sentenza, pag. 3), ha ritenuto che «le circostanze addotte dalla contribuente per dare prova contraria alla presunzione di reddività minima hanno natura di situazioni oggettive» sulla base dei seguenti elementi circostanziali: 1) concessione in fitto a società terza - e non gestione diretta da parte della società contribuente - dell'unica azienda (PP) posseduta dalla società; 2) comparazione tra il canone di affitto percepito e canoni di fitto di aziende similari, ricadenti nella stessa zona, dalla quale è risultato che «il canone non poteva essere accresciuto in modo da raggiungere l'ammontare necessario per il superamento del test di operatività» essendo il fitto assolutamente in linea con il valore di mercato della zona;
3) irrilevanza della clausola n. 7 del contratto di affitto - che prevede l'onere di migliorie a carico del conduttore- in quanto la discrezionalità della scelta dell'affittuaria di compiere adeguamenti e migliorie «implica l'assenza di un collegamento sinallagmatico tra l'effettiva esecuzione delle opere e l'entità del canone di affitto».
Sulla base di tali elementi la CTR ha, dunque, concluso che la società contribuente ha fornito prova adeguata «dell'esistenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il raggiungimento delle soglie minime dei ricavi previste dall'art. 30 I. 724/1994 e successive modificazioni».
3. La ricostruzione della vicenda storica e dei motivi della decisione di secondo grado, è importante per comprendere perché la doglianza dell'Agenzia delle Entrate è infondata.
4. Ciò di cui l'Amministrazione finanziaria si duole - soddisfacendo i canoni di autosufficienza del ricorso - è, in buona sostanza, la violazione della normativa applicata alla controversia nella parte in cui i secondi giudici avrebbero dato prevalenza a situazioni meramente soggettive dell'impresa e non invece a situazioni oggettive e straordinarie, le uniche a consentire la disapplicazione della normativa fiscale sulle società di comodo.
5. Va evidenziato che, a differenza di quanto assume a difesa erariale, la nozione riguardante l'esistenza di una situazione oggettiva e tenuta in conto dalla CTR, risulta conforme a quella seguita dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui,
in materia di società di comodo, l'impossibilità", per situazioni oggettive di carattere straordinario, di conseguire il reddito presunto secondo il meccanismo di determinazione di cui all'art. 30 della I. n. 724 del 1994, la cui prova è a carico del contribuente, non va intesa in termini assoluti bensì economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato Sez. 5, Sentenza n. 16204 del 20/06/2018, Rv. 649230 - 01; Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 4019 del 12/02/2019, Rv. 653001).
6. Alla luce di tali principi, non risulta affatto viziato il ragionamento dei secondi giudici che hanno ritenuto soddisfacenti le circostanze addotte dalla contribuente (concessione in fitto a società terza dell'unica azienda posseduta dalla società contribuente; comparazione tra il canone di affitto percepito e canoni di fitto di aziende similari ricadenti nella stessa zona), per dare prova contraria alla presunzione di reddività minima.
7. Inoltre, non può mancarsi di considerare che, in riferimento all'anno d'imposta 2009, la dicitura "di carattere straordinario" - talvolta invocata dalla difesa erariale nel ricorso - riferita dalla normativa indicata, era già stata soppressa dalla normativa successiva (v. d.l. 04/07/2006 n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, che ha disposto, con l'art. 35, comma 15, lettera d), l'introduzione del comma 4-bis dell'art. 30 cit.), applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame (l'art. 35, comma 16, d.l. cit. dispone che le modifiche "si applicano a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto"), con ciò avvalorandosi, ancor più, la decisione dei secondi giudici.
8. Il ricorso deve essere, dunque, rigettato.
9. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso.
Condanna l'Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese di lite in favore della società controricorrente che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V Sezione Civile, in data 18 settembre 2019.
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