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Il CLIFO non era sufficiente a provare l’evasione fiscale - Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 3163 depositata il 27 gennaio 2020

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Il CLIFO non era sufficiente a provare l’evasione fiscale - Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 3163 depositata il 27 gennaio 2020

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Tra i reati tributari l’omessa dichiarazione dei redditi rappresenta un grave inadempimento e comporta una pesante sanzione per i contribuenti, tenuti a presentare annualmente il modello dichiarativo.

Con la dichiarazione dei redditi, modello Unico o 730, il contribuente è chiamato ad indicare in modo volontario i redditi conseguiti nel periodo di imposta al fine di corrispondere la relativa tassazione. Se non rispetta tale obbligo egli può essere chiamato a risponderne penalmente. Ma solo se è superata una determinata soglia.

Il contribuente è responsabile anche se, affidandosi ad un commercialista, non verifica la presentazione della dichiarazione entro le scadenze stabilite.

In particolare, l’art. 5 del D.lgs. n. 74/2000 sanziona il contribuente che, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta il modello 730 o modello Unico entro 90 giorni dalla scadenza. In tali casi la condotta è punita con la reclusione da due anni a cinque anni quando l'imposta evasa, con riferimento a taluna delle singole imposte, supera l’importo di euro 50.000,00.

Con questa norma si intende quindi punire il contribuente che non comunica all’Amministrazione Finanziata i redditi percepiti durante una certa annualità, arrecando un danno all’erario.

Ma questa omissione non è sempre punita. Si ha reato se l’importo di ciascuna imposta dovuta è considerevole, ovvero supera 50.000 euro. Se è inferiore il contribuente è tenuto a pagare una sanzione amministrativa, stabilita in misura proporzionale all’imposta evasa.

È bene precisare che l’omessa dichiarazione può riguardare sia le dirette quali Irpef, Ires ed Irap ma anche alle imposte indirette, quali appunto l’Iva.

La quantificazione dell’imposta evasa può anche venir calcolata basandosi su accertamenti sintetici ed induttivi del reddito fondati, alcune volte, sul c.d. CLI.FO, l’elenco dei clienti e dei fornitori.

Che cos’è l’elenco clienti e fornitori?

Oggi inglobato nel c.d. Spesometro, l'elenco clienti e fornitori era una comunicazione che tutti i soggetti titolari di partita Iva, e quindi imprese e liberi professionisti dovevano inviare alla Agenzia delle Entrate, per via telematica, dichiarando i fatturati a partire da un certo limite.

In particolare, devono essere comunicate ogni tre mesi tutte quelle operazioni rilevanti ai fini IVA, quindi le comunicazioni dei dati e delle fatture emesse e ricevute e la comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche IVA.

Questo adempimento è stato creato come strumento per combattere l’evasione fiscale costringendo gli imprenditori a comunicare puntualmente operazioni attive e passive.

In seguito, l’Agenzia, basandosi su tali comunicazioni, effettua dei controlli anche incrociati per segnalare eventuali incongruenze, facendole generalmente presenti al contribuente.

L’elenco clienti e fornitori è in alcune occasioni stato anche adoperato dall’Amministrazione Finanziaria per dimostrare l’evasione di imposta nel reato di omessa dichiarazione.

L’evasione fiscale si considerava quindi “provata” facendo riferimento alle annotazioni contenute nell'elenco clienti-fornitori.

Attraverso questo elenco l’Agenzia delle Entrate arriva a ricostruire il reddito del soggetto titolare di partita Iva che ha omesso di presentare la dichiarazione, contestando al trasgressore il reato penale se viene superata la soglia di 50.000,00 euro di imposta evasa.

Il fatto è che queste notizie potrebbero non essere sempre sufficienti per accertare la realtà dei fatti né potrebbero essere considerate talmente precise e gravi da consentire di ricostruire il reale volume d’affari dell’imprenditore.

A ciò si riferisce in una certa misura anche una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 3163 depositata il 27 gennaio 2020).

Il caso

All’interno di tale processo, la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di un imprenditore titolare di una ditta individuale condannato, tra le altre cose, per il delitto di omessa presentazione annuale della dichiarazione dei redditi. Secondo gli accertatori l’imposta evasa sarebbe stata superiore ad euro 77.500 quindi superiore al limite di 50.000 previsto dalla legge per configurare il reato di omessa dichiarazione.

Il contribuente, non convinto della ricostruzione effettuata dagli accertatori, basata esclusivamente sull’elenco clienti-fornitori, aveva da ultimo proposto ricorso in Cassazione.

In particolare, il motivo di ricorso ha riguardato il criterio di calcolo dell’imposta evasa adoperato, il quale si basava unicamente sul confronto tra le fatture emesse e le fatture ricevute dai fornitori. Al contrario, non erano state prese in considerazione le operazioni passive che avrebbero abbattuto il reddito imponibile in quanto realizzate verso soggetti che in verità non erano fornitori per le quali non erano state emesse regolari fatture. Inoltre, non erano stati considerati neppure altri elementi passivi quali i contributi previdenziali, gli ammortamenti mobiliari ed immobiliari, gli interessi passivi.

Sicché la valutazione effettuata per la ricostruzione del suo reddito era parziale e non completa in quanto basata unicamente sui dati contabili derivanti dal sistema cosiddetto CLIFO.

Il giudizio della Cassazione

Analizzato i motivi la Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente. In particolare, a parere dei giudici di legittimità, la condanna dell’imprenditore si era basata unicamente su una verifica basata su un controllo incrociato di dati contabili in riferimento alla quale non era stata neanche effettuata alcuna descrizione dettagliata.

La condanna di evasione fiscale derivante dall’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, in sostanza, si era basata sugli elementi desunti dal CLIFO (elenco clienti e fornitori) in relazione ai quali non era stata fornita una motivazione approfondita e completa.

L’evasione fiscale non potrebbe quindi fondarsi solo sul controllo incrociato dei dati contabili contenuto in tale elenco ma dovrebbe prendere in considerazione anche gli elementi passivi.

Insomma, per i giudici di Cassazione il sistema CLIFO al tempo presente nell’anagrafe tributaria in cui erano presenti i dati relativi ad acquisti e vendite di un imprenditore non poteva essere sufficiente a dimostrare l’evasione di imposta nel reato di omessa dichiarazione né a ricostruire realmente il suo reale volume d’affari. Servivano ulteriori prove per dimostrare l’evasione da parte del contribuente.

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