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Corte di Cassazione, Sez. 5
Sentenza n. 19974 del 24 luglio 2019
FATTI DI CAUSA
1. L'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria, depositata il 14 marzo 2016, di reiezione dell'appello dalla medesima proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della T.P. s.p.a. per l'annullamento del diniego opposto dall'Ufficio alla revisione dell'accertamento relativo a quindici dichiarazioni doganali.
2. Il giudice di appello ha evidenziato, tra l'altro, che l'Ufficio, inspiegabilmente, si era rifiutato di accertare la veridicità delle richieste di revisione per le quali era stato indicato un codice doganale errato, anziché quello corretto, pur avendo avuto a sua disposizione tutti gli elementi necessari per effettuare un siffatto accertamento e pur avendo avuto modo di accertare la veridicità dell'errore in relazione ad altre importazioni aventi la medesima tipologia di oggetto intervenute successivamente.
3. Il ricorso è affidato a tre motivi.
4. Resiste con controricorso la T.P. s.p.a., la quale deposita memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso l'Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. art. 78, Regolamento n. 2913/92, e 11, d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, per aver la sentenza impugnata ritenuto sussistente il diritto della contribuente al rimborso dei dazi benché l'Ufficio non fosse stato posto in condizione di effettuare un controllo fisico della merce importata.
1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto poggia su un assunto fattuale, relativo alla circostanza che l'ufficio non è stato messo in condizione di poter effettuare un controllo fisico della merce importata, che trova smentita della sentenza di appello la quale evidenzia, al riguardo, che l'ufficio aveva «a sua disposizione tutti gli elementi necessari per effettuare tale accertamento» (ossia, la valutazione in ordine alla fondatezza della richiesta di revisione) e che, ciononostante, «non ha compiuto alcuna attività diretta in concreto ad accertare la natura dei beni importati». Aggiunge che, indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla allegata mancata collaborazione della contribuente, avrebbe potuto eseguire la verifica delegando, come effettuato per altre operazioni, altro ufficio doganale. Orbene, il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l'accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell'operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass., ord., 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715); L'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, infatti, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella nuova formulazione risultante dalla modifica apportata dall'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. nella I. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e 4, c.p.c. per aver il giudice di appello ritenuto sufficientemente dimostrato l'erronea indicazione da parte della contribuente del codice doganale relativo alle merci importate sulla base di una perizia di parte e del fatto che per altre operazioni l'ufficio aveva riconosciuto l'errore della contribuente, benché per due delle 15 dichiarazioni doganali oggetto dell'istanza di revisione la merce era stata oggetto di parziale verifica fisica da parte di funzionari dell'ufficio ed era risultata conforme al dichiarato.
2.1. Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una critica alla valutazione del materiale probatorio effettuata dal giudice di appello e non già nella censura in ordine all'applicazione della regola dell'onere probatorio o del valore probatorio degli elementi di prova valorizzati.
3. Con il terzo motivo di ricorso l'Agenzia si duole della violazione e/o errata applicazione dell'art. 3, I. 7 agosto 1990, n. 241, 11, comma cinque bis, d.lgs. n. 374 del 1990, 7, I. 27 luglio 2000, n. 212, per aver la Commissione regionale erroneamente affermato che i provvedimenti di diniego impugnati non fossero assistiti da una adeguata motivazione.
3.1. Il motivo è inammissibile in quanto l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata relativa alla sussistenza del «vizio di carenza di istruttoria» non ha costituito una autonoma ratio decidendi, né, tanto meno, è stata elevata a fondamento di legittimità del diniego di revisione dell'accertamento, ma è stata resa al fine di chiarire e rendere evidenza del fatto che l'Ufficio ha omesso di controllare le indicazioni contenute nella dichiarazione da rivedere e nella domanda di revisione pur avendone la possibilità. In tal senso, dunque, va intesa l'espressione in esame, quale rivelatore del comportamento omissivo dell'Ufficio che, senza svolgere l'attività istruttoria ed era consentito porre in essere, non ha dato seguito alla richiesta di revisione dell'accertamento.
4. Per le suesposte considerazioni il ricorso non può essere accolto.
5. Le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 6.000,00, oltre rimborso forfettario spese generali nella misura del 15% e accessori di legge. Così deciso in Roma, il 27 marzo 2019.
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