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Prova presunta inesistenza costi: il giudice deve valutare sia singolarmente che complessivamente gli elementi offerti dall’Agenzia. Solo se precisi, gravi e concordanti la prova contraria si demanda al contribuente. Rileva sentenza assoluzione.

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Estratto: “il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell'atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall'Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e SS. e 2697, comma 2, c.c." (Cass. n. 14237/2017); che, in materia di prova presuntiva, compete dunque alla Corte di cassazione, nell'esercizio della funzione nomofilattica, il controllo che i principi contenuti nell'art. 2729 c.c.”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 19966 del 24 luglio 2019

RITENUTO

che la Commissione tributaria regionale della Sardegna, con sentenza n. 55/05/09, depositata il 4/11/2009, ha accolto l'appello principale dell'Agenzia delle Entrate, e respinto l'appello incidentale di C.I. s.r.I., che aveva impugnato - per quanto ancora d'interesse - gli avvisi di accertamento emessi sulla base di p.v.c. della Guardia di Finanza, all'esito della verifica fiscale effettuata nei confronti di altra società, la C. s.r.I., amministrata dalla medesima persona, L.A., atti con i quali venivano rettificate le dichiarazioni Mod. Unico, relative agli anni d'imposta 2002 e 2003, per costi, relativi alla costruzione di uno stabilimento, fruente di contributi pubblici, non deducibili o inesistenti, con conseguente accertamento, in capo alla appaltante C.I., di un maggior reddito d'impresa, ai fini IRPEG, e di un maggior valore della produzione, ai fini IRAP, pari ai minori costi riconosciuti, nonché di indebita detrazione d'imposta, per dichiarazione infedele, ai fini IVA; che, ad avviso del giudice di appello, "la rettifica dei redditi di pertinenza della società I.C. (...) risulta fondata su una serie di elementi e circostanze che l'organo accertatore legittimamente ha potuto utilizzare, in quanto sorretti da quei requisiti che la legge richiede per essere idonei a soddisfare sul piano probatorio l'accertamento operato", che "l'Amministrazione finanziaria sulla quale grava l'onere di provare la falsità delle fatture, nel caso di specie, ha indicato gli elementi idonei, sufficienti e precisi in ordine alle contestazioni mosse al contribuente il quale, a sua volta, all'esito di tali produzioni era tenuto a fornire (...) la dimostrazione della reale sussistenza delle operazioni oggetto della contestazione", che "il metodo di recuperare a tassazione i soli costi indicati per operazioni inesistenti con metodo analitico, anziché con metodo induttivo, senza modificare i ricavi dei corrispondenti conti economici, dichiarati spontaneamente dalla parte, appare corretto e in sintonia con la normativa di riferimento (art. 75 d.p.r. 917/1986 e art. 21 d.p.r. 633/1972), che, infine, le censure della contribuente "appaiono del tutto generiche, non sorrette da convincenti considerazioni e riscontri documentali, idonei a contrastare lo schema probatorio su cui si fonda l'accertamento, stante il fatto che in tale fattispecie, al contribuente incombe, per l'inversione dell'onere della prova, di dimostrare le giustificazioni addotte a sostegno" delle proprie difese; che avverso la sentenza la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resiste l'Agenzia delle Entrate con controricorso;

CONSIDERATO

che con il primo motivo d'impugnazione la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, omessa motivazione circa punti decisivi della controversia, avuto riguardo all'esistenza delle operazioni disconosciute negli atti impositivi, giacché la CTR si è limitata a formulare, sul punto, generiche enunciazioni, non ha proceduto ad alcuna autonoma disamina logica e giuridica degli elementi da cui ha tratto il convincimento espresso, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sulla esattezza della decisione impugnata, basata su elementi di prova presuntivi circa la non effettività delle operazioni;

che con il secondo motivo denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 12, comma 1, d.p.r. n. 435 del 2001, giacché la CTR, con riferimento al recupero a tassazione afferente a quote di ammortamento ritenute indeducibili per irregolare tenuta del registro dei cespiti ammortizzabili, non ha considerato che la contribuente aveva dedotto la facoltatività (art. 12, d.p.r. n. 435 del 2001), a far data dal 1° gennaio 2002, della tenuta di siffatto registro, essendo i relativi dati ricavabili anche dalle registrazioni del libro giornale, depositato, in data 26/2/2002, presso l'Agenzia delle Entrate di L., unitamente al prospetto degli ammortamenti, su iniziativa della stessa contribuente, in quanto mai richiesto prima, e che l'indeducibilità delle quote di ammortamento dipende, nella contestazione dell'Ufficio, dalla "scritturazione a matita del registro dei cespiti ammortizzabili", non già dalla "mancata produzione da parte della società verificata, né in fase di verifica e accertamento né nella successiva fase contenziosa del Libro giornale corredato delle relative registrazioni";

che con il terzo motivo denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 39, d.p.r. n. 600 del 1973, 75, d.p.r. n. 917 del 1986, nel testo in vigore fino al 31 dicembre 2003, e 10, I. n. 212 del 2000, giacché la CTR ha ritenuto inesistenti talune operazioni, recuperato i relativi costi, e ciò non di meno ha tenuto conto, ai fini reddituali, dei ricavi correlati ai costi accertati come inesistenti;

che la prima censura, la quale attiene alla dedotta carenza motivazionale della decisione in merito alla correttezza del procedimento ricostruttivo dell'ammontare del reddito imponibile, così come commisurato nell'accertamento fiscale, va accolta per le ragioni di seguito esposte;

che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, "In tema di accertamento tributario relativo sia all'imposizione diretta che all'IVA, la legge - rispettivamente art. 39, comma 1, del d.p.r. n. 600 del 1973 (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed art. 54 del d.p.r. n. 633 del 1972 - dispone che l'inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l'Ufficio fornisca prove "certe". Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell'atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall'Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e SS. e 2697, comma 2, c.c." (Cass. n. 14237/2017); che, in materia di prova presuntiva, compete dunque alla Corte di cassazione, nell'esercizio della funzione nomofilattica, il controllo che i principi contenuti nell'art. 2729 c.c. siano applicati alla fattispecie concreta al fine della ascrivibilità di questa a quella astratta (Cass. n. 10973/2017); che l'apparato motivazionale della impugnata sentenza di appello, alla luce dei principi innanzi ricordati, appare censurabile in quanto si appalesa meramente apparente essendosi la CTR limitata ad attribuire valore indiziario a singoli elementi acquisiti in giudizio, senza esplicitarne l'effettiva rilevanza in una valutazione di sintesi, nell'ambito cioè di uno schema logico di valutazione della prova presuntiva che, da un lato, dia contezza del convincimento del giudicante e, dall'altro, ne consenta la concreta verifica; che, infatti, la sentenza impugnata contiene un generico richiamo alle "risultanze del P.V. di Contestazione con il quale la Guardia di Finanza, analizzando le voci di spesa attinenti l'intervento realizzato", ed ai "controlli incrociati nei confronti delle imprese che la società ha incaricato per l'esecuzione dei lavori o per acquistare i beni che la stessa non poteva fornire", al quale non si accompagna una autonoma e critica valutazione degli elementi da cui il predetto convincimento viene tratto, alla luce anche delle puntuali deduzioni svolte dalla contribuente, riproposte in questa sede, rendendo il tal modo impossibile ogni controllo sulla esattezza e sulla logicità del ragionamento; che, detto in altri termini, la valenza probatoria delle circostanze di fatto risultanti dal p.v.c. acquisito agli atti di causa avrebbe meritato di essere oggetto di approfondita disamina logico-giuridica, avuto riguardo alle ritenute incongruenze circa la possibilità di effettiva esecuzione delle prestazioni dedotte nei contratti di cui alle fatture contabilizzate, al fine di rendere intellegibili le modalità di determinazione dell'entità dell'imponibile sottratto alla tassazione e, nel contempo, le ragioni della mancata convincente dimostrazione, da parte della società C.I., della "effettiva esistenza e consistenza delle operazioni in tutto o in parte ritenute fittizie", così da completare la ratio decidendi della sentenza impugnata; che, peraltro, sebbene vada esclusa l'incidenza del procedimento penale nel processo tributario e nella procedura amministrativa di accertamento, non è precluso al giudice tributario di utilizzare, quale fonte del proprio convincimento, le prove raccolte nel processo penale, sottoponendole a vaglio critico, nell'esercizio del potere-dovere riconosciutogli dall'art. 116 c.p.c., stante la peculiarità dei regimi probatori che informano il giudizio penale rispetto a quello tributario; che, come più volte affermato da questa Corte, "Nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula "perché il fatto non sussiste", non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell'esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare." (Cass. n. 10578/2015); che, nella fattispecie in esame, non è dato rilevare la sussistenza di un effettivo apprezzamento degli elementi di prova acquisiti al giudizio penale, alla luce degli allegati pronunciamenti del GUP del Tribunale di L., i quali pure hanno escluso la sussistenza dei reati connessi alle false fatturazioni contestate all'amministratore della società e ad altri soggetti, "perché i fatti non sussistono" o "non costituiscono reato", in quanto la motivazione del giudice di appello pecca di genericità, risulta formulata in maniera alquanto astratta, e non propone alcun confronto critico degli elementi di prova acquisiti nei diversi giudizi di cui qui si discute; che anche la terza censura, la quale involge il recupero a tassazione dei costi indicati per operazioni inesistenti, senza modificare i ricavi correlati ai costi predetti, merita di  essere accolta alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo cui "In tema di operazioni oggettivamente inesistenti, atteso che non vi è simmetria, né automatismo biunivoco tra costi per acquisti inesistenti e ricavi dichiarati e che, ai sensi dell'art. 8, comma 2, del di. n. 16 del 2012, conv., con mod., nella I. n. 44 del 2012 (avente portata retroattiva, in quanto più favorevole del previgente art. 14, comma 4 bis, della I. n. 537 del 1993), i componenti positivi direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, con la conseguenza che spetta al contribuente provare la diretta afferenza tra ricavi e costi attinenti a beni non effettivamente scambiati." (Cass. n. 1900/2018); che, altresì, va ribadito il principio per cui "In tema di imposte sui redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, ai sensi dell'art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con mod., nella I. n. 44 del 2012, che ha portata retroattiva ed è applicabile anche d'ufficio, i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese." (Cass. n. 7896/2016); che, infine, va disattesa la seconda censura, la quale investe la questione, incidente sulla determinazione del reddito d'impresa, che concerne il disposto recupero a tassazione di quote di ammortamento di beni strumentali, ritenute dall'Ufficio indeducibili per l'irregolarità delle annotazioni riportate - a matita - nel registro dei cespiti ammortizzabili, in quanto appare infondata; che il giudice di appello, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto tenere conto delle intervenute semplificazioni (artt. 12, 13 e 14, d.p.r. n. 435 del 2001) in materia di tenuta dei registri contabili, e della circostanza che l'Amministrazione finanziaria non ha richiesto la comunicazione di dati di alcun genere; che, invero, il registro dei cespiti ammortizzabili, previsto dalla normativa fiscale e non da quella civilistica, deve riportare l'anno di acquisizione di ogni singolo cespite, il costo originario, le rivalutazioni, le svalutazioni, il fondo di ammortamento al termine del periodo precedente, il coefficiente di ammortamento, la quota annuale di ammortamento e l'eventuale eliminazione dal processo produttivo ovvero la relativa cessione a terzi, mentre i cespiti diversi da beni immobili e da beni mobili iscritti nei pubblici registri acquistati nello stesso anno e con il medesimo coefficiente di ammortamento possono essere raggruppati in categorie omogenee;

che detto registro, per effetto del d.p.r. n. 435 del 2001, non è più obbligatorio, a partire dal 10 gennaio 2002, a condizione che le relative annotazioni siano eseguite nel libro giornale, entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi, e che, a richiesta dell'Amministrazione finanziaria, siano forniti in forma sistematica i dati relativi alle operazioni che sarebbe stato necessario annotare nell'apposito registro dei beni ammortizzabili; che del tutto correttamente nella della CTR viene stigmatizzata la mancata produzione, da parte della società contribuente, sia in fase di verifica e accertamento, che in fase contenziosa, "del Libro giornale corredato delle relative registrazioni", come previsto dall'art. 12 d.p.r. 435 del 2001, dovendosi distinguere, in tema di determinazione del reddito d'impresa, tra violazioni degli obblighi relativi alla contabilità costituenti infrazioni di carattere sostanziale, che impediscono cioè l'attività di accertamento e precludono la deducibilità di costi che non sono regolarmente registrati, e violazioni di carattere meramente formale (Cass. n. 22554/2008, n. 2315/2001); che, nel caso di specie, non si tratta di mere violazioni formali, in quanto la contribuente aveva istituito il registro dei cespiti ammortizzabili, per cui la regolarità delle relative annotazioni rappresenta un presupposto della deducibilità e, del resto, per l'applicazione dell'art. 67, comma 4 (attuale articolo 102), d.p.r. n. 917 del 1986, in vigore sino al 31 dicembre 2003, l'Ufficio necessitava, come anche sottolineato dalla ricorrente (pag. 20-21 ricorso), di una serie di informazioni sulla storia dei beni strumentali da ammortizzare, nel caso di specie, non acquisibili aliunde, in quanto la disposizione fissava un quantum minimo per le quote d'ammortamento ammissibili in deduzione (costituito dal 50 per cento dell'aliquota ordinaria), e stabiliva, in particolare, che "se in un esercizio l'ammortamento è fatto in misura inferiore a quella massima indicata al comma 2 le quote di ammortamento relativamente alla differenza sono deducibili negli esercizi successivi, fermi restando i limiti di cui ai precedenti commi. Tuttavia se l'ammortamento fatto in un esercizio è inferiore alla metà della misura massima il minore ammontare non concorre a formare la differenza ammortizzabile, a meno che non dipenda dalla effettiva minore utilizzazione del bene rispetto a quella normale del settore"; che, in conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata ad altra sezione della CTR della Sardegna, la quale procederà anche alla regolazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo ed terzo motivo di ricorso, respinge il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, innanzi ad altra sezione della CTR della Sardegna. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 giugno 2018/18 aprile 2019.

 

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