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L’Agenzia delle Entrate erra nell’operare il pignoramento. Una volta proposto ricorso si costituisce in udienza ed ammette l’errore già in sede di sospensiva. Atto annullato ed Agenzia condannata a pagare dieci mila euro di spese.

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Nel presente articolo analizziamo le difese sviluppate in un caso sottoposto alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano. La stessa Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale di Milano, sin dall’udienza di sospensiva, ha annullato in via di autotutela l’atto. La Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha condannato l’Agenzia delle Entrate al pagamento di 10.000,00 euro a titolo di spese di lite.

Procederemo ad esaminare la fattispecie, non dalla prospettiva del corpo letterale della sentenza (di cui citiamo gli estremi in calce per chi voglia analizzarne il contenuto), ma dalla prospettiva dei motivi di ricorso.

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“Con la cartella di pagamento n. XXX (documento n. X) l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale I di Milano, per mezzo di Equitalia Nord S.p.A. Agente della riscossione – prov. di Milano, richiede all’odierno ricorrente il pagamento di una somma pari ad euro XXX.XXX,XX.

Per come si vedrà, l’assoluta cripticità della cartella impugnata – che in parte motiva si limita ad affermare: “Iscrizione a ruolo a seguito sentenza della corte suprema di cassazione n. XXX depositata il XXX e non riassunta” – non dà modo di evincere, neanche indirettamente, le motivazioni a fondamento della stessa nonché del ruolo sul quale la medesima risulta assisa.

Ma vi è di più.

Come si avrà modo di argomentare nel proseguo del presente ricorso, l’esame della richiamata pronuncia della Corte di Cassazione, n. XXX, depositata il XXX (documento n. XXX), la quale dovrebbe costituire il titolo giuridico sulla base del quale è stato formato prima il ruolo e, dappoi, la cartella di pagamento, non prevede affatto alcun obbligo di pagamento delle somme richieste al Contribuente con l'impugnato atto della riscossione.

Non solo.

Nel caso de quo, il Contribuente ha già subito - malgrado non sia decorso il termine per impugnare la cartella di pagamento - atti esecutivi immediatamente lesivi della propria sfera giuridica.

In particolare, allo stesso è stato notificato, in data XXX, prima ancora della scadenza del termine per impugnare la cartella di pagamento, atto di pignoramento dei crediti verso terzi (documento n. X), con cui si sottopone a vincolo la somma di euro XXX, a danno della XXX ricorrente.

(…)

1 – NULLITA’ PER OMESSA MOTIVAZIONE.

La cartella di pagamento impugnata in quanto priva di chiara ed intellegibile motivazione deve considerarsi insanabilmente nulla.

Infatti, all'interno di essa, richiamato il ruolo, ci si limita unicamente a riportare la seguente dicitura: “Iscrizione a ruolo a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. XXX depositata il XXX e non riassunta”.

Seguono gli importi richiesti, asseritamente dovuti a titolo di Irpeg e relativi interessi e sanzioni per l’anno XXX.

Orbene, risulta impossibile desumere dalla cartella di pagamento, per come formata e redatta, il motivo del recupero a tassazione delle ingenti somme evidenziate in epigrafe.

L’elencazione degli importi richiesti riportati nella cartella de qua non chiarisce assolutamente nulla e, anzi, le somme ivi indicate illustrano unicamente l’imposta da versare, gli interessi e le sanzioni da corrispondere.

Stante questa inutile esposizione (che non rende neanche possibile un esame dei conteggi effettuati), rimangono incomprensibili le modalità del controllo e, conseguentemente, il ragionamento logico-giuridico sul quale si fonda l’iscrizione a ruolo dell’imposta con i relativi interessi e sanzioni.

In quest’ottica, la cartella di che trattasi appare assolutamente criptica ed inintelligibile non consentendo al Contribuente di apprendere l’esatta causale del recupero a ruolo degli importi ivi indicati.

La Suprema Corte (ancor prima delle modifiche legislative fondamentali attuate a seguito dello Statuto dei diritti del contribuente) ha rilevato, in proposito, che l'assenza di chiarezza della cartella, determinando l'impossibilità per il contribuente di conoscere l'esito della procedura, nonché i fatti e le ragioni su cui si basa il recupero a ruolo, conduce inevitabilmente alla declaratoria di illegittimità della cartella stessa (cfr. Cass. n. 14306/1999, nello stesso senso C.T.R.. Lombardia n. 211/1997).

Come potrebbe non ritenersi, nel caso di specie, svuotato di contenuto il diritto di difesa del Contribuente, posto che la cartella si limita a richiedere il versamento di euro XXX.XXX,XX, senza null'altro riferimento, se non quello ad una sentenza che, per come si vedrà, è del tutto inconferente con la pretesa avanzata nei confronti della Società?

D'altronde la stessa funzione della motivazione è quella di garantire il diritto di difesa, rendendo edotto il contribuente delle ragioni alla base dell'atto impositivo o esattivo, ed è per tale motivo che il legislatore ne prescrive la presenza a pena di nullità.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che alla cartella di pagamento si applicano i principi di ordine generale indicati per ogni provvedimento amministrativo dall’art. 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 (che, in materia tributaria, sono stati recepiti dall’art. 7 della Legge 27 luglio 2000, n. 212); per l’effetto deve ritenersi nulla la cartella di pagamento che non operi un chiaro riferimento alla natura ed ai motivi del recupero a tassazione, non competendo al cittadino ricostruire l’operato dell’Amministrazione finanziaria attraverso difficili, se non impossibili, operazioni interpretative (ex pluribus, Cass. n. 18415/2005).

Si tratta di principi consolidati, affermati in giurisprudenza sin da prima dell'approvazione dello Statuto dei diritti del contribuente (sul punto già la C.T.C. n. 3741/1996 ritenne, suo tempo, che la cartella di pagamento deve esser sufficientemente chiara da consentire al contribuente di esercitare agevolmente il controllo sull'operato dell'Ufficio, diversamente opinando verrebbe leso il principio di difesa costituzionalmente garantito).

In altri termini, il contribuente non deve "presumere le motivazioni e le richieste dell'Amministrazione" (già, suo tempo, così C.T.R. Lombardia n. 211/1997): queste, invero, devono essere esplicitate nell'atto stesso.

Il contribuente attraverso la lettura della cartella deve avere la possibilità di evincere chiaramente la causale della pretesa; ciò in quanto lo stesso deve essere messo in grado di comprendere immediatamente e con chiarezza, dalla lettura dell’atto esattivo, la causale della richiesta, nonché di valutare con il giusto grado di puntualità la legittimità della domanda di esborso.

Di conseguenza, gli atti impugnati - così come gli atti pregressi e susseguenti - devono ritenersi insanabilmente nulli, annullabili, e comunque privi di ogni effetto per assenza di motivazione.

§

2 – NULLITA’, ILLEGITTIMITA’ ED INFONDATEZZA DEL RUOLO E DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO, ALLA LUCE DELLA SENTENZA N. XXX, RICHIAMATA NELL'ATTO ESATTIVO.

Nonostante la cripticità ed inintelligibilità della cartella di pagamento, l’odierno ricorrente ha tentato di presumere le motivazioni alla base delle pretese dell’Ente Impositore, procedendo ad un accurato esame della sentenza di Cassazione che – in base a quanto riportato nella cartella – dovrebbe costituire titolo per la richiesta di esborso.

In verità, tuttavia, la formazione del ruolo - e la successiva notifica della cartella di pagamento - appare frutto di un errore dell’Amministrazione Finanziaria, ovvero del suo illegittimo modus operandi.

Per far luce sul punto, è opportuno ripercorrere brevemente la vicenda processuale che ha dato origine alla pronuncia della Suprema Corte n. XXX, richiamata nella parte motiva della cartella di pagamento.

In data XXX veniva notificata all’odierna ricorrente, ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973, una cartella di pagamento con cui l’Agenzia delle Entrate richiedeva il pagamento di una somma pari ad euro XXX, a titolo IRPEG, ILOR e relativi interessi e sanzioni, in relazione all’esercizio sociale XXX – XXX.

L’odierna ricorrente presentava tempestivamente ricorso contestando la pretesa erariale, ed affermando di aver proceduto per tempo alla presentazione di una dichiarazione integrativa, della quale l’Ufficio non aveva tenuto conto, e di aver versato tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione rettificata.

Invero, per effetto della dichiarazione integrativa, era la Società Contribuente ad avanzare un credito, pari ad euro XXX, nel confronti dell’Amministrazione Finanziaria, e non viceversa.

La Società, di conseguenza, chiedeva – oltre all'annullamento della cartella di pagamento - la condanna dell’Ufficio al pagamento dell’eccedenza.

Codesta On.le Commissione Tributaria Provinciale, con sentenza n. XXX del XXX (documento n. XXX), accoglieva la domanda principale, annullando la cartella impugnata e riconosceva l'avvenuto totale pagamento da parte della Società Contribuente, omettendo unicamente di condannare l’Agenzia delle Entrate al pagamento di euro XXX, in quanto, secondo la ricostruzione dei Giudici di prime cure, lo stesso non poteva ritenersi “certo, liquido ed esigibile”.

L’Amministrazione Finanziaria proponeva, quindi, appello, il quale veniva dichiarato inammissibile dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (documento n. XXX), che provvedeva, altresì, a seguito di appello incidentale del Contribuente, a condannare l’Agenzia delle Entrate al pagamento della suddetta somma di euro XXX.

Orbene, prestando acquiescenza ad ogni altra parte e capo della sentenza di secondo grado, con implicito riconoscimento dell'avvenuto pagamento di tutte le somme dovute dal Contribuente per il periodo d'imposta XXX, l’Agenzia delle Entrate presentava ricorso per cassazione unicamente sul punto relativo alla condanna della stessa al rimborso di euro XXX.

In merito, il ricorso per cassazione (documento n. XXX) presentato dall’Amministrazione Finanziaria appare inequivocabile.

Per fugar ogni dubbio si riporta l'intera parte motiva del ricorso per cassazione (e riguardante unicamente – come chiaramente si evince - l'inammissibilità della riconvenzionale del Contribuente): “XXX(veggasi documento n. XXX).

Null’altro viene richiesto, e null’altro è, pertanto, stato oggetto del giudizio per cassazione, né l'Agenzia delle Entrate ha provveduto a riassumere nei termini di legge il giudizio innanzi alla competente Commissione Tributaria Regionale, con conseguente formazione del giudicato su ogni questione decisa dalla Commissione Tributaria Regionale ed, in special modo, sulla questione della pretesa tributaria a titolo di Irpeg per il XXX.

La mancata riassunzione, da parte dell'unico soggetto interessato, ed onerato a tale fine, ha conseguentemente determinato l'estinzione del processo ex art. 310 e 393 c.p.c., salva l'efficacia delle sentenze di merito pronunciate nel corso del processo stesso, in primis della sentenza resa dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (documento n. XXX) che “annulla integralmente la cartella impugnata” in considerazione della non debenza da parte della società di alcuna somma a titolo di Irpeg per il XXX.

Orbene, non è, dunque, possibile per l'Agenzia delle Entrate, con l'emissione di una nuova cartella di pagamento, far “rivivere” una pretesa, già decisa in senso inverso, e con sentenza passata in giudicato.

Per l'effetto, in esito ai passaggi giurisdizionali sopra riepilogati e sulla base di quanto oggetto del giudizio in cassazione, non vi è alcun dubbio che la società non deve alcunché a titolo di Irpeg per l'anno di imposta XXX.

Anche sotto tale profilo, pertanto, appare di solare evidenza l’infondatezza e illegittimità del ruolo e della cartella di pagamento formata sulla base del primo.

§

3 – SULLA RESPONSABILITA RISARCITORIA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

3.1. PREMESSA.

Ferma la chiara erroneità e illegittimità del ruolo e della cartella di pagamento impugnata, vi sono ulteriori considerazioni da svolgere in questa sede.

Infatti, nel caso di specie, le parti resistenti non si sono limitate a richiedere colposamente al Contribuente, omesse le dovute verifiche, le somme di cui trattasi, senza che fossero presenti i presupposti di legge, e con atti del tutto viziati, anche rispetto alla forma.

La successione degli eventi è stata ancor più lesiva dei diritti dell'odierno ricorrente.

Infatti, sin da prima che la cartella di pagamento divenisse definitiva e, dunque, durante la pendenza dei termini di impugnazione, Equitalia Nord S.p.A. – Agente della riscossione per la provincia di Milano, ha proceduto, a danno della Società, al pignoramento (documento n. XXX), presso l’istituto di credito XXX S.p.A., con sede legale in XXX, Via XXX, di euro XXX oltre interessi di mora e compensi di riscossione.

Di tal guisa, Equitalia Nord S.p.A., in spregio dei diritti dell'odierno ricorrente e con condotta del tutto imprudente, ha creato notevolissimi danni alla Società, la cui sfera giuridica è lesa sotto molteplici profili, uno fra tutti, sotto il profilo della propria reputazione e immagine commerciale innanzi all’Istituto di credito, con fortissime probabilità di vedere ridotte se non annullate le proprie possibilità di ottenere canali di finanziamento presso il suddetto Istituto.

Sul punto, appare opportuno menzionare che la Suprema Corte, ormai pacificamente, riconosce la responsabilità della Pubblica Amministrazione, e segnatamente dell’Amministrazione Finanziaria, per violazione del principio fondamentale del “neminem laedere”, previsto dall’art. 2043 c.c., e dei propri obblighi procedimentali, qualora il comportamento, anche omissivo, della stessa, abbia arrecato un danno al privato contribuente ovvero costituisca violazione dei principi dell’ordinamento (ex pluribus Cass. n. 5120/2011, Cass. n. 698/2010).

In via generale, pertanto, il Contribuente ha titolo per richiedere ed ottenere il risarcimento di tutti gli oneri sostenuti e le perdite subite, comprese le spese processuali (cfr. Cass. n. 1191/2003), il danno da rivalutazione monetaria (cfr. Cass. n. 16871/2007), i danni ex art. 96 c.p.c.1 (cfr. Cass. SS.UU. n. 1082/1997; da ultimo Cass. S.U. n. 13899/2013) ed ogni maggior danno (cfr. Cass. 14449/2010; n. 5120/2011; Cass. n. 5734/ 2004), anche morale (cfr. CTR Bari, sentenza 18.12.2009).

§

3.2. RESPONSABILITA’ AGGRAVATA AI SENSI DELL'ART. 96 C.P.C.

Gli odierni residenti, con la formazione di un ruolo erroneo e illegittimo prima, la notifica di una cartella nulla, illegittima e comunque invalida sotto molteplici profili poi e, da ultimo, procedendo con grave imprudenza in executivis nei confronti del Contribuente, violano gravemente i diritti di XXX, determinando ingenti danni per la stessa.

Sul punto, onde prevenire qualsiasi avversa argomentazione dell'Ufficio, si ritiene opportuno precisare che il Supremo Consesso ha ribadito, in ordine alla giurisdizione del Giudice Tributario, quanto segue: “Il giudice tributario può conoscere anche della domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell'art. 96 c.p.c., potendo, altresì, liquidare in favore di quest'ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall'esercizio, da parte dell'Amministrazione finanziaria, di una pretesa impositiva "temeraria", in quanto connotata da mala fede o colpa grave, con conseguente necessità di adire il giudice tributario, atteso che il concetto di responsabilità processuale deve intendersi comprensivo anche della fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti, ha dato luogo all'esigenza di instaurare un processo ingiusto (cfr. Cass. S.U. n. 13899/2013)”.

Il sopra richiamato art. 96 c.p.c. in particolare prevede: “96. Responsabilità aggravata. 1. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. 2. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. 3. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

L'inciso “altresì”, contenuto in tale ultimo comma, chiarisce che si tratta di condanne potenzialmente cumulative.

In altri termini, ciascuno dei suddetti commi, prevede differenti voci risarcitorie, e diversi criteri di determinazione.

Nello specifico, l'ipotesi di cui al secondo comma appare senza dubbio aderente al caso de quo.

Sarebbe, per giunta, stata sufficiente una mera visione della sentenza di Cassazione – alla base del ruolo e della cartella di pagamento – per rendersi conto dell’inconsistenza della pretesa tributaria.

Anche l’eccessiva e del tutto ingiustificabile “frettolosità” con cui si è proceduti all’esecuzione, senza neanche attendere il termine a disposizione del Contribuente per l’impugnazione, è sicuramente rappresentativa del colposo modus operandi delle parti resistenti.

Non vi è infatti dubbio che le stesse, alla luce di quanto esposto, non abbiano fatto proprio quel criterio di “normale prudenza”, previsto dalla disposizione di cui trattasi, rendendosi pertanto responsabili per violazione dell’art. 96, secondo comma c.p.c.

Ancora, il legislatore, con l’introduzione del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. ad opera dell’art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha voluto attribuire al Giudice un ulteriore strumento risarcitorio.

Infatti, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, con tale disposizione, è stata introdotta nel nostro ordinamento – per scoraggiare gli abusi perpetrati in passato – una forma di danno punitivo; in altri termini, il Giudice si vede slegato dalla necessità di liquidare i danni secondo la ricostruzione sostanzialmente “riparatoria” o “restitutoria” del risarcimento, potendo, in aggiunta al primo, disporre una forma di risarcimento punitiva e afflittiva, parametrata sulla rimproverabilità del comportamento imputabile al soggetto agente.

La giurisprudenza di legittimità, in particolare, ha osservato che tale determinazione giudiziale deve osservare un criterio equitativo, e può essere calibrata non solo sull’importo totale delle spese processuali, ma anche su un multiplo di queste, o essere equitativamente determinata dal giudice, il quale soggiace unicamente al limite della ragionevolezza (ex multis Cass. n. 21570/2012).

Alla luce di quanto esposto, non vi è dubbio che sussiste, nel caso che ci occupa, un pieno diritto del Contribuente al risarcimento.

Inoltre, codesta Commissione Tributaria Provinciale potrà, non solo condannare i resistenti sulla base di quanto previsto nei primi due commi dell’art. 96 c.p.c., ma potrà, altresì, determinare in via equitativa, con il solo limite della ragionevolezza, il danno dovuto al Contribuente sulla base del terzo comma dell’art. 96 c.p.c.

§ § §

1. La facoltà di richiedere e ottenere, nel giudizio tributario, la condanna per lite temeraria è riconosciuta dalla stessa Amministrazione Finanziaria (Circolare 19 giugno 2000, n. 2 della Direzione Regionale delle Entrate per il Lazio). In giurisprudenza cfr. CTR del Lazio sentenza n. 179/2010, CTP di Reggio Emilia sentenza n. 90/2010, CTP di Torino sentenza n. 115/2009, CTP di Milano sentenza n. 314/2007, CTR del Lazio sentenza n. 291/2007.

2. La sentenza cui ci riferiamo è la sent. n. 3069/05/2014 della CTP di Milano.

 

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