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Per quanto riguarda le persone fisiche, il secondo comma dell’art. 2 TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986) dispone che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.
Preso atto che i criteri sopra indicati sono alternativi e non concorrenti[2], ne consegue che la soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi si rinviene laddove anche uno soltanto dei tre criteri precedentemente elencati risulti integrato.
La norma precisa che i requisiti devono sussistere per la maggior parte del periodo di imposta, dunque, considerato che ai sensi dell’art. 7 del TUIR il periodo di imposta è di durata pari ad un anno, gli stessi dovranno sussistere per un periodo di tempo minimo di 183 (o 184) giorni[3]. Il predetto periodo non deve necessariamente essere continuativo e deve essere computato tenendo conto del numero dei giorni di presenza fisica del soggetto nel territorio, avuto nondimeno riguardo, non solo al periodo in cui è stato effettuata un’attività lavorativa in Italia, ma anche: alle frazioni di giorni, al giorno di arrivo e di partenza, ai sabati ed alle domeniche, agli eventuali giorni di ferie goduti nel territorio dello Stato italiano sia prima che durante nonché dopo l’esercizio dell’attività lavorativa, ed alle brevi interruzioni dell’attività lavorativa trascorse nel territorio dello Stato italiano[4].
La dottrina, approfondendo la portata dei singoli criteri di collegamento, ha anzitutto affermato, con riferimento al primo di essi, ossia all’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, il carattere oggettivo e formalistico dell'iscrizione[5], reputata condizione di per sé sola sufficiente a far acquisire la residenza agli effetti tributari. La tesi, pur non unanimemente condivisa dalla giurisprudenza, ha ricevuto in talune occasioni l’autorevole conferma della Corte di Cassazione, la quale ha avuto modo di chiarire che l'iscrizione costituisce "un dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini dell'individuazione del soggetto passivo d'imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative superabili, come tali, da prova contraria"[6].
È certamente prevalsa, sul piano interpretativo, l'idea che l'iscrizione anagrafica sia stata concepita dal legislatore soprattutto come strumento destinato a consentire un'agevole e sollecita individuazione della persona residente.
Parte della dottrina ha, peraltro, prospettato l'incostituzionalità del criterio dell'iscrizione anagrafica per violazione dell'articolo 53 della Costituzione, perché inidoneo ex se ad esprimere la reale capacità contributiva del soggetto passivo in termini di imposizione del reddito su base mondiale e, dunque, non solo del reddito prodotto in Italia, ma anche di quello di fonte estera. In particolare, si è osservato che l'assunzione del solo elemento formale dell'iscrizione anagrafica prescinde dall'esistenza di un effettivo legame tra la persona, che potrebbe risultare in concreto privo di domicilio o di dimora abituale in Italia, e il territorio.
Diversi rilievi vanno effettuati anche in relazione ai residui criteri di collegamento - domicilio[7] e residenza - da assumersi, stante il rinvio extraistituzionale al codice civile, secondo le definizioni offerte dall'articolo 43 c.c.[8]
Il domicilio va inteso come luogo in cui il soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi morali, sociali e familiari (in tal senso Cass. 26 ottobre 1968 n. 3586 e Cass. 12 febbraio 1973 n. 435).
Il rapporto giuridico che si instaura tra il domicilio e il centro dei propri affari non presuppone la presenza effettiva in un determinato luogo (Cass. 29 dicembre 1960 n. 3322), ma è caratterizzato dalla volontà soggettiva di conservare in un determinato luogo la sede principale dei propri interessi (Cass. 21 marzo 1968 n. 884). Pertanto ancorché il soggetto abbia trasferito la propria residenza all’estero, deve considerarsi residente in Italia colui che, svolgendo la propria attività al di fuori del territorio dello Stato, mantenga il centro dei suoi affari, nell’accezione sopra descritta, nello Stato[9].
Secondo la tesi prevalente, il requisito della principalità escluderebbe la possibilità di configurare, con riferimento al medesimo soggetto, una pluralità di domicili.
Alla locuzione "affari ed interessi" la giurisprudenza, come visto, attribuisce un significato tale da comprendere, non solo gli interessi di natura economica e patrimoniale, ma anche quelli di indole morale e familiare, con riferimento, tra l'altro, al consorzio di vita coniugale.
La giurisprudenza tributaria ha mostrato di aderire alla concezione allargata di domicilio consolidatasi in materia civilistica, onde l'ampio risalto attribuito anche a elementi di chiara natura non patrimoniale.
Il concetto di domicilio accolto a fini tributari è stato sottoposto nel tempo ad un'accurata critica. Si è infatti sottolineata l’inattualità delle pronunce giurisprudenziali - per le quali, come accennato, gli "affari e interessi", di cui all'articolo 43, comma 1, cc, dovrebbero ricomprendere anche la sfera non patrimoniale della persona - per essersi formate nel quadro di una disciplina del diritto di famiglia diverso da quello vigente, e si è eccepito che in tale ottica sarebbe dato desumere il domicilio nel territorio dello Stato di una persona fisica per il solo fatto che "ivi si trovi la dimora abituale della sua famiglia". Inoltre, sarebbe da revocarsi in dubbio la diretta e automatica valenza della chiave di lettura di matrice civilistica anche ai fini tributari, dovendosi più strettamente ricondurre la soggettività passiva a un nesso con il territorio che postuli una nozione degli affari e interessi in senso economico.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 43 c.c. per residenza si intende il luogo in cui la persona ha la dimora abituale. La giurisprudenza civilistica richiede la presenza di due elementi, uno oggettivo (o materiale), dato dalla “permanenza stabile” in un determinato luogo, l’altro soggettivo, ossia la volontà di rimanere nel predetto luogo (Cass. 5 febbraio 1985 n. 791[10]).
La giurisprudenza, nel delimitarne compiutamente il concetto, ha in più occasioni precisato che: a) non è necessario che la permanenza in un determinato luogo sia continuativa o definitiva (Cass. Sez. Unite 28 ottobre 1985 n. 5292), ma occorre che la persona utilizzi tale luogo quale abitazione e vi mantenga il centro delle proprie relazioni sociali e familiari (Cass. 14 marzo 1986 n. 1738); b) le assenze verificatesi per determinate esigenze quali ad esempio, lavorative, di studio ovvero di cura non comportano il venir meno della volontà della permanenza in un determinato luogo (Cass. 12 febbraio 1973 n. 435).
Dunque, l’orientamento consolidato della giurisprudenza (Cass. 17 gennaio 1972, n. 126; Cass. 5 febbraio 1985, n. 791; Cass. 5 maggio 1980, n. 2963; Cass. 14 marzo 1986, n. 1738; Cass. 12 giugno 1987, n. 5194; Cass. 28 ottobre 1985, n. 5292; Cass. 6 luglio 1983, n. 4525) ritiene che la residenza implichi l’abituale e volontaria dimora intesa come conservazione stabile dell’abitazione in un luogo, anche quando la persona si rechi a lavorare (o per altri motivi, quali studio, cura e villeggiatura) altrove, purché essa ritorni, quando possibile, presso l’abitazione e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari, sociali ed economiche (Cass. 22 maggio 1963, n. 1342; Cass. 5 maggio 1980, n. 2936; Cass. 11 maggio 1994, n. 4581).
Anche il Ministero dell’Interno, con la C.M. n. 8 del 29 maggio 1995, ha recepito i suddetti principi di abitualità, stabilità e intenzionalità, precisando che la residenza è fondata sulla dimora abituale, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali, ed il domicilio può essere rilevato dall’esercizio di qualsiasi tipo di attività lavorativa ed anche dall’acquisto o locazione di un immobile da adibire ad abitazione.
Da quanto esposto si evince che le nozioni di domicilio e di residenza si differenziano non tanto per la tipologia dei rapporti patrimoniali o extrapatrimoniali rilevanti nei due istituti, quanto dalla effettiva presenza del soggetto; nella residenza, infatti, la situazione di fatto - intesa come presenza di fatto - risulta elemento determinante, diversamente dalla nozione di domicilio, in cui la presenza del soggetto non è richiesta.
Da ultimo, si ricorda che la previsione del secondo comma dell’articolo 2 TUIR è stata integrata, ad opera dell’articolo 10 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, con l’aggiunta del comma 2bis, in forza del quale, secondo la formulazione risultante a seguito della modifica prevista dal comma 83 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, si “considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”.
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[1] C. GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, 202. In applicazione del principio della fonte il primo comma dell’art. 151 dispone «Il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali non residenti (…) è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad esclusione di quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva» Per effetto di tale previsione normativa, una società o un ente non residente in Italia, che consegua redditi sul nostro territorio, sarà tassato nel nostro Paese indipendentemente dal fatto che, per la stessa ricchezza, tale società od ente sia assoggettato ad imposizione anche nel proprio Stato di residenza in virtù del principio della tassazione mondiale. Qualora, invece, il reddito sia prodotto in un Paese estero, anche diverso da quello di residenza, la società non residente non potrà mai essere assoggettata a tassazione in Italia.
[2] G. MELIS, La nozione di residenza delle persone fisiche nell’ordinamento tributario Italiano, in Rassegna Tributaria n. 6/1995, 1034.
[3] Sul punto, si noti la difformità rispetto al vecchio articolo 2, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, a mente del quale assumevano la qualifica di residenti "oltre alle persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, coloro che hanno nel territorio dello Stato la sede principale dei loro affari e interessi o vi dimorano per più di 6 mesi all'anno (…)". In proposito, la relazione ministeriale illustrativa del nuovo articolo 2 spiega che la sua parziale riformulazione è stata resa necessaria allo scopo di meglio assolvere la funzione che consiste nell'accertare "ai fini dell'obbligo della dichiarazione e dell'esercizio del potere di accertamento, il presupposto dell'obbligazione tributaria di periodo ed è perciò necessario precisare per quanta parte del periodo deve sussistere la condizione richiesta: non soltanto la dimora ma anche la residenza anagrafica e il domicilio".
[4] Cfr. Commentario al modello OCSE, art. 15, paragrafo 5. Vedi anche C.M. n. 201 del 1996.
[5] Sulla natura meramente formale di tale requisito: C. MONTUORI , Presunzione di residenza e inversione dell’onere della prova, in Il Fisco n. 16/2001, 5853; M. GAZZO, La residenza delle persone fisiche e giuridiche nel diritto tributario interno e convenzionale, in Corriere Tributario n. 25/2002, 2289; A. MAGNANI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle persone fisiche, in Il Fisco, n. 30/2003, 12147.
[6] Cass. Sez. I, 06/02/1998, n.1215 (Cfr. M. RAVACCIA, Iscrizione all'anagrafe della popolazione residente e suo carattere di presunzione assoluta (nota a Cass. I, 6 febbraio 1998, n. 1215), in Rivista di Giurisprudenza Tributaria n. 7/1998, 631).
[7] M. MACCARONE, Teoria e tecnica delle imposte sui redditi, I, Milano, 1978, 29, osserva che il riferimento operato al centro principale degli affari e interessi mira "non solo a rendere possibile l'acquisizione ad imposta di tutti quei redditi che, pur essendo prodotti nel territorio dello Stato, sarebbe difficile, per loro natura, localizzare in modo preciso, ma anche e soprattutto a consolidare il criterio dei reddito goduti nel territorio dello Stato".
[8] Sul rimando cfr. G. MARONGIU, voce Domicilio, residenza, dimora nel diritto tributario, in Dig. comm., V, Torino, 1990, 143-144.
[9] Cfr C.M. n. 304/E del 2 dicembre 1997.
[10] Cass. civ., 05/02/1985, n.791 “La residenza è determinata dall'abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l'elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente nel primo elemento”. In altri termini, la volontà si presume fino a prova contraria e ci si affida, in sede probatoria, ad indici estrinseci. Vedi anche Cass. civ., 06/07/1983, n.4525 nella quale si afferma: “Ad integrare il concetto di residenza, quale abituale dimora di una persona, sono richiesti un elemento oggettivo, costituito dalla stabile permanenza del soggetto in un determinato luogo, ed un elemento soggettivo, costituito dalla volontà di rimanervi in modo duraturo; per determinare il momento in cui può ritenersi acquistata la residenza, non è necessario, peraltro, che la permanenza in un determinato posto si sia già protratta per un tempo più o meno lungo, ma è sufficiente accertare che la persona abbia fissato in quel posto la propria dimora con l'intenzione, desumibile da ogni elemento di prova anche con giudizio ex post, di stabilirvisi in modo non temporaneo”.
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