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L’Agenzia non può enunciare genericamente l’inesistenza delle operazioni, ma deve individuare quali fatture ritiene fittizie ed allegare gli elementi sintomatici della fittizietà. Respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate condannata al pagamento

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Estratto: “l’avviso di accertamento è immotivato perché enuncia genericamente l’inesistenza delle operazioni come derivanti da fatture per operazioni apparenti emesse a carico della società T., senza neppure individuare le fatture ritenute fittizie. In mancanza dell’allegazione degli elementi sintomatici potenzialmente capaci di consentire al cessionario o committente di rendersi conto o, almeno, di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione e degli elementi indiziari idonee a giustificare la contestazione dell’Ufficio, non può gravare sul contribuente l’onere di provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza della inesistenza di fatture a monte”.

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Corte di Cassazione, sez. V

Sentenza 13 giugno 2018, n. 15462

Esposizione dei fatti di causa

1. La società J.M. s.r.l., in persona del l.r., impugnava la cartella di pagamento e l’avviso di accertamento, per Irpeg ed Iva, relativamente all’anno di imposta 2001, emesso a seguito di PVC con cui la G. di F. accertava l’indeducibilità di quote di ammortamento relative a beni strumentali riconducibili ad acquisti inesistenti, risultanti dai riscontri con le fatture per operazioni inesistenti emesse dalla società T. s.r.l..

In particolare, risultava che la società J. aveva appaltato alla società T. la realizzazione di uno stabilimento per la produzione di frigoriferi domestici, per il quale beneficiava dei finanziamenti di cui alla L. 488/92; l’appaltatrice si avvaleva, per l’esecuzione delle opere, di società con sede nel nord Italia. Sulla scorta di detti elementi la G.di F. riteneva l’inesistenza delle fatture ricevute dalla società T. e dunque anche di quelle emesse nei confronti della società J., i cui importi erano stati contabilizzati nel libro cespiti ammortizzabili e sommati a quelle dell’anno precedente, in relazione al cespite di riferimento, tutte ricondotte alla voce “Immobilizzazioni materiali”, in tal modo contabilizzando anche per l’anno 2001 le quote di ammortamento sugli importi determinati dalla registrazione delle fatture di cui sopra relative ad operazioni fittizie.

2. La CTP di Agrigento accoglieva il ricorso sul rilievo che vi era stata la definizione automatica ai sensi dell’articolo 9 della legge 289/2002, il che precludeva ogni successivo accertamento.

Nel merito della controversia, i primi giudici deducevano altresì che le operazioni inesistenti attenevano i rapporti tra l’appaltatrice ed altri fornitori e non la società J. Evidenziavano peraltro che lo stabilimento era stato effettivamente realizzato e le fatture emesse nei confronti della committente trovavano riscontro nei prodotti titoli di credito e nei documentati bonifici.

3. Avverso la sentenza di primo grado, l’ufficio proponeva appello che veniva respinto dalla CTR della Sicilia per la carenza di prova – il cui onere veniva posto a carico dell’amministrazione finanziaria – della inesistenza delle fatture, neppure indicate nel PVC ovvero nell’avviso notificato all’ente contribuente.

Propone ricorso l’agenzia delle entrate svolgendo cinque motivi.

Resiste con controricorso la società contribuente.

Esposizione dei motivi di diritto

4. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 9 L. 289/2002, dell’art. 111 Cost., dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 118 disp.att. c.p.c., nonché degli artt. 1 comma 2, 36, comma 2 nn. 2 e 4, 53 e 54 D.lgs. 546/92, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., censurando la pronuncia impugnata per aver respinto – implicitamente – il relativo motivo, senza argomentare e senza esplicitare il percorso motivazionale che ha convinto i giudici della infondatezza della censura.

5. In subordine, con il secondo motivo, si denuncia difetto assoluto di motivazione con riferimento alla censura relativa agli effetti del condono.

6. Con il terzo motivo, in ulteriore subordine, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 9 cit. ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. censurando la pronuncia impugnata per essersi discostata dal principio di diritto affermato da codesta Corte in casi analoghi, secondo il quale è precluso all’Agenzia delle Entrate il potere di accertamento delle imposte evase a fronte dell’adesione del contribuente ai sensi degli artt. 7, 9, 15 e 16 della legge citata, ma non quello di provvedere alla verifica in merito alla spettanza dei crediti vantati risultanti dalle dichiarazioni.

7. Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione di legge: artt. 19, 54 e 55 DPR 633/72; artt. 2697, 2727, 2729 c.c. ed art. 115 c.p.c.ex art. 360 n. 3 c.p.c. nonché dell’art. 112 c.p.c.ex art. 360 n. 4 c.p.c. censurando la sentenza nella parte in cui la CTR di Palermo ha ritenuto non assolto l’onere dell’ufficio di provare che le operazioni oggetto delle fatture erano in realtà inesistenti, per aver violato i principi, confermati dalla S.C., secondo i quali, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente.

8. Con il quinto motivo si lamenta insufficiente ed illogica motivazione su fatto controverso e decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c., dolendosi dell’affermazione con cui i giudici di secondo grado hanno ritenuto carente la documentazione comprovante l’inesistenza delle fatture, trascurando, al contrario, gli elementi presuntivi desumibili dalla inesistenza delle fatture dei fornitori della società T., circostanza mai contestata dalla società J., inesistenza che – in materia di appalto - si riverbera sul committente, il quale inserisce nella sua contabilità le fatture ricevute dai “falsi” fornitori.

9. I primi tre motivi sono inammissibili, per violazione del criterio dell’autosufficienza, in quanto il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, deve compiutamente riportarli nella loro integralità, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049/2015; 21083 del 2014). Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (v. Cass. Sez. 3, 09/01/2002 n. 194; più di recente, v. Cass. Sez. 6 – 1, 09/07/2013 n. 17041; n. 25319/2017; n. 2033/2017; n. 907/2018).

Ben vero, nella decisione impugnata le questioni proposte con i primi tre mezzi del ricorso per cassazione non risultano in alcun modo proposte né esaminate dal giudice di appello, ragion per cui deve ritenersi che esse siano state formulate per la prima volta in questa sede.

10. Il quarto e il quinto motivo sono infondati.

Secondo codesta Corte “In tema di contenzioso tributario, l’Amministrazione finanziaria, ove contesti al cessionario/committente l’assenza di buona fede in caso di irregolarità fiscali o di evasione, ha l’onere di provare ed allegare gli elementi probatori su cui si fondi la contestazione, tra i quali possono rilevare, in via indiziaria, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione” (Cass. n. 30148/2017; n. 967 del 20/01/2016; n. 428/2015; n. 25775/2014; n. 5912 del 2010). In particolare, sul punto la Corte europea ha più volte ribadito che se – tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura o, comunque, a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto (Corte giustizia 06/12/2012; 31/01/2013; Corte giustizia 22/10/2015, C-277/14).

11. Ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che l’Amministrazione possa fornire tale prova anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: cfr. Cass. 21953/07; Cass. n. 9108/12; n. 15741/12, in motivazione; n. 23560/12; n. 27718/13; n. 20059/2014; nello stesso senso Corte giustizia 06/07/2006, C-439/04; Id. 21/02/2006, C-255/02; Id. 21/06/2012, C-80/11; Id. 06/12/2012, C-285/11; Id. 31/01/2013, C-642/11). Sulla scorta della pronuncia C-277/14, questa Corte ha affermato che “continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario/committente a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza appunto di irregolarità o di evasione”; indizi, che devono essere allegati e provati dall’amministrazione in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi (tra varie, Cass. n. 967/2016 cit.; n. 20059/2014; n. 15044/2014).

Sotto questo aspetto, il quadro probatorio indiziario rivelatore della mala fede del committente può essere costituito dai seguenti elementi: a) la circostanza che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione (cfr. Cass. n. 5912/2010, Corte giustizia 13/02/2014, causa C-18/13); b) l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e ad una non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione (cfr. Cass. n. 6229/2013; n. 24426/2013; n. 25778/2014); c) l’instaurazione di rapporti diretti tra il cedente/prestatore effettivo interponente ed il cessionario/committente (Cass. n. 30148/2017).

12. Nella presente fattispecie, l’avviso di accertamento è immotivato perché enuncia genericamente l’inesistenza delle operazioni come derivanti da fatture per operazioni apparenti emesse a carico della società T., senza neppure individuare le fatture ritenute fittizie.

In mancanza dell’allegazione degli elementi sintomatici potenzialmente capaci di consentire al cessionario o committente di rendersi conto o, almeno, di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione e degli elementi indiziari idonee a giustificare la contestazione dell’Ufficio, non può gravare sul contribuente l’onere di provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza della inesistenza di fatture a monte.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

condanna l’ufficio alla refusione delle spese di lite sostenute nel presente giudizio dalla società contribuente che liquida in euro 10.000,00, per compensi, oltre rimborso forfettario, i.v.a. e c.p.a. se dovute.

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