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Corte di Cassazione
del 28 giugno 2018, n. 17128.
FATTI DI CAUSA
L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, con due motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna che, rigettandone l'appello, ha confermato l'annullamento dei due avvisi di accertamento, ai fini dell'IRPEF per gli anni 2000 e 2001, con i quali, ai sensi dell'art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, veniva contestato a MTM il possesso dei redditi derivanti dalla vendita alla s. coop. a r.l. XXX, in data 21 aprile 2000, di quote di terreno agricolo in XXX donate nella stessa data al marito PR ed ai figli PAC e SR. Per l'ufficio, i figli ed il marito della contribuente erano stati soggetti interposti e tale interposizione era avvenuta unicamente allo scopo di ottenere un indebito e notevole risparmio di imposte. Secondo il giudice d'appello, gli indizi evidenziati dall'ufficio, benché suggestivi, non portano univocamente alla conclusione cui esso vorrebbe giungere, e cioè che la donazione era simulata, e cioè che il contribuente non abbia voluto in effetti beneficiare i donatari del valore del bene, poi venduto a terzi, con il cd. animus donandi. La stessa circostanza che le trattative erano state condotte dal donante, se vera, sarebbe del tutto compatibile con il negozio di donazione e con la volontà del donante di beneficiare i donatari con uno strumento all'epoca consentito. L'essere stati i danari derivati dalla vendita, come rilevato dal giudice di primo grado, incassati dai donatari porta per via logica a concludere inequivocabilmente che, in effetti, il donante abbia voluto beneficiare i donatari. La contribuente resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo l'amministrazione lamenta la violazione del principio generale antielusivo del divieto di abuso del diritto; col secondo motivo denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa del beneficio fiscale realizzato con l'operazione negoziale complessiva. Il ricorso, i cui motivi vanno esaminati congiuntamente in quanto legati, è infondato. Questa Corte ha già affermato, anche in relazione a fattispecie affini a quella oggetto del presente giudizio, il principio secondo il quale la disciplina dell'interposizione, prevista dall'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d'imposta: ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell'ambito della quale può ricomprendersi l'interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali (Cass. n. 12788 del 2011, n. 449 e n. 25671 del 2013, n. 21794 del 2014). Il principio va, in linea generale, ribadito, dovendosi tuttavia tener conto, come questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass. n. 5937, in mot.; n. 21952 del 2015, n. 4966 del 2017), tanto del fatto che nelle fattispecie quale quella in esame assume spesso rilievo, trattandosi di rapporti patrimoniali tra genitori e figli (qui anche dì rapporti con il coniuge), il profilo della libertà di pianificazione della successione da parte dei genitori, quanto, in generale, che nulla impone al contribuente di optare, nell'esercizio della propria attività negoziale, per la soluzione più onerosa sul piano fiscale. Ciò premesso, il giudice d'appello, come detto supra, ha escluso, sulla base di una serie di accertamenti e valutazioni di fatto, che gli elementi suggestivi offerti dall'ufficio possano portare univocamente a far escludere che il negozio di donazione tra la contribuente e i donatari, se pure al momento abbia consentito un notevole risparmio di imposta, "fosse simulato, e cioè che il contribuente non abbia in effetti voluto beneficiare i donatari del valore in denaro equivalente al valore del bene, poi venduto a terzi, con il cd. animus donandi. Ove anche fosse infatti vero che le trattative siano state condotte da soggetti diversi dai donatari (ed anzi esse potrebbero essere state condotte addirittura dallo stesso donante), questo elemento sarebbe perfettamente compatibile con il negozio di donazione e con la volontà del donante di beneficiare i donatari utilizzando uno strumento che all'epoca era consentito ... il donante bene potrebbe avere condotto le trattative con l'acquirente nella consapevolezza che il vantaggio economico da esse derivanti sarebbe poi stato riversato sui donatari. In questo senso, l'elemento citato dalla CTP, e cioè che i denari derivanti dalla vendita siano stati incassati dai donatari porta, per via logica a concludere inequivocabilmente che, in effetti, il donante abbia voluto beneficiare i donatari". A fronte di tale motivazione, ampia ed esauriente, nonché priva di vizi logico-giuridici, le censure della ricorrente si rivelano complessivamente infondate. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Il Collegio ravvisa giusti motivi, in considerazione della peculiarità della fattispecie, per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara compensate fra le parti le spese
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