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Corte di Cassazione, Sez. 5
Sentenza n. 34280 del 23 dicembre 2019
FATTI DI CAUSA
M. impugna la sentenza n. 80/02/2012, depositata il 25.05.2012 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che, in riforma della pronuncia di primo grado favorevole al contribuente, aveva rigettato il ricorso introduttivo avverso l'avviso di accertamento, con il quale l'Agenzia delle entrate aveva rettificato, ai sensi dell'art. 41 bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il reddito di lavoro dipendente del contribuente, relativo all'anno 2004. L'Agenzia non aveva riconosciuto la tassazione agevolata, applicata ai sensi dell'art. 19, co. 4 bis, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sulle somme corrisposte al M., dirigente della C. s.r.I., in occasione della risoluzione del rapporto di lavoro subordinato. In particolare, a fronte della normativa, che consentiva l'accesso al trattamento agevolato per i maggiori importi erogati al dipendente rispetto al TFR, per incentivarne l'esodo anticipato, l'Amministrazione aveva contestato la carenza di due presupposti: 1) la sussistenza di un piano di esodo rivolto alla generalità dei lavoratori o ad una categoria di essi, 2) la cessazione del rapporto di lavoro del M. Quanto al primo dei presupposti di cui se ne asseriva la carenza, l'ufficio aveva sostenuto che in concreto si era trattato della risoluzione di uno specifico rapporto di lavoro, senza un piano generalizzato; quanto al secondo, l'Ufficio aveva affermato che negli anni successivi alla risoluzione del rapporto e alla percezione dell'indennità di esodo il M. aveva ricoperto presso la medesima società l'incarico di amministratore delegato. Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano nella sentenza n. 35/12/2011, che aveva accolto le ragioni del contribuente. La Commissione regionale lombarda aveva invece accolto l'appello dell'Ufficio con la pronuncia ora impugnata. Il giudice di merito ha ritenuto che non si fosse verificata la condizione essenziale della cessazione del rapporto di lavoro tra il contribuente e la società.
Il M. censura la sentenza con tre motivi:
con il primo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., per non aver tenuto conto della differenza tra le qualità e le funzioni dell'amministratore e quelle del dirigente, il primo esulante da un rapporto di lavoro dipendente;
con il secondo per nullità della sentenza, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c. perché omessi gli elementi da cui il giudice regionale avrebbe tratto il proprio convincimento;
con il terzo per violazione e falsa applicazione dell'art. 19, comma 4 bis, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nonché dell'art. 2120 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per non aver tenuto conto che la norma agevolativa era indirizzata ai rapporti di lavoro subordinato, a cui quello di amministratore delegato era estraneo. Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza.
Si è costituita l'Agenzia, che ha eccepito l'inammissibilità dei motivi e nel merito ne ha contestato la fondatezza, chiedendo il rigetto del ricorso. All'udienza pubblica del 5 novembre 2019 il P.G. e le parti hanno discusso e concluso. La causa è stata trattenuta in decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I motivi primo e terzo, che possono essere trattati unitariamente perché connessi, prospettandosi sotto i profili dell'error iuris in iudicando e del vizio motivazionale la medesima questione, ossia l'interpretazione che il giudice regionale ha reso in merito ai presupposti applicativi della disciplina agevolativa prevista dall'art. 19, comma 4 bis TUIR al caso di specie, trovano accoglimento. Va premesso che quella disciplina, vigente ratione temporis e poi abrogata dal d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, conv. in I. n. 248 del 4 agosto 2006, in forza della quale le somme ulteriori, rispetto all'indennità di fine rapporto, corrisposte per la risoluzione del rapporto di lavoro ricevevano un trattamento fiscale agevolato, richiedeva due presupposti: l'età minima anagrafica, fissata in cinquanta anni per le donne e in cinquantacinque per gli uomini, la finalità di incentivare l'esodo dei lavoratori. Mentre sul primo requisito non potevano emergere dubbi interpretativi, quanto al secondo -a fronte di una interpretazione, rinvenibile in risoluzioni della Agenzia delle Entrate (la menzionata Risoluzione n. 138 del 19/06/2007), secondo cui esso ricorrerebbe solo in occasione di piani di ristrutturazione aziendale con incentivazione all'esodo di lavoratori interessati alle procedure di mobilità, e con esclusione dunque delle ipotesi in cui mancava un progetto di incentivazione finalizzato all'uscita collettiva dei lavoratori- questa Corte ha affermato che nell'ambito delle somme percepite una tantum per la cessazione del rapporto di lavoro e soggette alla tassazione separata di cui all'art. 16, d.P.R. n. 917 del 1986, l'aliquota agevolata prevista dall'art. 19, comma 4 bis ,dello stesso decreto, si applica a quelle corrisposte al lavoratore a titolo di incentivo per le dimissioni anticipate (cd. incentivo all'esodo), indipendentemente dal carattere individuale o collettivo della corrispondente pattuizione (Cass., ord. n. 33628/2018, nella quale si è confermata la decisione impugnata, che aveva qualificato come "incentivo all'esodo" l'attribuzione di somme in favore di un solo lavoratore). La finalità della disciplina è stata peraltro identificata nel solo obiettivo del legislatore di razionalizzare le risorse aziendali e creare nuove opportunità di lavoro (cfr. Cass., ord. n. 24313/2016), evidenziandosi che ai fini del riconoscimento dell'agevolazione le aziende non sono tenute a prevedere piani ed incentivi generalizzati o indirizzati ad una pluralità di destinatari (Cass., sent. n. 19626/2014), in quanto, come più volte chiarito sempre dal giudice di legittimità, la disposizione «non presuppone che ne siano oggetto, anche solo potenziale, una pluralità di addetti, e neppure che il datore di lavoro abbia offerto ad una pluralità di dipendenti condizioni speciali in caso di uscita anticipata dall'azienda.» (Cass., sent. nn. 4910/05; 9049/05; 9334/06). Ciò chiarito, ed affermata dunque l'irrilevanza che l'incentivazione all'esodo riguardi una pluralità di soggetti oppure anche uno solo, la pronuncia del giudice regionale ha apprezzato le ragioni dell'Ufficio, affermando che si «ritiene che la disposizione agevolativa in questione richieda quale condizione essenziale anche la cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori in possesso del requisito dell'età. Non vi può essere pertanto continuità nella posizione giuridica concernente la relazione lavorativa tra datore di lavoro e dipendente. Nel caso di specie tale continuità in tutta evidenza non si è interrotta, atteso che il M. è rimasto amministratore delegato della C. s.r.l. ed ha mantenuto senza soluzione per l'appunto di continuità le prerogative dirigenziali/gestionali di apice della struttura organizzativa della medesima C. s.r.l. e la correlativa retribuzione.». La motivazione, stringata ancorché non al punto da denunciarne l'apparenza, è tuttavia carente nella motivazione e nella interpretazione della disciplina. Alla difesa del contribuente, che aveva sostenuto di essere l'amministratore delegato della società dal 1990, cumulando poi quello di dirigente della medesima società, rapporto quest'ultimo risoltosi con l'erogazione dell'incentivo all'esodo, ma senza interrompere le deleghe da amministratore, la pronuncia non dedica neppure un cenno. Sostiene semplicemente che l'espletamento dell'incarico di AD pone il M. in un continuato rapporto di lavoro con la società, per la persistenza di "prerogative dirigenziali/gestionali di apice della struttura organizzativa". La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente evidenziato la differenza ontologica tra amministratore delegato di società e dirigente di società. Per circoscrivere i precedenti della giurisprudenza di legittimità alle ipotesi in cui l'attenzione si è soffermata proprio sui dubbi di sovrapposizione delle funzioni, è significativo richiamare il principio secondo cui la compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, deve essere verificata con l'accertamento in concreto della sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica. Va in particolare accertato il diritto al pagamento di una retribuzione per lo svolgimento di mansioni, diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con vincolo di subordinazione (cfr. Cass., sent. n. 9368/1996). È indubitabile infatti che anche il dirigente di una società si trovi in un rapporto gerarchico di subordinazione rispetto a coloro che nella medesima compagine rivestano ruoli gestionali, cui sono riconducibili le scelte di politica aziendale, in base ai poteri loro delegati dalla compagine sociale. Tale gerarchica subordinazione è invece del tutto estranea ai rapporti tra società e amministratore delegato, che può vedersi revocate le deleghe, ma nell'ambito di esse, e per tutta la loro durata, esercita i suoi poteri senza vincolo di subordinazione. A maggior chiarimento si è affermato che le due attività operano su piani giuridici distinti, in quanto quella del dirigente è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, mentre quella dell'amministratore è finalizzata alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (cfr. Cass., ord. n. 10426/2018). Ebbene, l'affermazione della sentenza d'appello, secondo cui il M. ha proseguito il rapporto di lavoro semplicemente sotto altro ruolo, è privo di una pur sufficiente quanto chiara spiegazione inerente la concreta "qualità" della posizione giuridica rivestita nell'una e nell'altra funzione, pur astrattamente così differenti, perché l'una sottoposta alle regole del rapporto di lavoro subordinato, l'altra sottoposta a quelle sul mandato e alla disciplina dettata, quanto alla società a responsabilità limitata, dagli artt. 2475 c.c. e segg.
Le affermazioni assiomatiche della Commissione peraltro non tengono conto del testo normativo, che sia pur sottoposto a regole di interpretazione più rigorose in ragione della materia -le agevolazioni-, è inequivoco nel pretendere che i benefici fiscali sulle somme corrisposte dal datore di lavoro per incentivare l'esodo del lavoratore presuppongano la risoluzione del rapporto lavorativo subordinato, laddove nel caso di specie se ne è impedito l'accesso sulla mera supposizione che il dirigente, il cui rapporto era cessato, proseguisse un rapporto lavorativo con la società attraverso l'esercizio delle mansioni di amministratore delegato. È palese che, salvo a provare la mera apparenza di quelle mansioni, a copertura del dissimulato vecchio rapporto o comunque di un rapporto di subordinazione, di cui però non vi è traccia in sentenza, la Commissione ha erroneamente ritenuto di apprezzare un rapporto fiduciario tra il M. e la società, del tutto irrilevante ai fini della applicazione del beneficio fiscale. Inconclusione i motivi primo e terzo vanno accolti. L'accoglimento del primo assorbe il secondo. La sentenza va dunque cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa anche nel merito, ai sensi dell'art. 384 co. 2 c.p.c. In particolare, non emergendo dagli atti alcun elemento, neppur prospettato, da cui desumere che l'Amministrazione finanziaria abbia anche solo astrattamente ipotizzato che il ruolo di amministratore delegato fosse strumentale alla copertura di un rapporto di lavoro subordinato, questo si è risolto con la conclusione del rapporto lavorativo di dirigente rivestita dal M. sino al 2003, sicché le somme a lui corrisposte a titolo di incentivo all'esodo, ulteriori rispetto a quelle ricevute a titolo di trattamento di fine rapporto, relative all'anno d'imposta 2004, andavano fiscalmente regolate secondo la disciplina agevolativa prevista dall'art. 19 co. 4 bis TUIR, ratione temporis vigente. Trova dunque accoglimento il ricorso introduttivo del contribuente. Le spese processuali del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, nella misura specificata in dispositivo, mentre le alterne vicende dei gradi di merito giustificano la compensazione delle spese ad essi relativi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del contribuente. Condanna l'Agenzia alla rifusione in favore del contribuente delle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 4.100,00 per competenze, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Compensa le spese dei due gradi di merito. Così deciso in Roma, il giorno 5 novembre 2019.
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