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Leggendo alcuni articoli mediatici sembrerebbero che i ristoratori usino solo lavoratori in nero, non emettano quasi mai scontrini fiscali o scontrini regolari, e che navigano nell’oro consentito da tutti questi fantomatici incassi in nero, ma è veramente così?
Noi siamo dell’idea che non lo sia, e che – come dimostra la giurisprudenza – spesso sono avanzate contestazioni infondate.
L’accusa è spesso quella di non registrare i reali incassi del ristorante con l’obiettivo di sottrarre i ricavi ottenuti dalla pressione fiscale.
Nel contempo queste accuse di evasione fiscale pendono come una spada di Damocle sui ristoratori, perché con le attuale metodologie di accertamento presuntivo, attualmente in uso da parte dell’Agenzia delle Entrate, nei confronti della categoria, gli importi da pagare in caso di verifica si fanno così alti che il ristorante si trova di fronte ad una possibile chiusura dell’attività.
Un’evenienza comporterebbe conseguenze infelici per il ristoratore che ha investito nell’attività tutti i suoi risparmi.
Generalmente, inoltre, le indagini che portano agli accertamenti fiscali di ristoranti assumono una grande rilevanza mediatica. Giornali e mass media ne parlano e la voce della presunta disonestà del ristoratore diventa un’onta da cui difendersi.
Non solo quindi perdita di immagine e della reputazione acquisita con tanta fatica ma anche, e conseguentemente, perdita di redditività.
Un rischio elevato da correre per chi ha intrapreso un’attività lavorativa aprendo un ristorante e costruendo nel tempo la propria credibilità.
Peraltro, oggi come oggi, sono spesso gli stessi clienti a chiedere l'emissione del regolare documento fiscale oppure a verificare che l'importo pagato corrisponda a quello riportato sul documento fiscale rilasciato, quindi l’evasione si fa più difficile ed a maggior ragione le accuse di evasione, un tempo più giustificate, oggi sono non raramente infondate (quantomeno negli importi).
Su cosa si fondano i controlli nei ristoranti
Dopo aver visto le possibili gravi conseguenze per il ristoratore, vediamo adesso su cosa si fondano i controlli da parte della Guardia di Finanza.
Verifiche che possono portare alla notifica di avvisi di accertamento con cui si recuperano a tassazione gli importi evasi al Fisco oltre che all’applicazione di elevate sanzioni pecuniarie.
Generalmente gli accertamenti si fondano sul controllo delle scritture contabili. Tuttavia, gli accertamenti di tipo analitico/induttivo si basano sulla verifica delle gravi incongruenze tra i ricavi effettivamente dichiarati e quelli desumibili dall’esercizio di quella determinata attività. Zona, caratteristiche dell’attività, stagionalità sono tutti elementi che vengono considerati per accertare i presunti ricavi di un ristorante.
Ma la ricostruzione si fonda anche sui calcoli basati sui consumi di vino, bevande, tovaglioli e stoviglie acquistati, materie prime rinvenute. Insomma, si parte dai consumi rilevati e dai costi sostenuti dal ristorante per giungere ad una quantificazione induttiva dei pasti realizzati e dei coperti serviti.
Questo numero messo poi a confronto con quello dichiarato può portare ad individuare tutta una serie di attività non fatturate e quindi sottratte alla contabilizzazione finanziaria.
In poche parole, il corredo di beni individuati avrebbe dovuto portare, sulla base di un calcolo presuntivo, il ristoratore a guadagnare di più di quanto effettivamente dichiarato.
Ciò induce a ritenere che egli abbia manipolato i ricavi contabilizzati al fine di ottenere delle entrate in nero non dichiarate al Fisco.
Allo stesso risultato gli accertatori arrivano analizzando gli andamenti dei ricavi, anche in base alle stagioni e mettendoli a confronto nelle diverse annualità.
Problemi maggiori, inoltre, si riscontrano nelle attività ristorative stagionali dove stabilire la coerenza dei ricavi è più difficile.
Vediamo ora alcuni esempi di casi in cui i ristoratori hanno vinto contro le accuse dell’Agenzia delle Entrate a seguito della proposizione di ricorso.
Il tovagliometro o il consumo di vino pro capite non basta a presumere maggiori ricavi.
Corte di Cassazione – Ordinanza n. 16981 del 27 giugno 2018
Con questa pronuncia la Cassazione ha dato ragione ad una contribuente che aveva ricevuto un avviso di accertamento ai fini Iva, Irpef ed Irap per i maggiori ricavi presuntivamente ottenuti durante lo svolgimento della sua attività di ristoratrice.
L’Agenzia delle Entrate, dopo aver perso sia in primo che in secondo grado, ha proposto riscorso in Cassazione, sostenendo che l’atto impositivo era giustificato dal numero delle tovaglie di carta acquistate nel corso dell’anno.
Il Collegio ha considerato il ricorso inammissibile precisando che l’unico elemento proposto per dimostrare i maggiori ricavi, il c.d. tovagliometro, non possa essere sufficiente a dare prova dei maggiori ricavi (specie laddove non considera, per esempio, un abbattimento percentuale dell’uso delle tovaglie perché sovrapposte sui tavoli o perché usate dai familiari della titolare).
Corte di Cassazione - Sentenza n. 1103 del 18 gennaio 2017
Anche questo caso ha avuto origine da una verifica fiscale solta nei confronti di un ristorante marchigiano che ha portato alla notifica di un avviso di accertamento ai fini Iva ed Irap per un maggior reddito non dichiarato superiore a 70 mila euro.
I maggiori ricavi erano stati accertati partendo da una presunzione fondata sul consumo di vino pro capite, pari a 33 cl.
La Cassazione ha finito per confermare le due sentenze di merito già a favore del contribuente ritenendo che il dato relativo al consumo di vino non fosse grave, preciso e concordante e quindi idoneo a fondare l’atto impositivo.
In particolare, i giudici hanno ritenuto che il consumo medio di vino non può essere considerato un dato statistico per una serie di ragioni: si tratta di un dato aleatorio e variabile in base ai gusti del cliente che poteva anche rifiutarlo, il vino in quel ristorante veniva utilizzato anche in cucina.
Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sentenza n. 1421 del 31 gennaio 2019
Infine, questa pronuncia, rappresentando una sintesi tra le precedenti due, ha ritenuto sia il tovagliometro che il bottigliometro insufficienti a fondare l’avviso di accertamento notificato ad un ristoratore per presunti maggiori ricavi superiori ad un terzo del suo fatturato annuo.
Le presunzioni, in particolare, si fondavano sui litri di acqua venduti per i quali erano state emesse le relative ricevute fiscali.
La CTP ha però dato ragione al contribuente che ha ricorso avverso l’atto impositivo ritenendo che il calcolo fatto dall’Amministrazione Finanziaria e fondato su presunzioni, portava ad una ricostruzione distorta della reale situazione economica del ristorante.
Ed infatti, a parere dei giudici, era stata considerata soltanto la media delle bottiglie vendute nell’arco di un trimestre arrivando così ad un calcolo inattendibile.
Ecco allora che il metodo presuntivo è stato ritenuto insufficiente a fondare l’avviso di accertamento in quanto avrebbe dovuto essere adoperato con criteri più adeguati oltre che supportato da ulteriori elementi di prova, più precisi e coerenti.
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