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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 24020 del 26 settembre 2019
Rilevato che:
1. A. Srl, in liquidazione, con sede legale in Bologna, svolgente l'attività di concessionaria di autoveicoli, impugnò innanzi alla CTP di Bologna l'avviso di accertamento, conseguente ad una verifica fiscale nei confronti di AB. Srl (poi incorporata dalla contribuente), che, per l'annualità 2002, aveva rilevato: a) l'illegittima detrazione d'imposta su operazioni soggettivamente inesistenti (acquisto di autovetture), integranti una "frode carosello" in ambito comunitario, e aveva quantificato la maggiore IVA dovuta in euro 15.333,00, oltre agli interessi e alle sanzioni; b) l'applicabilità dell'IVA ai c.d. bonus riconosciuti da AG Spa alla società bolognese; la CTP di Bologna, con la sentenza n. 39/01/2010, respinse il ricorso;
2. sul gravame della contribuente, la CTR dell'Emilia-Romagna ha premesso che: "I primi giudici nel respingere il ricorso del contribuente si esprimevano su una questione attinente l'assoggettamento ad IVA dei bonus qualità/quantità, questione abbandonata dall'Ufficio (già definito da controparte) che nelle controdeduzioni rivendicava solamente la indeducibilità dell'IVA per inesistenza dei soggetti." (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata); dopodiché, ha rigettato l'appello della società, ritenendo che: a) dagli atti emergeva che la società contribuente aveva operato con ditte fornitrici che, per alcuni anni, compreso il 2002, avevano omesso di versare l’IVA; b) sarebbe stato onere della contribuente accertare, usando un'adeguata "diligenza imprenditoriale", l'esistenza o meno di un'organizzazione in capo alle imprese fornitrici, per evitare di operare con soggetti da considerare inesistenti; c) a tale fine, non era necessario consultare le scritture contabili delle società cedenti poiché, talvolta, la reale operatività di un'impresa si coglie con una semplice visita ai locali in cui si assume che essa svolga la propria attività; d) allo stesso fine, i bilanci delle fornitrici erano senz'altro liberamente consultabili; e) posto che le fornitrici erano soggetti inesistenti, le fatture che esse avevano emesso erano prive di rilevanza fiscale, ai fini IVA e ai fini delle imposte dirette;
3. la contribuente propone ricorso, per tre motivi, per la cassazione della sentenza d'appello; l'Agenzia resiste con controricorso;
Considerato che:
1. con il primo motivo del ricorso, denunciando "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio alla luce degli artt. 35 e 46 del d.lgs. n. 546/1992 nonché dell'art. 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.", la ricorrente assume che l'avviso di accertamento conteneva rilievi riguardanti la corretta disciplina fiscale dei c.d. "bonus", riconosciuti, nel 2002, da AG Srl alla concessionaria emiliana; riferisce di avere impugnato dinanzi alla CTP anche tale rilievo e che l'Agenzia, nelle controdeduzioni, aveva dato atto che quella contestazione doveva ritenersi definita dall'interessata con un precedente accertamento parziale; rimarca che il giudice di primo grado, omessa ogni decisione sull'unico tema del decidere, concernente le operazioni soggettivamente inesistenti, errando, si pronunciò esclusivamente in punto d'imponibilità o meno dei bonus ai fini dell'IVA; tutto ciò premesso, censura la sentenza della CTR che, invece, nel pronunciarsi sull'unico aspetto rimasto controverso, aveva però omesso contra legem di statuire su una questione espressamente affrontata dalle parti e di dichiarare la cessazione della materia del contendere con riferimento al detto rilievo sui "bonus", 1.1. il motivo è inammissibile; pur sussistendo in astratto un interesse alla pronuncia di cessazione della materia del contendere ex art. 46, del d.lgs. n. 546/1992, atteso che la sentenza emessa dal giudice tributario definisce il giudizio, che ha natura di impugnazione-merito, sicché essa tende a sostituirsi all'atto impositivo (Cass. n. 24092/2014), la società ricorrente non ha tuttavia esposto in ricorso in quale momento del processo di secondo grado la questione dell'annullamento in autotutela sia stata introdotta, nulla per altro rilevandosi dalla stessa sentenza impugnata; la ricorrente, quindi, è incorsa nella violazione dell'art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non superabile per effetto dell'indicazione fornita dalla stessa Agenzia delle entrate in controricorso, in quanto: "I requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall'art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso (così, da ultimo, Cass. n. 29093/2018);
2. con il secondo motivo, denunciando "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21 e 54 del d.p.r. n. 633/1972, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.", la ricorrente censura la sentenza impugnata che, per un verso, ha ignorato i princìpi ormai consolidati, espressi dalla Corte di giustizia UE, in tema di detrazione dell'IVA e di criteri di riparto dell'onere della prova, tra Amministrazione finanziaria e contribuente, circa la conoscenza ché l'operazione invocata a fondamento del diritto alla detrazione s'iscrivesse in un'evasione o altre irregolarità commesse dall'emittente la fattura o da altro operatore, intervenuto "a monte" nella catena delle cessioni; per altro verso, ha omesso di valutare la copiosa documentazione, prodotta in giudizio dalla società, che dimostrava la diligenza "adeguata e qualificata" dell'impresa bolognese nel verificare l'esistenza dei fornitori e, per converso, l'assoluta infondatezza dei rilievi dell'Ufficio; assume, inoltre, che persino l'Amministrazione finanziaria, in sede processuale, aveva riconosciuto che la frode IVA non era stata commessa dai fornitori della contribuente, ma dai "fornitori dei fornitori", con i quali la compagine emiliana non poteva certo avere intrattenuto rapporti commerciali; soggiunge che neppure i prezzi d'acquisto delle autovetture avrebbero potuto metterla sull'avviso della falsità delle operazioni, dal momento che essi erano allineati ai prezzi di mercato, comprovati da una perizia giurata, non contestata dall'Ufficio, che la CTR avrebbe dovuto porre a fondamento della propria decisione;
3. con il terzo motivo, denunciando "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio alla luce degli artt. 21 e 54 del d.p.r. n. 633/1972, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.", la ricorrente censura la sentenza impugnata che: "non chiarisce e/o omette del tutto di spiegare e/o omette immotivatamente di tenere in alcuna considerazione tutta la produzione documentale offerta dalla Società nel corso dei due gradi di giudizio a supporto delle proprie tesi difensive (perizia asseverata, visure camerali, sentenze penali, documentazione contabile, ecc.), e ciò nonostante tali evidenze probatorie non siano state tempestivamente e ritualmente contestate dall'Amministrazione così che ex art. 115 c.p.c. il giudice avrebbe addirittura dovuto considerare tali fatti come dimostrati e non abbisognevoli di ulteriore prova." (cfr. pag. 39 del ricorso per cassazione);
3.1. il secondo e il terzo motivo, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati;
3.1.1. vale la premessa, di carattere generale, per la quale la falsità della fattura è potenzialmente idonea a escludere la riconoscibilità del diritto di detrazione; in particolare, ove si tratti di operazioni che sono state rese al destinatario, che le ha effettivamente ricevute, da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione rappresentata nella fattura (operazioni soggettivamente inesistenti), l'IVA non è, in linea di principio, detraibile perché versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all'obbligo di pagamento dell'imposta; in un simile contesto, ai fini della ripartizione dell'onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un'eccezione al principio di neutralità dell'IVA che tale diritto costituisce: incombe, dunque, in primo luogo, sull'Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell'esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione; una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di avere svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente; la prova che deve essere fornita dall'Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti s'incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale, quali: a) l'alterità soggettiva dell'imputazione delle operazioni (il soggetto formale non è quello reale); b) il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA: non è necessaria la prova della partecipazione all'evasione, ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole; con specifico riferimento all'elemento sub b, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l'operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell'IVA non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione; è, infatti, configurabile un'esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se «non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l'operazione interessata si collocava nell'ambito di un'evasione commessa dal fornitore o che un'altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell'IVA» (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14); sicché l'Amministrazione tributaria è tenuta a provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene o il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l'uso dell'ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l'emissione della relativa fattura, aveva evaso l'imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, «a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente» (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50); l'orientamento unitario e consolidato della Corte di Giustizia pone al centro del sistema il principio della neutralità dell'IVA, che esige, qualora siano rispettati i requisiti sostanziali, che la detrazione dell'imposta pagata "a monte" sia riconosciuta, e da cui deriva, sul piano logico e giuridico, l'impossibilità di fissare in via astratta e preventiva circostanze che ostino al riconoscimento del diritto di detrazione, esclusa, dunque, ogni predeterminata ed astratta inversione dell'onere della prova (v. oltre alle decisioni già citate Corte di Giustizia 15 novembre 2017, Rochus e Finanzamt, C-374/16 e C-375/16; v. anche Corte di Giustizia 7 settembre 2017, Equiom, C-6/16, che, seppure con riferimento ad una diversa questione, precisa che «le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, a un esame complessivo dell'operazione interessata»); raggiunta tale prova, è onere del contribuente dimostrare - oltre all'effettività del suo interlocutore - la propria buona fede, ossia, mutuando i princìpi affermati dalle sezioni unite (n. 21105/2017) e propri della giurisprudenza della Corte di Giustizia, «di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un'evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto - secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto - al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto», non permettendo una diversa conclusione neppure gli accertamenti eventualmente effettuati ed attesa l'inesigibilità di ulteriori e più approfondite verifiche; in sintesi: in tema d'IVA, ove l'Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una "frode carosello", essa ha l'onere di provare, anche in via indiziaria, non solo l'inesistenza del fornitore, ma anche, sulla base di elementi oggettivi e specifici, che il cessionario sapeva (o avrebbe potuto sapere), con l'ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, che l'operazione si inseriva in un'evasione dell'imposta; incombe, quindi, sul contribuente la prova contraria di avere agito in assenza di detta consapevolezza e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. 13/03/2013, n. 6229; 18/06/2014, n. 13803; 9/09/2016, n. 17818; 14/09/2016, n. 18118; 15/05/2018, n. 11873; 19/04/2018, n. 9721; 20/04/2018, n. 9851; 21/06/2018, n. 16469; 24/08/2018, n. 21104; 30/10/2018, n. 27555; 30/10/2018, n. 27566);
3.1.2. ciò premesso sul piano dei princìpi, nella specie la sentenza impugnata è viziata sotto due diversi profili: da un canto, la CTR non ha fatto corretta applicazione del descritto criterio di riparto dell'onere della prova, tra Amministrazione finanziaria e contribuente, in quanto, senza prima verificare se l'Ufficio avesse dimostrato, anche per presunzioni, che la società acquirente era a conoscenza o avrebbe dovuto conoscere, con la diligenza qualificata richiesta all'imprenditore, che l'operazione s'iscriveva in un'evasione fiscale, ha posto contra legem a carico della cessionaria il peso di dimostrare di avere agito in assenza di una simile consapevolezza, nonostante l'uso della diligenza esigibile da un operatore accorto; d'altro canto, la CTR, alla stregua di un superficiale apprezzamento del caso concreto e di una motivazione altrettanto lacunosa e carente, trascurando sia il tema dell'onere della prova a carico dell'Amministrazione, sia gli argomenti difensivi della società, ha negato - nella sostanza - con locuzioni anapodittiche, che la contribuente avesse dato dimostrazione del proprio comportamento provveduto e incolpevole;
4. da queste considerazioni consegue che, accolti il secondo e il terzo motivo e dichiarato inammissibile il primo, la sentenza impugnata è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla CTR dell'Emilia-Romagna, in diversa composizione, alla quale è demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;
PQM
la Corte accoglie il secondo e il terzo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese di questo giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019
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