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Sentenza del 05/06/2023 n. 15749 - Corte di Cassazione - Sezione/Collegio 5
Fatti di causa
A conclusione di una verifica generale condotta da militari della GdF relativamente agli anni d'imposta 2007/2009, l'Agenzia delle entrate notificò alla AT Srl l'avviso d'accertamento con cui, per quanto qui di interesse e per l'anno 2008, fu rideterminato l'imponibile ai fini iva, con conseguente recupero ad imposta dell'importo di Euro 78.459,70. Furono conseguentemente comminate le relative sanzioni. L'ufficio aveva ritenuto che la società, esercente attività di commercializzazione (previa lavorazione e conservazione) di frutta e ortaggi, e più nello specifico di tartufi, avesse partecipato ad una cd. "frode carosello", emettendo fatture d'acquisto del prodotto dalla società cartiera "Principe Srl ", in realtà acquistate direttamente da altri soggetti, i cd. cavatori, nell'intento di fruire di vantaggi fiscali (sottrarsi all'applicazione della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 109 - legge finanziaria 2005 -, che imponeva l'obbligo di autofatturazione per l'acquisto di tartufi da raccoglitori dilettanti privi di partita iva - cavatori -, con obbligo di versamento dell'iva autofatturata senza diritto alla detrazione).
Instaurato il contenzioso dalla società, la Commissione tributaria provinciale di Pesaro, con sentenza n. 145/01/2016 rigettò il ricorso. L'appello della contribuente fu invece accolto dalla Commissione tributaria regionale delle Marche con sentenza n. 375/01/2017, ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale ha ritenuto che le emergenze documentali escludevano la partecipazione della contribuente al meccanismo della frode carosello, mancando la prova, sotto il profilo soggettivo, della consapevolezza della frode, nè potendosi addebitare un colpevole affidamento nei confronti della società cedente P. Srl , le cui carenze organizzative e irregolarità fiscali non erano conoscibili dall'acquirente, secondo la diligenza ordinaria su di essa gravante, per le modalità con cui i rapporti commerciali erano stati tenuti. Il giudice regionale ha inoltre evidenziato come fosse del tutto assente la prova, di cui l'Amministrazione finanziaria era pur onerata, dell'approvvigionamento del tartufo dai cavatori e del pagamento in nero di questi, venendo dunque meno il movente del mascheramento di tali rapporti con operazioni soggettivamente inesistenti.
L'Agenzia delle entrate ha censurato la sentenza, della quale ha invocato la cassazione, affidandosi ad un unico motivo. La società ha resistito con controricorso, in subordine "a titolo cautelativo" ribadendo l'eccezione, respinta dal giudice d'appello, di declaratoria di nullità dell'accertamento per decadenza dalla potestà impositiva.
All'esito della udienza pubblica del 13 dicembre 2022, la causa è stata riservata e decisa. La società e l'Agenzia delle entrate hanno ritualmente depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
Con l'unico motivo l'Agenzia delle entrate si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, e art. 54, comma 2, degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè della giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l'erroneità della sentenza d'appello, laddove ha ritenuto che l'Ufficio non avesse dato prova "della piena consapevolezza del meccanismo fraudolento" da parte della società, ovvero che questa fosse colpevolmente inconsapevole del meccanismo fraudolento. Nello specifico la ricorrente critica l'illogica valorizzazione dei duraturi rapporti tra i soci ed i soggetti tramite i quali la società si è relazionata con la P. Srl Critica le argomentazioni da cui il giudice regionale avrebbe tratto il convincimento della incolpevole ignoranza delle irregolarità e inconsistenze organizzative della fittizia fornitrice dei tartufi. Denuncia l'inconsistenza delle circostanze relative alla regolarità dei pagamenti eseguiti mediante assegni o degli elementi che supportavano l'affidabilità del A.A., soggetto con cui la contribuente si interfacciava per trattare dell'acquisto e consegna dei tartufi.
Il motivo è infondato.
Secondo la prospettazione dell'ufficio il quadro indiziario a carico della società, alla luce della disciplina invocata e della giurisprudenza Euro-unitaria, era idoneo a supportare l'atto impositivo, in applicazione del principio secondo cui l'indetraibilità dell'iva può escludersi solo per quei soggetti passivi esenti da colpa per non avere o non poter avere conoscenza della partecipazione ad una frode iva. La commissione regionale avrebbe al contrario valorizzato elementi inidonei a superare tale principio, errando anche nel governo delle regole poste a presidio del riparto dell'onere probatorio.
Deve premettersi che il caso di specie afferisce alla contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti nell'ambito di una frode attuata in occasione del commercio di tartufi, nella quale l'Amministrazione finanziaria ha ritenuto coinvolta l'odierna controricorrente, per aver acquistato la merce in regime ordinario, con conseguente detrazione dell'iva pagata sul prezzo, laddove la cedente era solo una società fittizia, che in realtà mascherava l'acquisto dei tartufi da "cavatori", privi di partita iva. Ciò per evitare l'applicazione della disciplina introdotta con L. n. 311 del 2004, il cui art. 1, comma 109, prevedeva che per tali acquisti spettasse all'acquirente, in regime di inversione contabile, autofatturare il tubero, pagando l'iva senza diritto alla detrazione. Ciò chiarito, quale premessa generale e con riguardo alle modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui il ricorso denuncia sostanzialmente un malgoverno, compete alla Corte di cassazione, nell'esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell'art. 2729 cod. civ.alla fattispecie concreta, poichè, se è devoluto al giudice di merito valutare la ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità, al fine della verifica sul buon uso del materiale indiziario disponibile, ed alla censura, qualora risultino violati i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, con l'effetto di negare o attribuire valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass., 26 gennaio 2007, n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984). Peraltro, ai fini dell'utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla Amministrazione (Cass., 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha anche tracciato il corretto procedimento logico, che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall'altro in vicendevole completamento (ex multis, cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l'ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Quanto poi alla contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, questa Corte ha affermato che in tema di IVA, qualora l'Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l'onere di provare non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione d'imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Di recente, con riguardo al regime del reverse charge o inversione contabile -con principi elaborati in riferimento al commercio di materiale ferroso, ma le cui argomentazioni possono trovare applicazione generale-, si è affermato che in applicazione dei principi di diritto, enunciati dalla Corte di giustizia della UE, il diritto di detrazione dell'imposta relativa ad un'operazione di cessione di beni non può essere riconosciuto al cessionario che, sulla fattura emessa per tale operazione in applicazione del suddetto regime, abbia indicato un fornitore fittizio allorquando, alternativamente, il medesimo cessionario: a) abbia egli stesso commesso un'evasione dell'IVA ovvero sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione s'iscriveva in una simile evasione; b) sia semplicemente consapevole della indicazione in fattura di un fornitore fittizio e non abbia fornito la prova che il vero fornitore sia un soggetto passivo IVA (Cass., 10 febbraio 2022, n. 4250).
Si tratta di interpretazione ancora più rigorosa in termini di prova richiesta al cessionario, e comunque relativa alle ipotesi in cui trova applicazione il regime del reverse charge, estraneo a caso di specie, come appresso chiarito. E tuttavia essa merita un cenno nella fattispecie ora al vaglio della Corte, atteso che la prospettazione accusatoria dell'Amministrazione finanziaria è quella secondo cui la frode carosello denunciata avrebbe quale finalità il mascheramento dell'acquisto del tubero da "cavatori" occasionali, regolata dalla L. n. 311 del 2004 con regime di inversione contabile e senza diritto di detrazione dell'Iva.
Ebbene, in riferimento al regime del reverse charge è stato chiarito che "(...) 2.9. la Corte di giustizia (CGUE 11 novembre 2021, in causa C-281/20, Ferimet SL), che si è di recente occupata per la prima volta della disciplina del reverse charge in materia di operazionisoggettivamente inesistenti, ha stabilito che la direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28/11/2006 (direttiva IVA), letta in combinazione con il principio di neutralità fiscale, dev'essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo va negato l'esercizio del diritto a detrazione dell'IVA relativa all'acquisto di beni che gli sono stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso per tale operazione nell'ambito dell'applicazione del regime dell'inversione contabile, se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un'evasione dell'IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s'iscriveva in una simile evasione; 2.9.1. è stato, altresì, evidenziato che, sebbene non sia in contrasto con il diritto della UE esigere che un operatore agisca in buona fede, non è necessario dimostrarne la malafede per negargli il diritto di detrazione (CGUE in causa 281/20, cit., punto 58; conf., CGUE 14 aprile 2021, in causa C-108/20, Finanzamt Wilmersdorf, punti 30 e 31), 2.9.2. anzi, il fatto che il soggetto passivo che ha emesso la fattura vi abbia consapevolmente menzionato un fornitore fittizio "è un elemento rilevante tale da indicare che il soggetto passivo in questione era cosciente di partecipare a una cessione di beni che si iscriveva in un'evasione dell'IVA" (CGUE in causa C-281/20, cit., punto 53); 2.9.3. del resto, sul piano generale, l'esercizio del diritto alla detrazione dell'IVA va negato se mancano i dati necessari per verificare che il fornitore del soggetto che lo invoca abbia la qualità di soggetto passivo (CGUE 9 dicembre 2021, in causa C-154/20, Kemwater ProChemie s.r.o., punto 41); 2.9.4. in piena coerenza con quanto affermato dalla Corte di giustizia, l'orientamento consolidato della S.C. è nel senso che l'IVA non è detraibile, ancorchè risulti l'apparente osservanza dei requisiti formali, ove manchi la corrispondenza dell'operazione fatturata con quella in concreto realizzata; e ciò anche nel caso di applicazione del regime dell'inversione contabile (Cass. n. 16679 del 09/08/2016; Cass. n. 2862 del 31/01/2019; Cass. n. 3599 del 13/02/2020; Cass. n. 14853 del 13/07/2020; Cass. n. 16367 del 30/07/2020; Cass. n. 21677 del 08/10/2020; Cass. n. 9394 del 09/04/2021); (...) 2.10.1...., pertanto, non rileva tanto la (più generale) conoscenza della frode IVA (....) ovvero la partecipazione o conoscenza di tale disegno criminoso da parte di (...), essendo, invece, rilevante la conoscenza, da parte della società contribuente, della inesistenza del soggetto passivo (fornitore) indicato in fattura e la mancanza di elementi idonei ad individuare l'effettivo fornitore quale soggetto passivo IVA" (Cass., n. 4250/2022 cit.).
Ebbene, occorre verificare se, anche volendo tener conto della più recente e rigorosa giurisprudenza di questa Corte e della Corte di Giustizia UE, che da ultimo ha ricostruito i presupposti della indetraibilità dell'Iva in operazioni soggettivamente inesistenti, quando afferenti ad operazioni compiute in regime di inversione contabile, la sentenza ora al vaglio del collegio sì sia discostata dai principi enunciati.
L'esito del vaglio evidenzia la correttezza della decisione.
La Commissione regionale, in aderenza alla giurisprudenza di legittimità ed Euro-unitaria, valutando il materiale probatorio acquisito al giudizio, ha tratto il convincimento, come sottolineato anche dalla Procura Generale, che "non vi fosse alcun elemento dal quale la società potesse trarre il sospetto dell'inesistenza soggettiva del proprio interlocutore commerciale". Le argomentazioni a tal fine sviluppate nella decisione impugnata elencano gli elementi da cui si evince non solo la mancanza di consapevolezza delle irregolarità e dell'intento fraudolento della cessionaria, ma l'inesigibilità, sotto il profilo della diligenza, della conoscenza di quelle condizioni, con ciò escludendo una ignoranza colposa della contribuente. Ciò vale anche in riferimento alla affidabilità ingenerata nei soci della contribuente dai soggetti che si interfacciavano con la A. Srl , per importanza e visibilità, addirittura nazionale, quali autorevoli rivenditori di tartufi (in particolare il A.A.).
Dall'esame delle prove il giudice d'appello ha dunque escluso non solo il coinvolgimento della società nella frode, ma, ancorchè non partecipe, la condotta colposa, secondo la diligenza richiesta ad un operatore professionale, di chi non si avveda della frode messa in atto dal suo cedente, così negando in radice la possibilità di partecipare o di avere consapevolezza del fraudolento compimento di operazionisoggettivamente inesistenti.
Rispetto al quadro dei rapporti così puntualmente rappresentato, le critiche dell'Agenzia delle entrate risultano infondate in punto di diritto.
Essa ripropone una massa di elementi e osservazioni, già riversate nei precedenti gradi di merito, che tuttavia non può inficiare la corretta valutazione già espressa dal giudice regionale, secondo una corretta applicazione delle regole giuridiche di interpretazione delle prove.
Se poi la ricorrente, con la propria difesa, insta per la revisione delle conclusioni raggiunte dal giudice regionale, surrettiziamente invocando un riesame dei fatti, non si avvede che in tal modo richiederebbe in sede di legittimità una attività inammissibile, perchè riservata in via esclusiva al giudice di merito.
Il ricorso va in conclusione rigettato e all'esito del giudizio segue la soccombenza dell'Amministrazione finanziaria nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l'Agenzia delle entrate alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di Euro 6.500,00 per competenze, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2023
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