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Analisi casi processuali – ricorso contro avviso di accertamento – annullamento totale dell’avviso ottenuto con sentenza della Commissione Tributaria Provinciale Featured

Scritto da Avv. Federico Pau
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Nel presente articolo analizziamo un caso giurisprudenziale sottoposto alla Commissione Tributaria Provinciale, la quale ha accolto le tesi sviluppate nel ricorso da noi proposto e proceduto all’annullamento integrale dell’avviso emesso nei confronti di un’associazione temporanea di imprese (ATI) e della sua capogruppo.

La prospettiva sarà differente rispetto al consueto esame della sentenza.  Infatti, procederemo ad esaminare la fattispecie, non dalla prospettiva del corpo letterale della sentenza, ma dalla prospettiva delle argomentazioni processuali da noi sviluppate, accolte in sentenza, e che hanno condotto all’annullamento integrale dell’avviso di accertamento.

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“L'Agenzia delle entrate di XXX ha notificato, in data XXX, alla contribuente XXX ATI, C.F. XXXXXXXXX, l'avviso di accertamento indicato in epigrafe (documento n. X), all'interno del quale l'Ufficio afferma di aver verificato la posizione fiscale della stessa in relazione al periodo d'imposta XXXX.

In esito alla predetta verifica, viene avanzata nei confronti della contribuente una pretesa unitaria di pagamento ammontante a ben 989.620,09 euro, di cui 274.769,00 euro a titolo di imposta ed oltre 700.000,00 euro a titolo di interessi e sanzioni.

Nella sostanza la motivazione alla base dell'odierna richiesta sarebbe la seguente: l'ATI dal punto di vista fiscale non esisterebbe, le sarebbe stata attribuita partita IVA per errore, e, dunque, la stessa non avrebbe potuto demandare ed ottenere il rimborso del credito IVA maturato, seppure spettante negli importi ed in dipendenza delle operazioni effettuate, per l'inesistenza soggettiva dal punto di vista tributario della medesima.

Sin da subito, emergono lampanti profili di illegittimità e contraddittorietà intrinseca del sopra menzionato avviso di accertamento.

Se infatti l'ATI non esiste dal punto di vista fiscale e fiscalmente assumerebbero rilevanza unicamente le imprese partecipanti, come può l'Ufficio accertare autonomamente la posizione fiscale proprio dell'ATI e non quella delle singole imprese che la compongono, ed intimare il pagamento di circa un milione di euro nei confronti della stessa?

Se fosse corretto l'assunto dell'Ufficio (ma per come si dimostrerà non lo è), i contribuenti accertati sarebbero dovuti essere le singole imprese partecipanti.

Senonché accertando l'operato fiscale delle singole imprese associate vi sarebbe stato poco da contestare, avendo le stesse ben diritto al rimborso dell'IVA maturata perché corrisposta in eccesso in dipendenza delle operazioni passive, IVA a loro restituita dall'ATI (che non ha certamente trattenuto tali somme).

Peraltro, nel medesimo avviso, l'Agenzia asserisce, seppure senza alcuna base normativa, la responsabilità solidale, in relazione al pagamento, di una partecipante all'ATI – la capogruppo XXX – e ciò per l'intero importo intimato, ed infatti procede a notificare il predetto avviso di accertamento anche nei confronti di essa, cui viene parimenti intimato il pagamento, indicandola addirittura come soggetto coobbligato per l'esecuzione da parte di Equitalia (cfr. pag. XX dell'avviso).

Quest'ultima si trova quindi costretta per tuziorismo a ricorrere avverso l'atto impositivo, anche in proprio, stante l'implicita lesività che tale infondato assunto – secondo il quale la stessa sarebbe interamente responsabile del pagamento (circa un milione di euro) – avrebbe nei suoi confronti, ed in quanto la stessa si trova intimata del pagamento pur in assenza di disposizioni di legge che ne prevedano la responsabilità ai fini del pagamento.

Sul punto, si nota, non viene notificato nei confronti della XXX un distinto avviso di accertamento, in cui si procede a verificare la posizione fiscale della medesima, bensì l'avviso di accertamento con cui si verifica la posizione fiscale della XXX ATI e ne si rettifica la dichiarazione (applicando nel contempo sanzioni spropositate), asserendo una presunta responsabilità – per l'intero ammontare – della prima società.

Insomma, da un lato l'ATI non esisterebbe dal punto di vista fiscale, e ciò porterebbe ad avviso dell'Ufficio al disconoscimento – soggettivo – del diritto al rimborso, nonché ad una serie concatenata di conseguenze sanzionatorie (come menzionato, le sanzioni applicate ammontano ad oltre 700.000,00 euro a fronte di un'imposta contestata di euro 274.769,00); tuttavia, dall'altro lato, l'ATI dovrebbe assumere autonoma rilevanza tributaria ai fini del controllo fiscale, ai fini della notifica dell'accertamento, ai fini della quantificazione unitaria della pretesa impositiva, ai fini della determinazione di sanzioni in conseguenza di presunte violazioni alla stessa ascritte, ed ai fini dell'intimazione di pagamento.

Il tutto prospettando un'illegittima estensione dell'intimazione di pagamento nei confronti di una delle partecipanti all'ATI.

Questa è nei fatti la vicenda che sarà sottoposta a questo On.le Giudicante.

In qualsiasi modo si inquadri la stessa, l'avviso di accertamento di cui trattasi si mostra radicalmente nullo ed infondato, e nel corpo del presente ricorso esamineremo nello specifico le ragioni che giustificano la dichiarazione di nullità del medesimo.

***

Per tutti questi motivi e per quelli che seguiranno XXXATI (C.F. XXX) e XXX S.P.A. (C.F. XXX), come sopra rappresentate e difese,

visti

gli artt. 18, 19 e 21 del D.Lgs. n. 546/1992 e ss.mm.

ricorrono

avverso l'avviso di accertamento sopra indicato per i seguenti motivi.

1 - LA POSIZIONE DELLA XXX S.P.A.

L'Amministrazione Finanziaria, pur in assenza di norme che la prevedano, estende la richiesta di pagamento nei confronti di una delle associate della XXX ATI.

L'assunto dell'Ufficio viene così argomentato: l'associata XXX sarebbe – si legge nell'avviso - “responsabile solidale per i seguenti motivi: - OMISSIS”.

Come visto, alcuna disposizione di legge è citata dai Verificatori.

Ciò in quanto non esiste alcuna disposizione di legge che preveda la responsabilità solidale della capogruppo nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.

In altri termini è l'Agenzia che, improvvisandosi legislatore, attribuisce una responsabilità solidale nei confronti del Fisco che l'ordinamento italiano non prevede.

Non si tratta neanche di una tesi interpretativa, di una lettura di parte di norme vigenti, non ritroviamo infatti alcun richiamo di previsioni legislative ma un mero assunto del Verificatore motivato richiamando atti privati (che, peraltro, prevedono qualcosa di totalmente diverso).

D'altronde deve essere il legislatore a stabilire in quali casi ed a fronte di quali presupposti stabilire una responsabilità solidale, evidentemente valutando anche l'opportunità di prevedere il beneficium excussionis (ossia l'escussione in via principale del coobbligato principale).

Responsabilità solidali non possono così arbitrariamente essere stabilite e pretese dall'Ufficio.

È solo ed esclusivamente il Legislatore che può legiferare sul punto valutando gli interessi coinvolti (si prendano ad esempio i molti casi in cui il legislatore ha deciso di introdurre tale forma di garanzia per l'Erario: in tema di cessione d'azienda o di scissione societaria, in materia di imposta di registro, ovvero, in materia di IVA, nei casi di cui all'art. 60-bis del D.P.R. n. 633 del 1972 che stabilisce il principio di responsabilità solidale da parte del cessionario nel caso di mancato versamento dell'imposta da parte del cedente).

E nel nostro caso il legislatore semplicemente non l'ha prevista.

Sul punto emerge anche la violazione dell'art. 42 D.p.r. 600/1973 che impone agli operanti di indicare le “ragioni giuridiche” alla base delle proprie pretese.

L'Ufficio infatti non spiega sulla base di quale disposizione di legge tale società dovrebbe essere gravata degli obblighi di pagamento così precipitosamente e arbitrariamente posti a suo carico.

Solamente tale ultima circostanza sarebbe sufficiente per una declaratoria di nullità dell'intero avviso alla luce della giurisprudenza (ex pluribus Commiss. Trib. Prov. Veneto Treviso Sez. VII, 14/01/2009, n. 4 “E' nulla la cartella di pagamento attraverso la quale l'Amministrazione finanziaria avanzi la pretesa erariale nei confronti della persona fisica titolare della legale rappresentanza di persona giuridica asserendone, senza giustificazione di fatto e di diritto, una responsabilità solidale con l'ente debitore principale dei tributi oggetto di riscossione”).

Come detto, nessuna norma è menzionata al fine di giustificare la pretesa.

È evidente, quindi, che non siamo nel campo del diritto e che l'affermazione non trova ragion d'esistere giuridicamente.

Esaminando il diritto, infatti, si palesano ben diversi principi giuridici, che la tesi erariale avrebbe l'effetto di negare.

È infatti noto che, in punto di diritto, solamente il legislatore può prevedere, con una disposizione specifica, la responsabilità solidale di un soggetto per il pagamento di imposte e sanzioni ascrivibili ad altro soggetto.

In ambito tributario, anche la nozione di responsabile d'imposta conferma tale principio, stabilendosi che la responsabilità per debiti altrui possa nascere solamente “in virtù di disposizioni di legge” (art. 64 D.p.r. 600/1973).

Ma si noti, vieppiù, quale incredibile lesione dell'art. 53 Cost. si avrebbe  altrimenti; ove si permettesse all'Erario di escutere una simile pretesa nei confronti della XXX, cui si chiede il pagamento non solo dell'IVA alla stessa riferibile, ma anche dell'imposta restituita agli altri soggetti, ed infine il pagamento di oltre 700.000,00 a titolo di sanzioni.

Si tratterebbe di una richiesta del tutto slegata dalla “capacità contributiva” manifestata dalla contribuente.

Sotto un distinto profilo, occorre esaminare gli atti privati sottoscritti tra le imprese associate; ciò, in quanto l'Ufficio tenta di far leva sugli stessi per sostenere la responsabilità solidale della XXX.

Peraltro, trattasi di un ragionamento che si scontra con i più basilari principi giuridici in tema di efficacia dei contratti nei confronti dei terzi.

Infatti, com'è noto, le previsioni contenute in un accordo tra privati non generano né potrebbero generare la nascita di diritti in capo ai terzi in assenza di espresse disposizioni di legge (cfr. art. 1372 c.c. “2. Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”).

Ed infatti quando i privati prevedono una responsabilità solidale la prevedono nei confronti di una parte contraente, non certo di un terzo.

Nella pratica degli appalti, ad esempio, le parti possono prevedere contrattualmente - e liberamente - di assumere una forma di responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, propria controparte contrattuale.

La pratica, peraltro, si è mostrata talmente diffusa che fu addirittura introdotta all'interno della vecchia disciplina sugli appalti pubblici – cfr. art. 21 della 584/1977 – ed anche questa la limitava espressamente, prevedendo che la responsabilità solidale sorgesse unicamente “nei confronti del soggetto appaltante” e non certo del Fisco o di altri soggetti).

Ma andiamo oltre.

Ad esaminare il ragionamento dell'Ufficio notiamo sin da subito la “forzatura interpretativa” degli accordi sottoscritti dalle imprese partecipanti, operata nel tentativo di giustificare una pretesa di pagamento per l'intero nei confronti XXX.

Le parti non hanno mai previsto – ne avrebbero potuto prevedere – la responsabilità solidale della XXX nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.

L'Ufficio sorvola sul tema, per richiamare nella parte finale alcuni stralci degli accordi da cui – a parere dei verificatori – si dovrebbe desumere la volontà delle parti di non attribuire autonoma rilevanza fiscale all'ATI (volontà che la XXX, a dire dell'Ufficio, non avrebbe rispettato, e da ciò la responsabilità).

Ora, innanzitutto anche se ciò fosse vero – e non lo è – non si comprende come tale circostanza possa generare una responsabilità solidale della XXX a beneficio dell'Amministrazione Finanziaria.

In secondo luogo, la circostanza semplicemente non risponde a verità.

Infatti, la volontà di tutte le parti – che la XXX ha puntualmente onorato – era opposta; infatti, le parti all'art. 1 dell'atto costitutivo (documento n. X) hanno stabilito – a chiare lettere – che “All'ATI verrà tempestivamente attribuita nuova partita i.v.a. autonoma rispetto a quella delle Parti, le quali convengono altresì che la contabilità connessa all'esecuzione del Contratto sarà tenuta in modo distinto e separato rispetto a quella della capogruppo e delle mandanti”. Previsione riproposta anche nell'art. X del regolamento A.T.I. (documento n. X)

Disposizioni di cui l'Ufficio non fa alcuna menzione e che attestano chiaramente la volontà delle parti di costituire un soggetto fiscalmente autonomo (volontà dunque senz'altro rispettata dalla XXX).

Comunque si inquadri la vicenda, risulta illegittimo l'operato dell'Ufficio che arbitrariamente attribuisce, all'interno dell'avviso di accertamento (cfr. pag. XX), la qualifica di coobbligato e di soggetto escutibile ai fini del pagamento alla XXX.

In realtà, alla luce delle disposizioni di legge, non sussiste alcun tipo di responsabilità solidale della XXX nei confronti del Fisco per il pagamento.

***

2 – NEL MERITO – SUI MOTIVI CHE CONFERMANO LA INDUBBIA SOGGETTIVITA' FISCALE DEL CONTRIBUENTE.

L'ATI, odierna ricorrente, è considerata priva di soggettività tributaria dall'Agenzia delle Entrate. All'interno del presente motivo di ricorso si dimostrerà come tale assunto sia privo di fondamento.

Innanzitutto, occorre chiedersi – in via generale – in quali casi un soggetto possa assumere soggettività fiscale.

Ai sensi degli articoli 73 e 5 del T.U.I.R. assumono soggettività tributaria gli enti di ogni tipo e specie, con o senza personalità giuridica, addirittura le associazioni non riconosciute, ed in via generale, qualsiasi altra organizzazione non appartenente ad altri soggetti passivi nei confronti della quale il presupposto d'imposta si verifichi in modo unitario ed autonomo. Nientemeno, sono considerate soggetti tributari - per espressa disposizione di legge - le mere società di fatto.

La disciplina IVA non si mostra di certo difforme.

Ed infatti l'art. 4 del D.P.R. n. 633/1973 estende gli obblighi in materia di imposta sul valore aggiunto a tutte le società e associazioni, anche non riconosciute, che effettuino cessioni di beni o prestazioni di servizi, ivi comprese espressamente le società di fatto (art. 4, comma 2, n. 1, D.P.R. n. 633/1972).

Quanto alla nozione di società di fatto, la giurisprudenza, proprio al fine di ampliare la platea di soggetti attratti dall'imposizione, fornisce una lettura estensiva di tale nozione, valorizzando - quale elemento chiave per affermare l'esistenza di essa - la “comune intenzione dei contraenti di collaborare per conseguire risultati comuni nell'esercizio collettivo di una attività imprenditoriale” (cfr. Cass. n. 4588/2010; ed è innegabile che tale elemento sia presente nel caso di specie).

D'altronde in una prima fase la stessa Agenzia, come citato a pagina Xdell'avviso, riconobbe che “Ati ha successivamente presentato la dichiarazione  Iva per il XXX ha detratto Iva su acquisti per € XXX.000,00, comportandosi come una società di fatto”, per poi prendere una posizione del tutto contraria quando il contribuente evidenziò che - difatti - le società di fatto hanno soggettività tributaria.

Inoltre, l'Agenzia riconosce (cfr. pagina XX dell'avviso) che l'ATI in questione ha addirittura un fondo comune[1], altro elemento tipicizzante delle società di fatto; ma insiste per sostenere che ciò sia irrilevante.

A ben vedere, quindi, la XXX ATI presenta tutti gli elementi per essere considerata una società di fatto, e quindi ha correttamente operato in quanto tale.

A ben leggere la giurisprudenza in materia, l'odierna contribuente appare ancor più legittimata a rivendicare una propria soggettività tributaria.

Se, infatti, per la giurisprudenza, perché sia configurabile una società di fatto non è neanche necessaria la presenza di un atto scritto (cfr. Cass. civ. Sez. V, 25-02-2010, n. 4588), a fortiori deve essere riconosciuta autonomia ad un soggetto che ha palesato in forma scritta ed ufficiale la propria soggettività, costituendo un soggetto autonomo (documento n. X) e specificamente regolamentato (documento n. X),  a cui sono stati attribuiti autonomi poteri e distinte modalità di funzionamento.

Ed ancora se per la giurisprudenza non è necessaria neanche una denominazione comune perché sia configurabile una società di fatto, a fortiori deve essere riconosciuta autonomia all'odierno contribuente che ha addirittura una propria ditta, una propria denominazione diversa e distinta da quella di ciascuno dei componenti dell'ATI, senz'altro a dimostrazione della volontà di tenere separati e distinti rapporti e soggetti.

Onde fugare qualsiasi dubbio ed eccezione si rileva, inoltre, che è pacifico in giurisprudenza che l'esistenza di una società di fatto “non è esclusa dal fatto che il fine degli associati consista nel compimento di una opera unica”(cfr. Cass. n. 4588/2010; si vedano altresì: Cass. n. 2200/2014 , Cass. n. 5836/2013).

Nientemeno, nel caso di specie, l'ATI per gestire i rapporti con i terzi ha addirittura aperto un conto dedicato ai rapporti dalla stessa intrattenuti.

Addirittura, in numerosi contenziosi l'Agenzia delle Entrate stessa si è sforzata di dimostrare che un conto cointestato su cui affluiscono i ricavi è elemento da tenere in alta considerazione per verificare la presenza di una società di fatto (trovando il consenso dei giudici: ex pluribus CTR Torino n. 57/2012).

In quei casi era funzionale sostenere tale principio per attrarre a tassazione i redditi delle società di fatto non palesatesi al Fisco.

Oggi neanche tale elemento dovrebbe rilevare ad avviso dell'Ufficio.

Oggi si vuole negare la soggettività tributaria ad una contribuente che ha voluto comportarsi nel pieno rispetto delle regole, ottenendo dall'Agenzia delle Entrate codice fiscale e partita IVA, presentando regolarmente le dichiarazioni, e versando integralmente le imposte dalle stesse risultanti (documento n. X); il tutto per imporre alla stessa un pagamento milionario, di imposte che legittimamente poteva chiedere in restituzione in considerazione dell'IVA già versata in dipendenza delle operazioni passive e di sanzioni ammontanti a quasi tre volte l'imposta.

Alla luce dei principi sopra menzionati, non si vede come si possa negare nel caso di specie la presenza di tutti gli elementi di una società di fatto e quindi la piena soggettività tributaria del contribuente.

Vi sono tutti gli elementi della società di fatto.

Ve ne sono persino di ulteriori, tutti attestanti la piena soggettività fiscal-tributaria dell'ente medesimo.

Non solo, infatti, è senza alcun dubbio presente la “comune intenzione dei contraenti di collaborare per conseguire risultati comuni nell'esercizio collettivo di una attività imprenditoriale”.

Addirittura, nell'ipotesi de qua, il contribuente si è sempre palesato di fronte ai terzi con un'autonoma denominazione, con un'autonoma partita IVA, ed ha finanche aperto un conto cointestato e dedicato.

Ed ancora, è un soggetto autonomamente costituito, che è stato specificamente regolamentato, a cui sono stati attribuiti autonomi poteri e specifiche modalità di funzionamento.

Per di più lo stesso ha un proprio ben distinto oggetto sociale.

Quindi, a ben vedere equità e diritto impongono entrambi la medesima soluzione: al contribuente deve essere riconosciuta soggettività tributaria in quanto società di fatto.

In definitiva, alla luce delle previsioni della legge statale, così come interpretate dalla giurisprudenza, il contribuente possiede tutti i requisiti per essere considerato una società di fatto e quindi ha correttamente operato come tale.

***

Anche volendo esaminare le previsioni di rango secondario – la prassi in materia – a ben vedere il contribuente si atteggia quale soggetto fiscalmente distinto anche alla luce di queste.

Prima di procedere oltre, occorre tuttavia effettuare un preliminare riferimento alla sentenza della Cassazione citata dall'Ufficio all'interno dell'avviso.

La sentenza tratta di appalti pubblici e rimborsi conseguiti nel 1989 in virtù della previgente normativa sugli appalti pubblici. Si tratta di fattispecie completamente diversa, citata a sproposito.

Infatti, non solo non è rivendicabile in un caso così differente come quello oggi in esame, ma volendo accogliere l'interpretazione fattane dall'Ufficio si dovrebbe giungere all'inammissibile conclusione che a qualsiasi ATI dovrebbe negarsi rilevanza fiscale anche se siano ampiamente presenti tutti i requisiti necessari per la configurabilità di una società di fatto, così come se siano presenti i requisiti indicati dalla prassi per verificarne l'autonoma soggettività tributaria.

È evidente che una simile interpretazione non potrebbe essere ammessa.
Ed infatti né il contribuente né l'Ufficio[2] sostengono tale tesi.

D'altronde, diversamente opinando, dovrebbe essere erronea tutta la prassi (cfr. R.M. 13.08.1982 n. 2147, R.M. 30.03.1979 n. 571, R.M. 17.11.1983 n. 782, R.M. 28.06.1988 n. 550231, R.M. 16.05.1989 n. 559763, R.M. 24.09.1991 n. 5000161, R.M. 09.06.1992 n. 530742) che invece ammette la possibilità per le ATI di assumere autonoma soggettività tributaria.

La prassi citata indica due presupposti alternativi alla presenza dei quali le ATI assumono sicuramente – senza bisogno di ulteriori analisi sul concetto di società di fatto – soggettività fiscale.

Sin da ora si evidenzia che – diversamente da quanto opinato dall'Ufficio –entrambi i presupposti sono presenti nella fattispecie de qua.

Innanzitutto, numerosi documenti di prassi (cfr. R.M. 13.08.1982 n. 2147, R.M. 30.03.1979 n. 571, R.M. 17.11.1983 n. 782) affermano che l'ATI assume autonoma soggettività fiscale quando oggetto dell'appalto sia un'opera unitaria ed indivisibile, ossia non frazionabile in parti fisicamente distinte.

Ora, sembrerebbe difficilmente sostenibile che l'appalto privato indetto da XXX avente ad oggetto la fornitura e l'installazione di insegne luminose presso i distributori di carburanti XXX sia un'opera divisibile.

Eppure l'Ufficio ne afferma la divisibilità (cfr. pag. X dell'avviso, in cui si asserisce che “Oggetto dell'appalto” sarebbe “un'opera divisibile, ossia frazionabile in parti fisicamente distinte; per tale motivo ATI non risulta un autonomo soggetto passivo d'imposta”).

In realtà non vi è alcuna divisibilità.

Si esamini la fattispecie.

L'ATI è composta dalle seguenti società:

- la XXX che si occupa di fabbricazione di insegne elettriche e segnalatori elettrici,

- la XXX che si occupa di trattamento e smaltimento di rifiuti pericolosi, e

- la XXX che si occupa di fabbricazione di strutture metalliche ed altre attività di costruzione e opere di ingegneria civile.

Ora, appare difficile comprendere come, secondo l'assunto dell'Ufficio, le tre società avrebbero potuto realizzare la fornitura e l'installazione di insegne luminose presso i distributori di carburanti XXX se non operando in perfetta simbiosi.

Nel caso di specie l'opera richiesta imponeva un'attività che non è la mera sommatoria delle prestazioni delle tre società, ma un lavoro unico, realizzato a più mani, dalle tre società insieme, che esige la contemporanea presenza delle capacità tecniche e dell'apporto di beni e servizi delle tre società congiuntamente (nessuna avrebbe saputo come realizzare autonomamente l'opera se non grazie alle competenze delle altre imprese, confluite in ATI).

L'appalto non riguardava certamente, infatti, la fornitura di tre tipi di beni o di servizi, ciascuna delle quali eseguibile da una delle società coinvolte.

Nel caso di specie l'appalto aveva chiaramente ad oggetto un'opera complessa (id est la fornitura e l'installazione di insegne luminose presso i distributori di carburanti XXX) che non poteva che essere realizzata con l'apporto contemporaneo di tutti i soggetti coinvolti.

L'ATI in questione ha quindi rappresentato un centro imprenditoriale autonomo ed indipendente rispetto alle imprese che l'avevano costituito. D'altronde, atteso l'oggetto dell'appalto, nessuna utilità avrebbero avuto per XXX le singole tipologie di forniture eseguibili in via autonoma da ciascuna delle imprese associate.

In altre parole, oggetto dell'appalto (ristrutturazione, sia fisica sia di immagine, delle stazioni di servizio a marchio XXX) non era affatto – come sostiene l'Ufficio – un'opera “divisibile” ossia “frazionabile in parti fisicamente distinte”, quanto piuttosto un'opera complessa ed unitaria, alla realizzazione della quale concorsero necessariamente le diverse capacità tecniche dei singoli associati (progettazione e produzione di opere di carpenteria meccanica e di ingegneria civile, servizi di trattamento di rifiuti speciali, progettazione e produzione di insegne luminose).

Dunque, il primo dei presupposti alternativi che dimostra la piena soggettività tributaria dell'ATI è presente.

***

Inoltre, la prassi (cfr. R.M. 28.06. 1988 n. 550231, R.M.  550763 del 16.05.1989; R.M. 500161 24.09.1991, R.M. 530742 del 09.06.1992) riconosce alle ATI un'autonoma soggettività tributaria, altresì, ogniqualvolta le imprese raggruppate si siano comportate, nell'esecuzione dell'appalto, in modo unitario ed indistinto sia all'intero del raggruppamento stesso che nei confronti dei terzi.

Sotto tale profilo, sembra ancor più incomprensibile la tesi dell'Ufficio che vorrebbe sostenere che le imprese si siano palesate nei confronti dei terzi come soggetti separati e non come gruppo; e che – sotto il profilo interno – non volessero costituire un soggetto unitario.

D'altronde parliamo di un ATI che ha assunto una denominazione distinta e diversa da quella di ciascuna delle imprese partecipanti, che è stata regolamentata quale soggetto autonomo, che si è palesata nei confronti della stazione appaltante come soggetto autonomo (documento n. X), con un proprio conto (cfr. documento n. X, art. X), una propria contabilità ed una propria partita IVA, che le parti – e quindi all'interno del raggruppamento interno – hanno espressamente e con disposizione ad hoc deciso di aprire (disposizione nuovamente ribadita in sede di regolamento, documento n. X).

Discorriamo di un soggetto che, all'interno è regolamentato e - per unanime volontà - concepito come soggetto distinto, ed all'esterno - e verso XXX - ha sempre operato come soggetto distinto da ogni punto di vista (documento n. X).

La volontà di operare in modo unitario e distinto nei confronti dei terzi è evidente dall'esposizione che precede (trattasi di un soggetto con una propria contabilità, un proprio conto dedicato, una propria denominazione, un distinto canale di comunicazioni e di contrattazione, un distinto oggetto sociale, e via discorrendo... tutti elementi che riprovano come la stessa si mostrasse quale autonomo soggetto nei confronti dei terzi).

Sotto il profilo interno del raggruppamento, l'Ufficio sostiene che le parti non intendevano concepire un soggetto giuridico e fiscale separato, e ciò – ad avviso dei verificatori – dovrebbe essere dimostrato da una disposizione generica dell'atto costitutivo secondo la quale l'ATI non sarebbe un autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche, disposizione più e più volte citata dall'Agenzia. Disposizione che può trarre in inganno solamente ove, come fatto dall'Ufficio, estrapolata dal suo contesto di riferimento.

Ad avviso dei Verificatori la disposizione sarebbe determinante per provare la volontà delle parti di non costituire un soggetto fiscalmente autonomo.

Occorre chiedersi se effettivamente la lettura dell'atto costitutivo porti ad una simile conclusione.

A ben vedere, l'accordo detta infatti anche altre disposizioni, di cui l'Ufficio - caso vuole - non fa alcuna menzione.

Addirittura vi è una previsione espressa ed inequivocabile sul punto, che dimostra quale fosse – realmente – la volontà delle parti contrattuali.

Il primo articolo dell'accordo dispone infatti a chiare lettere che “All'ATI verrà tempestivamente attribuita nuova partita i.v.a. autonoma rispetto a quella delle Parti, le quali convengono altresì che la contabilità connessa all'esecuzione del Contratto sarà tenuta in modo distinto e separato rispetto a quella della capogruppo e delle mandanti” (documento n. X). Disposizione confermata anche dal regolamento interno (documento n. X).

L'intenzione delle parti era dunque chiaramente quella di dotare l'ATI di autonoma soggettività fiscale.

Questa è la previsione rilevante sul punto, che l'Ufficio “dimentica” di menzionare o considerare.

Disposizione che prova inequivocabilmente la volontà delle parti di costituire un soggetto IVA autonomo, e di comportarsi all'interno dell'appalto in maniera unitaria ed indistinta.

Sulla base di quanto detto, anche tale alternativo presupposto, valorizzato dalla prassi amministrativa citata, risulta presente; e quindi anche per tale motivo all'ATI in questione deve essere riconosciuta piena soggettività tributaria.

In definitiva, comunque si inquadri la vicenda, sotto qualsiasi profilo la si esamini, emerge la chiara nullità dell'avviso di accertamento in questa sede impugnato.

***

3 - NULLITA' DELL'AVVISO DI ACCERTAMENTO ALLA LUCE DELLA STESSA TESI DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE – VIZI MOTIVAZIONALI DETERMINANTI.

Come già menzionato nella parte in fatto del presente ricorso, la motivazione dell'atto impositivo, in quanto del tutto contraddittoria, imporrebbe una dichiarazione di nullità dello stesso.

Infatti, a ben leggere la motivazione dell'avviso di accertamento:

- da un lato i Verificatori affermano che l'ATI non esisterebbe dal punto di vista fiscale, e ciò porterebbe, a loro avviso, al disconoscimento – soggettivo – del diritto al rimborso, nonché ad una serie concatenata di conseguenze sanzionatorie (come menzionato, le sanzioni applicate ammontano ad oltre 700.000,00 euro a fronte di un'imposta di euro 274.769,00);

- tuttavia, dall'altro lato, gli stessi Verificatori attribuiscono autonoma rilevanza tributaria all'ATI ai fini del controllo fiscale, ai fini della notifica dell'accertamento, ai fini della quantificazione unitaria della pretesa impositiva, ai fini della determinazione di sanzioni in conseguenza di presunte violazioni alla stessa ascritte, ed ai fini dell'intimazione di pagamento.

Il tutto prospettando un'illegittima – per come visto – estensione dell'intimazione di pagamento nei confronti di una delle partecipanti all'ATI.

Ora, non si vede come la motivazione dell'avviso potrebbe essere più contraddittoria ed incapace di fornire al contribuente una giustificazione logica a supporto della pretesa di esborso.

Contribuente che – a ragione – non comprende come sia possibile un simile passaggio logico.

Se l'Ufficio pretende di giustificare le sue pretese negando rilevanza fiscale all'ATI, avrebbe dovuto, semmai, effettuare la verifica nei confronti delle singole imprese, unici soggetti fiscali secondo il ragionamento erariale.

Non può, invece, in ragione di una simile asserzione, rettificare le dichiarazioni del contribuente ATI, che sulla base dello stesso ragionamento erariale non potrebbe assumere la veste di autonomo contribuente, destinatario di verifica ovvero di avvisi di accertamento.

Le conseguenze di una simile contraddittorietà sono state ben esaminate dalla giurisprudenza, che ha sempre ribadito la nullità di avvisi che fanno propri ragionamenti incoerenti e contraddittori (ex multis Cass. n. 8136/2012).

Fermi restando i vizi motivazionali di cui si è detto, deve essere rilevato anche un secondo profilo di nullità dell'avviso.

Infatti, se si volesse escludere la soggettività tributaria dell'ATI, allora dovrebbe per l'effetto affermarsi la nullità e l'inesistenza dell'avviso di accertamento stesso, in quanto emesso e notificato nei confronti di soggetto inesistente (principio affermato dalla giurisprudenza sin da tempi risalenti, si veda già quanto statuito da CTC n. 4930/1980, ed usualmente applicato in materia societaria).

Anche per tali motivi l'avviso di cui discutiamo si mostra radicalmente viziato e meritevole di annullamento.

4 – LA NULLITA' DELLA PARTE SANZIONATORIA DELL'AVVISO DI ACCERTAMENTO.

Come visto, l'odierno contribuente XXX ATI aveva pieno diritto di domandare ed ottenere il rimborso dell'IVA a credito.

Si ritiene comunque necessario soffermarsi separatamente sulle inique conseguenze sanzionatorie ipotizzate dall'Ufficio, il cui annullamento è giustificato non solo per effetto del riconoscimento in capo al contribuente della soggettività tributaria, ma - altresì - per un diverso ordine di ragioni.

Infatti, nell'ipotizzare un simile quadro sanzionatorio, sono stati violentemente lesi dai Verificatori principi cardine del sistema sanzionatorio delineato dal Legislatore italiano e comunitario.

Ripercorriamo, brevemente, la vicenda.

L'ATI XXX ottenne dall'Agenzia delle Entrate il codice fiscale, ottenne dall'Agenzia delle Entrate la partita IVA, presentò le dichiarazioni, corrispose tutte le imposte dalle stesse risultanti, versò integralmente l'imposta sul valore aggiunto, da ultimo evidenziando un credito esattamente dipendente dall'IVA già pagata in dipendenza delle operazioni passive.

Mai una volta l'Ufficio avanzò, fino ad ora, alcun tipo di contestazione[3] in ordine all'impossibilità per la stessa di comportarsi quale unico centro di imputazione tributaria, ai fini di instaurare rapporti con il fisco, nonostante allo stesso chiaramente risultasse che era un ATI il soggetto passivo che richiese ed ottenne codice fiscale e partita IVA, che presentò nel tempo le dichiarazioni, che versò le imposte.

Peraltro, il comportamento dell'ATI era ben confortato non solo dalla disciplina generale che impone gli obblighi IVA anche in capo alle società di fatto, ma altresì da numerosi documenti di prassi (cfr. R.M. 13.08.1982 n. 2147, R.M. 30.03.1979 n. 571, R.M. 17.11.1983 n. 782, R.M. 28.06.1988 n. 550231, R.M. 16.05.1989 n. 559763, R.M. 24.09.1991 n. 5000161, R.M. 09.06.1992 n. 530742) che ritengono possibile per un ATI operare quale soggetto tributario – fiscalmente distinto – nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.

Inoltre, mai una volta l'ATI dimostrò alcun intento evasivo od elusivo, corrispondendo all'Erario né più né meno di quanto dovuto.

Eppure oggi l'Ufficio demanda il pagamento non solo di circa 270.000,00 euro a titolo di imposta sul valore aggiunto; IVA che, anche volendo negare soggettività all'ATI (che invece per come visto ne è pienamente in possesso), sarebbe dovuta essere restituita – se non all'ATI – alle singole imprese partecipanti (alle quali è stata riaccreditata integralmente dall'ATI).

Oggi infatti l'Agenzia demanda oltre 700.000,00 euro a titolo di sanzioni ed interessi. Cifra addirittura superiore all'intero utile conseguito da tutte le imprese partecipanti sommate in conseguenza dell'operazione medesima.

Il tutto per una rivendicazione di esborso complessiva di circa un milione di euro.

Richiesta che l'Ufficio pretenderebbe addirittura di azionare integralmente nei confronti della XXX determinando probabilmente la “morte” di tale impresa, sulla base di un'asserita responsabilità solidale nei confronti del Fisco della stessa in qualità di capogruppo, responsabilità che non è prevista da nessuna disposizione di legge (non a caso l'Ufficio sul punto tenta di far leva su stralci estrapolati dai contratti interni sottoscritti dalle società contraenti senza richiamare nessuna norma di legge che la preveda, accordi privati che, oltre ad avere un oggetto del tutto diverso, non possono certamente far nascere alcun diritto in capo all'Amministrazione Finanziaria, soggetto terzo).

Sin dall'esposizione che precede emergono lampanti profili di illegittimità della parte sanzionatoria dell'avviso di accertamento, che come vedremo stride con l'intero corpus sanzionatorio di cui ai D.lgs. n. 471, 472 e 473 in materia, con principi immanenti l'ordinamento italiano e comunitario, e con diverse disposizioni specifiche.

Nel caso di specie, infatti:

- non solo non è rispettato il principio di proporzionalità tra violazione e sanzione (che è imposto anche dalla normativa europea, e nel caso di specie si tratta proprio dell'imposta c.d. “comunitaria” per eccellenza: l'IVA), principio riconosciuto da copiosa giurisprudenza del massimo organo giurisdizionale comunitario (ex pluribus vedasi Corte di Giustizia Europea, sez. II, 19 luglio 2012, n. 263; Corte di giustizia 2 febbraio 1977, C-50-76; Corte di giustizia  26 ottobre 1981, C-240/81; Corte di giustizia 12 luglio 2001, C-262/99);

- non solo la misura sanzionatoria prescelta si mostra del tutto eccessiva rispetto agli interessi erariali in pericolo (infatti, l'Erario avrebbe comunque dovuto restituire l'IVA a credito, se non all'ATI, alle singole società, quindi non vi è stata alcuna lesione di tali interessi);

- non solo non è rinvenibile alcun tipo di atteggiamento doloso o colposo dell'ATI, presupposto indispensabile per l'irrogazione di sanzioni ai sensi dell'art. 5 del D.lgs. n. 472/1997 (il quale pone come elemento irrinunciabile per la punibilità delle violazioni tributarie il carattere doloso o colposo della violazione);

ma è addirittura stata la stessa Amministrazione Finanziaria con proprie azioni ed omissioni (essa ha infatti attribuito alla contribuente codice fiscale e partita IVA, ne ha ricevuto dichiarazioni e pagamenti d'imposta, senza ipotizzare dubbio alcuno sulla soggettività tributaria della stessa) ad ingenerare nell'ATI la correttezza della tesi che la vede soggetto fiscalmente autonomo, rendendo dunque - a maggior ragione - incolpevole il comportamento di quest'ultima.

Ciò in concreto.

In astratto, addirittura vi sono numerosi documenti di prassi (cfr. R.M. 13.08.1982 n. 2147, R.M. 30.03.1979 n. 571, R.M. 17.11.1983 n. 782, R.M. 28.06.1988 n. 550231, R.M. 16.05.1989 n. 559763, R.M. 24.09.1991 n. 5000161, R.M. 09.06.1992 n. 530742) che ammettono la possibilità per l'ATI di assumere una propria distinta soggettività tributaria.

Quindi, anche solo in considerazione di tale ultima circostanza, le sanzioni di cui trattasi non sarebbero applicabili in virtù del noto principio, che permea in ambito tributario l'intero sistema sanzionatorio, secondo il quale non può essere richiesto il pagamento di alcun importo a titolo di sanzione se il comportamento del contribuente è stato determinato dall'incertezza normativa sussistente in ordine al comportamento fiscalmente corretto da tenere.

Tale principio d'altronde è riconosciuto e confermato da numerose disposizioni di legge:

1) l'articolo 8, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che “La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”;

2) l'articolo 6, secondo comma, D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, testo di legge che detta la cornice dell'impianto sanzionatorio tributario, stabilisce che “Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono ...”;

3) l’articolo 10, comma terzo, L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), in via generale dispone che “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria ...”.

Dunque, non solo l'irrogazione delle sanzioni, nel caso di specie più che in altri, si mostra largamente iniqua ed ingiusta, ma la stessa collide manifestamente con i principi e le disposizioni che delineano il quadro sanzionatorio previsto dal legislatore italiano e comunitario.

In definitiva, ferma restando l'infondatezza ed illegittimità totale dell'avviso per come già dimostrato nei precedenti motivi di ricorso, in cui si è provato come l'ATI di cui trattasi ben presenta tutte le caratteristiche necessarie perché alla stessa venga riconosciuta soggettività tributaria, in ogni caso, e per distinte ragioni, la parte sanzionatoria dell'avviso merita comunque una pronuncia di annullamento”.

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[1] Elemento che secondo parte della giurisprudenza - Cass.  n. 1127/2006 - non sarebbe neanche necessario, essendo sufficiente la mera esteriorizzazione del rapporto associativo nei confronti dei terzi, che sinceramente nel caso di specie è incontestabile dato che i rapporti commerciali con la stazione appaltante vedevano sempre come controparte l'ATI (documento n. X).

[2] D'altronde, lo stesso Ufficio ben ammette che vi siano casi in all'associazione temporanea di imprese può essere riconosciuta autonomia tributaria. Altrimenti, risulterebbe addirittura colposa la condotta erariale che, nonostante fosse ben chiaro che il soggetto richiedente codice fiscale e partita IVA, che ha presentato le dichiarazioni e che ha versato l'imposta sul valore aggiunto era un ATI, nulla ha contestato.

[3] Inerzia di cui vorrebbe oggi giovarsi pretendendo un pagamento complessivo di circa un milione di euro e chiedendo la restituzione di oltre 270.000,00 euro di IVA, che avrebbe comunque dovuto riconoscere alle società partecipanti, perché le stesse hanno già corrisposto tale imposta in dipendenza delle operazioni passive ed avevano quindi pieno titolo di percepire l'eccedenza versata.

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