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È onere dell'Agenzia delle Entrate offrire la prova dell'asserita falsità delle fatture (e dell'inesistenza del costo dedotto). Confermato l’annullamento dell’avviso di accertamento.

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Estratto: “in tema di operazioni ritenute (come nella specie) in tutto o in parte oggettivamente inesistenti - in relazione alle quali la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno - l'Agenzia ha l'onere di fornire elementi probatori, seppur in forma meramente indiziaria o presuntiva (omissis - richiami giurisprudenziali), del fatto che l'operazione fatturata non è stata mai effettuata (o lo è stata solo parzialmente); solo qualora detto onere sia stato adempiuto, spetta al contribuente quello - susseguente - di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 13997 del 23 maggio 2019

RILEVATO CHE:

- L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, depositata il 14 dicembre 2010, di accoglimento dell'appello proposto dalla contribuente, con conseguente annullamento dell'avviso di accertamento n. XXX, con cui era stato rideterminato per l'anno 2004 il reddito della ditta individuale F., esercente l'attività di "organizzazione convegni", quindi recuperate a tassazione le imposte IRPEF, IRAP e IVA non versate;

- Con il predetto avviso erano state, invero, contestate ed accertate come inesistenti le operazioni fatturate nei confronti della contribuente dalla ditta D.; secondo l'Ufficio accertatore quest'ultima non aveva mai effettuato le prestazioni pubblicitarie fatte figurare nei documenti giustificativi ricevuti da F. Il ricorso è affidato a due motivi; F. ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO CHE:

- Con il primo motivo di ricorso, l'Agenzia lamenta ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 19, 21, comma 7, e 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente affermato che "in caso di contestazione di operazioni inesistenti dimostrate da fatture spetta all'Amministrazione Finanziaria fornire la prova dell'inesistenza delle relative operazioni";

- Con il secondo motivo di ricorso, l'Agenzia lamenta ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso, per avere, la Commissione tributaria regionale, ritenuto l'atto di accertamento illegittimo "con una motivazione insufficiente", limitandosi ad "affermazioni apodittiche", senza una "precisa e puntuale valutazione critica degli elementi posti alla base dell'avviso di accertamento e delle giustificazioni fornite nelle controdeduzioni in appello";

1. Il primo motivo è infondato ed esige il rigetto; 2. Questa Corte di cassazione ha da tempo espresso l'orientamento secondo cui, in tema di operazioni ritenute (come nella specie) in tutto o in parte oggettivamente inesistenti - in relazione alle quali la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno - l'Agenzia ha l'onere di fornire elementi probatori, seppur in forma meramente indiziaria o presuntiva (vd. Cass. Sez. 5 del 09/09/2016 n. 17818 ; n. 21953 del 2007, n. 9784 del 2010, n. 9108 del 2012, n. 15741 del 2012, n. 23560 del 2012, n. 27718 del 2013, n. 20059 del 2014, n. 26486 del 2014, n. 9363 del 2015; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006 C-439/04; 21 febbraio 2006 C- 255/02; 21 giugno 2012 C-80/11; 6 dicembre 2012 C-285/11; 31 novembre 2013, C- 642/11), del fatto che l'operazione fatturata non è stata mai effettuata (o lo è stata solo parzialmente); solo qualora detto onere sia stato adempiuto, spetta al contribuente quello - susseguente - di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass. n. 5406 del 2016; Cass. n. 28683 del 2015, Cass. n. 428 del 2015, Cass. n. 12802 del 2011, Cass. n. 15228 del 2001).

3. Risulta, d'altro canto, altresì reiteratamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 21980 del 2015, n. 21446 del 2014, n. 24426 del 2013, n. 9108 del 2012, n. 5748 del 2010) che, sia in tema di imposizione diretta sia in tema di Iva, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell'impresa, ove redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti dall'art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (v.,anche, art. 226 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006).

4. A tali criteri la decisione impugnata si è evidentemente attenuta, avendo argomentato in merito alla insufficienza delle circostanze addotte dall'Agenzia a sostegno della denunziata insussistenza delle operazioni fatturate;

5. Le altre questioni che nel motivo in esame si agitano, circa il carattere di precisione e concordanza della prova presuntiva offerta dall'Ufficio, attengono al merito e sono state inammissibilmente censurate in ragione dell'art. 360, comma 1, n. 3, alla stregua di violazioni di legge.

6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile; 7. L'articolazione della censura non coglie la "ratto decidendi" della sentenza d'appello, nella quale la Commissione tributaria regionale non fa questione in merito della carenza di prova dell'oggettiva inesistenza delle operazioni, né su detto profilo incentra l'iter argomentativo della decisione; per converso, il giudice del gravame di merito si limita a constatare ed affermare che l'avviso di accertamento non è provvisto di motivazione, in quanto nel suo contesto si fa riferimento a documenti il cui "contenuto non è noto", in "violazione del generale obbligo di motivazione";

8. È in ragione di tale premessa che la Commissione anzidetta conclude nel senso che l'atto difetti di motivazione" e ciò "sia in senso generale" e sia perché manca la prova idonea a sorreggerlo; 9. La sentenza d'appello, laddove ha ritenuto il difetto di motivazione dell'avviso di accertamento, non è stata censurata, proprio in quanto, a monte, di essa non è stata colta l'illustrata "ratio decidendi", il che postula l'inammissibilità del motivo in esame; 10. Il ricorso va, in definitiva, rigettato; le spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo, sono regolate dalla soccombenza;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna l'Agenzia delle Entrate a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in euro 5.600,00, oltre alle spese forfettarie al 15% ed agli accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 4 ottobre 2018.

 

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