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L’Agenzia presumeva (senza prove certe) 110.000 euro di ricavi in più in quanto i soci lavoravano nel supermercato senza esser dipendenti. In realtà, non era lavoro irregolare (non vi era obbligo di assumerli come dipendenti). Avviso annullato.

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Estratto: “venuta meno la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, non si può procedere all'accertamento induttivo dei maggiori ricavi, per l'asserito svolgimento di lavoro irregolare all'interno dell'azienda. Nè si può contestate l'omesso versamento delle ritenute, in assenza di rapporto di lavoro subordinato”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 10909 del 18 aprile 2019

RILEVATO CHE:

1. L'Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della Supermercato I. s.a.s, per l'anno 2003, ritenendo che i due soci accomandatari, ID e IV, avessero svolto attività lavorativa irregolare, sicchè, avendo gli stessi percepito la somma di € 36.600,00 (rispettivamente € 18.000,00 ed € 18.600), si presumevano ricavi non dichiarati per € 109.800,00 (€ 36.600 X 3), in quanto i costi per il personale incidevano per 1/3 sui corrispettivi incassati, con un reddito netto di impresa di € 109.004,00, pari alla somma tra il reddito dichiarato (€ 35.084,00), i maggiori corrispettivi per € 109.800,00, sottratti i costi certi sostenuti per € 36.600,00. Venivano accertate, quindi, maggiori Irap, Iva ed Irpef, quest'ultima relativa alle ritenute non versate.

2. Nel ricorso la società evidenziava che i due soci accomandatari avevano prestato la loro opera nell'interesse della società e che le somme da essi percepite rappresentavano normali prelievi di utili regolarmente dichiarati e tassati, ai sensi dell'art. 5 d.p.r. 917/1986, con imputazione ai soci della quota parte del reddito della società, a prescindere dai prelievi operati.

3. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza riformata dalla Commissione tributaria regionale, la quale riteneva che si era instaurato tra la società ed i soci un rapporto di "dipendenza funzionale", sicchè i soci avevano prestato la loro attività lavorativa secondo le direttive della società. Inoltre, "trattandosi di soci accomandatari", quindi con qualifica di amministratori, sarebbe stato possibile configurare un rapporto di lavoro dipendente instaurato con la società. Peraltro, le somme corrisposte a qualsiasi titolo dalle aziende agli amministratori erano assimilate ai redditi di lavoro dipendente ai sensi dell'art. 50, comma 1, lettera c-bis, d.p.r. 917/1986.

4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società. 5. L'Agenzia delle entrate non ha svolto attività difensiva.

CONSIDERATO CHE:

1.Con un unico motivo di impugnazione la società deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 39, comma 1, lettere C) e D) del d.p.r. 600/1973, nonché dell'art. 54, comma 5, del d.p.r. 633/1972, dell'art. 5, degli artt. 49 e 50 d.p.r. 917/1986 e degli artt. 23, 25, 26, 37 e 40 del d.p.r. 600/1973, con riferimento all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.", in quanto la questione in ordine alla tassazione delle somme ai sensi dell'art. 50 d.p.r. 917/1986 era stata sollevata per la prima volta dalla Agenzia solo in sede di appello. Inoltre, ai sensi dell'art. 5 d.p.r. 917/1986, anche se il socio non effettua prelievi, è comunque tenuto a riportare in dichiarazione la sua quota parte di utili dichiarati dalla società. Allo stesso modo se il socio preleva una somma superiore a quella corrispondente alla parte di utili (utili accantonati relativi ad esercizi precedenti), è comunque tenuto a riportare in dichiarazione la parte di utili, dichiarati dalla società, proporzionale alla sua quota di partecipazione. Gli artt. 2263 e 2295 n. 7 c.c. prevedono, poi, la condizione di "socio d'opera". La carica di socio accomandatario non può cumularsi con quella di lavoratore subordinato, non potendo riunirsi in un unico soggetto la qualità di esecutore della volontà sociale e quella di organi competenti ad esprimere tale volontà.

1.1.Tale motivo è fondato. 1.2.Anzitutto, si evidenzia che in grado di appello l'Agenzia delle entrate ha dedotto, per la prima volta, che le somme corrisposte ai due soci accomandatari erano assimilate ai redditi da lavoro dipendente ai sensi dell'art. 50 comma 1 lettera c-bis del d.p.r. 917/1986.

Tuttavia, non costituisce questione nuova la prospettazione in appello, di una qualificazione giuridica del rapporto oggetto del giudizio parzialmente diversa da quella effettuata inizialmente, ove basata sui medesimi fatti (Cass., 7743/2017; Cass., 4384/2016).

1.3. Quanto al merito, poiché è pacifico che i due soci erano accomandatari (cfr. motivazione sentenza della Commissione regionale "trattandosi di soci accomandatari") , trova applicazione il principio giurisprudenziale per cui, nelle società a base personale (nella specie società in accomandita semplice), la carica di amministratore unico è incompatibile con la posizione di lavoratore subordinato della stessa, in quanto non possono in un unico soggetto riunirsi la qualità di esecutore subordinato della volontà sociale e quella di organo competente ad esprimere tale volontà (Cass., sez. L., 22 marzo 2013, n. 7321). Infatti, la costituzione e l'esecuzione del rapporto lavorativo subordinato devono essere collegabili ad una volontà della società distinta da quella dell'amministratore (Cass., 15 settembre 1979, n. 4779; Cass., 17 maggio 1975, n. 1940). Si è anche aggiunto che, instaurandosi il rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell'amministratore della società, nel caso di amministratore unico verrebbe a mancare l'elemento dell'intersoggettività, senza il quale è inconcepibile la stessa esistenza di tale rapporto giuridico. Ciò vale a maggior ragione per le società di persone, nelle quali la mancata istituzione di un distinto ente giuridico e la minore spersonalizzazione dei soggetti preposti agli organi sociali fanno apparire ancor più necessaria la distinzione tra i soggetti dei relativi rapporti giuridici (Cass., 3 novembre 1977, n. 4690). Va, peraltro, considerato che nelle società di persone è possibile che il socio conferisca la propria opera ai sensi dell'art. 2263 comma 2 c.c.. Si è sul punto affermato da questa Corte che nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci purché ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità, sicché anche quando esse ricorrano è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni (Cass., 16 novembre 2010, n. 23129). Dl resto, l'art. 5 d.p.r. 917/1986 prevede che, per il principio della "trasparenza" , " i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice.. .sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili". Tale norma, dunque, prescinde in modo espresso dalla effettiva percezione degli utili da parte del socio, ponendo una "presunzione legale di percezione degli utili". Ciò quale conseguenza logica del principio di "immedesimazione" esistente tra società a base personale e singoli soci, tanto che, rispetto all'Agenzia delle entrate, le società di persone si pongono come uno schermo, dietro il quale operano i soci, che hanno poteri di direzione, di gestione e di controllo, anche quando non ne sono amministratori (Cass., Sez.Un., 8 gennaio 1993, n. 125). Il presupposto di imposta, in questo caso, è costituito dal reddito della società, ma la relativa obbligazione tributaria cade su ciascun socio, che è tenuto al pagamento dell'imposta, non perchè ha percepito la somma di sua spettanza, ma per il suo status di socio, in quanto beneficia dell'incremento di ricchezza della società. Una volta, venuta meno la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, non si può procedere all'accertamento induttivo dei maggiori ricavi, per l'asserito svolgimento di lavoro irregolare all'interno dell'azienda. Nè si può contestate l'omesso versamento delle ritenute, in assenza di rapporto di lavoro subordinato.

2. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata ma, non essendo necessari, ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., con l'accoglimento del ricorso originario della contribuente.

3. Le spese dei giudizi dei gradi di merito vanno compensate interamente tra le parti, per la peculiarità della controversia. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della Agenzia delle entrate, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente. Compensa interamente tra le parti le spese dei giudizi dei gradi di merito. Condanna l'Agenzia delle entrate a rimborsare alla contribuente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 2.300,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura forfettaria del 15 °/0, ed accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 26 marzo 2019

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