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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 10696 del 17 aprile 2019
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 272/07/17 del 31/01/2017 la CTR Lombardia accoglieva l'appello proposto dalla C. s.r.l., poi sostituita nel corso del giudizio dalla curatela fallimentare in ragione dell'intervenuto fallimento (hinc solo C.), avverso la sentenza n. 189/03/15 della CTP di Como, che aveva respinto il ricorso della società contribuente avverso l'avviso di liquidazione n. XXX, con il quale era stato rettificata la dichiarazione doganale presentata dalla società contribuente e contestato alla stessa il mancato pagamento di dazi, IVA e interessi moratori;
1.1. Come si evince dalla sentenza impugnata: a) la vicenda trae origine dalla mancata inclusione, nel valore delle merci importate attraverso il rappresentante diretto M., dei diritti di licenza o royalties pagate dalla C. alle licenzianti di noti marchi registrati; b) la CTP, per la parte che interessa il presente giudizio, respingeva il ricorso della C.; c) avverso la sentenza della CTP la società contribuente interponeva appello e l'Agenzia delle dogane e dei monopoli proponeva appello incidentale;
1.2. La CTR, previa ricostruzione del dato normativo, accoglieva l'appello principale e rigettava quello incidentale evidenziando che: a) ai sensi dell'art. 157, § 2, del regolamento (CEE) n. 2454/93 del 2 luglio 1993 (DAC), che fissa le condizioni di attuazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12 ottobre 1992 (Codice doganale comunitario - CDC), «l'aggiunta al prezzo effettivamente pagato o da pagare dell'importo relativo al corrispettivo e diritto di licenza deve avvenire solo se il pagamento stesso si riferisce alle merci oggetto di valutazione e costituisce una condizione di vendita delle merci in questione»; b) dall'analisi dei contratti tra licenzianti e licenziataria l'unico controllo che il licenziante effettuava nei confronti dei venditori era un controllo di qualità e di rispetto di determinate condizioni di lavoro, mentre i licenzianti non imponevano i produttori terzi alla licenziataria, né ne indirizzavano la scelta, restando la licenziataria libera di scegliere il produttore; c) per il produttore il pagamento delle royalties alla licenziante non aveva alcuna importanza, in quanto tale elemento non intersecava il rapporto di produzione e pagamento della merce da lui prodotta; d) le royalties venivano pagate dalla licenziataria alla licenziante sul venduto, sicché tra il produttore/venditore e la licenziante del marchio non vi era alcun rapporto; e) non sussistevano, pertanto, in ipotesi, le condizioni per computare nel valore in dogana delle merci importate l'importo dei diritti di licenza, con conseguente annullamento dell'atto impositivo e delle relative sanzioni, oggetto di appello incidentale dell'Agenzia delle dogane, e assorbimento delle ulteriori eccezioni proposte dall'appellante principale.
2. L'Agenzia delle dogane impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
3. La C. e il M. resistevano con distinti controricorsi; il secondo depositava, altresì, memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va pregiudizialmente dichiarata la carenza di legittimazione passiva di M., non avendo la C. proposto appello anche nei suoi confronti.
1.1. È vero che il giudizio di primo grado si è svolto anche nei confronti del M., ma, avendo quest'ultimo, quale rappresentante diretto dell'importatore, una posizione giudiziale autonoma, l'appello della C. (come si preciserà meglio nel prosieguo) è stato legittimamente rivolto, in causa scindibile, nei soli confronti dell'Agenzia delle dogane e limitatamente alla posizione che riguarda la società contribuente.
1.2. Ne consegue che erroneamente l'Agenzia delle dogane ha convenuto nel presente giudizio anche il M.
2. Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 22 e 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 in combinato disposto con gli artt. 16 e 43 I.fall., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. evidenziandosi che la C. è stata dichiarata fallita il 10/12/2015 e che lo stesso giorno il difensore della società depositava l'atto di appello, previamente notificato, nella segreteria della CTR, non avendone più il potere in ragione degli effetti riconnessi alla dichiarazione di fallimento.
3. Il motivo è inammissibile, non potendo l'Agenzia delle dogane far valere un'eccezione processuale spettante esclusivamente alla curatela fallimentare.
3.1. Non è dubbio che gli effetti della sentenza di fallimento si verificano, per il fallito, dalla data della pronuncia della dichiarazione di fallimento, secondo la cd. zero hour rule, che implica che la dichiarazione di fallimento ha effetto dall'ora zero del giorno in cui la dichiarazione è intervenuta (con riferimento all'art. 16 I.fall. applicabile ratione temporis si veda Cass. n. 5781 del 27/02/2019), sicché il deposito dell'atto di appello è intervenuto allorquando il difensore della società contribuente era già privo di potere in ragione dello scioglimento del rapporto di mandato conseguente alla sentenza di fallimento.
3.2. Tuttavia, sotto il profilo processuale, deve aversi conto delle seguenti circostanze: a) che il giudizio è stato ritualmente introdotto dal difensore munito di potere rappresentativo, atteso che l'atto di appello è stato notificato all'Agenzia delle dogane prima della dichiarazione di fallimento; b) che il difensore della C. in bonis si è costituito in giudizio prima della formale dichiarazione di interruzione del processo; c) che detta interruzione non è stata mai dichiarata in ragione della costituzione in giudizio della curatela fallimentare, che ha dimostrato interesse alla prosecuzione del giudizio di appello facendo propri gli effetti del ricorso.
3.3. Orbene, da un lato, è noto che, ai sensi dell'art. 43, terzo comma, I.fall. l'interruzione è sottratta all'ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 c.p.c., ma deve, comunque essere dichiarata dal giudice non appena ne sia venuto a conoscenza, tanto che non v'è nessun onere di riassunzione prima della formale dichiarazione di interruzione (Cass. n. 5288 del 01/03/2017; Cass. n. 4519 del 27/02/2018; Cass. n. 8640 del 09/04/2018; Cass. n. 9016 del 11/04/2018).
3.3.1. Dall'altro, la perdita della capacità processuale del fallito, a seguito della dichiarazione di fallimento, non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto è consentito eccepirla e non è rilevabile d'ufficio, sicché al limite la sentenza emessa tra le parti originarie sarà inopponibile alla curatela fallimentare (Cass. n. 2965 del 27/02/2003; Cass. n. 3378 del 20/02/2004; Cass. n. 5226 del 04/03/2011; Cass. n. 22925 del 13/12/2012; Cass. n. 614 del 15/01/2016). 3.4. Ne consegue che l'Agenzia delle dogane non ha alcun interesse a rilevare la perdita di capacità dell'imprenditore fallito in corso di causa, tanto più che la curatela fallimentare si è costituita in giudizio intendendo beneficiare degli effetti dell'appello ritualmente proposto.
3.5. Né argomenti in contrario possono trarsi dal principio, di recente affermato da questa Corte, per cui «l'evento con valenza interruttiva che si sia verificato dopo la notifica dell'atto di appello ma prima della scadenza del termine per la costituzione in giudizio, determina l'automatica interruzione del giudizio ai sensi dell'art. 299 c.p.c., norma applicabile nel processo tributario in virtù del richiamo generale operato dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992» (Cass. n. 22944 del 26/09/2018).
3.5.1. Invero, il superiore principio di diritto è stato enunciato in un giudizio in cui l'imprenditore ancora in bonis aveva ricevuto la notifica dell'appello proposto da controparte ed è fallito prima della scadenza del termine per costituirsi in giudizio, sicché lo stesso è dettato da un'esigenza di tutela l'interesse della curatela fallimentare (non sussistente nel caso di specie) a non essere pregiudicata da una notifica di cui potrebbe non avere avuto conoscenza.
4. Con il secondo motivo di ricorso l'Agenzia delle dogane deduce, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, in combinato disposto con l'art. 335 cod. proc. civ. e la conseguenziale violazione del principio del ne bis in idem, nonché la contestuale violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4, e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992 e il difetto di integrazione del contraddittorio in violazione dell'art. 53, comma 2, e dell'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, in combinato disposto con gli artt. 331 e 332 cod. proc. civ.
4.1. In buona sostanza, la ricorrente si duole: a) della mancata notificazione dell'appello al M. e della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultimo; b) della mancata riunione dei ricorsi separatamente proposti in appello da parte della C. e dell'Agenzia delle dogane avverso l'unica sentenza della CTP (n. 189/03/15), con conseguente possibile contrasto di giudicati.
5. Il motivo è infondato. 5.1. Quanto al profilo sub a), l'impugnata sentenza della CTR ha pronunciato unicamente sul ricorso in appello della C. e sull'appello incidentale dell'Ufficio con riferimento alle sanzioni alla stessa comminate. Ne consegue che la questione posta all'attenzione del giudice di appello ha riguardato unicamente la posizione della C. in causa sicuramente scindibile (in primo grado sono stati riuniti i separati ricorsi proposti dalla C., nei confronti dell'avviso di liquidazione e del conseguente atto di irrogazione sanzioni, e dal M., nei confronti di un distinto atto di irrogazione sanzioni), sicché non era necessaria la notificazione del ricorso anche al M., litisconsorte solo facoltativo (cfr. Cass. n. 25588 del 27/10/2017; Cass. n. 24083 del 12/11/2014), né doveva provvedersi all'integrazione del contraddittorio da parte della CTR.
5.2. Quanto, invece, al profilo sub b), secondo condivisibile orientamento di questa Corte «l'inosservanza, da parte del giudice di appello, dell'obbligo di riunire, in un unico procedimento, i gravami separatamente proposti contro la medesima sentenza non spiega effetti quando, malgrado la formale mancanza di un provvedimento di riunione, dette impugnazioni abbiano sostanzialmente avuto uno svolgimento unitario, in quanto - come nella specie - chiamate alla stessa udienza, nonché contestualmente discusse e decise dallo stesso collegio con il medesimo relatore, così restandosi nell'ambito della mera redazione separata di due pronunce per una decisione di tipo unitario (salva, poi, la facoltà di riunione dei ricorsi che siano stati proposti contro di esse). La decisione di una delle impugnazioni non precedentemente riunite, inoltre, non determina l'improcedibilità delle altre, sempre che non si venga a formare il giudicato sulle questioni investite da queste ultime, dovendosi attribuire prevalenza - in difetto di previsioni sanzionatorie da parte dell'art. 335 c.p.c. - alle esigenze di tutela del soggetto che ha proposto l'impugnazione rispetto a quelle della economia processuale e della teorica armonia dei giudicati». (Cass. n. 20514 del 12/10/2016).
5.3. Nella specie, la sentenza impugnata nel presente giudizio è stata emessa il medesimo giorno (24 novembre 2016), dallo stesso Collegio, e dallo stesso relatore rispetto alla sentenza n. 6873/07/16 (allegata al ricorso), riguardante il ricorso in appello proposto dall'Agenzia delle dogane; ne consegue che dall'inosservanza del simultaneus processus non ne sono derivate, in concreto, conseguenze pregiudizievoli per la parte ricorrente.
6. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, avendo la CTR escluso la ricorrenza delle condizioni di cui agli artt. 157, § 2, e 160 DAC per la inclusione delle royalities nel valore doganale della merce importata, stante la configurabilità di un mero controllo delle licenzianti sulla qualità della merce prodotta e sul rispetto da parte dei fabbricanti di determinate condizioni di lavoro.
6.1. In buona Sostanza, l'Agenzia delle dogane si duole che la sentenza impugnata avrebbe solo apparentemente esaminato le clausole contrattuali dei contratti di licenza prodotti dall'Ufficio, omettendo, in particolare, di considerare la portata di alcune di esse inserite nei contratti di licenza denotanti: a) un rapporto di subordinazione del contratto di produzione a quello di licenza, con configurabilità del pagamento delle royalties come condizione, seppure implicita, di vendita delle merci; b) un legame tra licenziante e produttore tale da consentire al primo un controllo indiretto sulla produzione, inteso quale effettivo potere di costrizione o di orientamento, non concretantesi nel mero controllo di qualità.
7. Il motivo è inammissibile. 7.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione» (Cass. S.U. n. 8053 del 07/04/2014; conf. Cass. n. 21257 del 08/10/2014; Cass. n. 23828 del 20/11/2015; Cass. n. 23940 del 12/10/2017; Cass. n. 22598 del 25/09/2018).
7.2. Nella specie, la motivazione adottata dalla CTR non può dirsi né inesistente, né apparente, né contraddittoria, avendo la sentenza dato ampiamente conto, attraverso l'esame dei contratti intercorsi tra licenziante e licenziatario, delle ragioni per le quali ha ritenuto di dovere considerare non integrate le condizioni previste dalla normativa unionale, escludendo, pertanto, le royaltíes nel valore doganale ai fini del pagamento dei relativi diritti.
7.3. Una nuova valutazione da parte della S.C., peraltro fondata sugli stessi elementi di fatto già presi in considerazione dal giudice di appello, si tradurrebbe in un nuovo giudizio di merito, inammissibile in sede di legittimità.
8. In conclusione, il ricorso va rigettato.
8.1. In ragione della soccombenza, l'Agenzia delle dogane va condannata al pagamento in favore di entrambi i controricorrenti, delle spese del presente giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo, avuto conto di un valore della controversia di euro 3.382,59.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dei controricorrenti, che liquida in euro 1.500,00 in favore della C. s.r.l. in fallimento e in euro 1.800,00 in favore di M., oltre alle spese forfetarie nella misura del quindici per cento e agli accessori di legge. Così deciso in Roma il 27 marzo 2019.
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