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Corte di Cassazione, Sez. 5
Sentenza n. 10275 del 12 aprile 2019
FATTI DI CAUSA
1. – N.B. ha proposto impugnazione avverso l'avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle entrate aveva rettificato la dichiarazione Iva del contribuente per l'anno 1994, a seguito di verifica dalla Guardia di Finanza di XXX, nel corso della quale era stata rinvenuta documentazione extracontabile che aveva consentito di ricostruire l'attività effettivamente svolta e il reddito conseguito. La Commissione tributaria provinciale di Benevento, con sentenza 9/3/2001, ha accolto il ricorso ad eccezione del recupero a tassazione di costi indetraibili per lire 3.380.000, negando il valore probatorio della documentazione acquisita. La Commissione tributaria regionale della Campania ha dichiarato inammissibile l'impugnazione dell'Agenzia delle entrate, ritenendo che la stessa non fosse stata firmata da persona alla quale poteva essere riconosciuta la legittimazione a proporre appello. La Corte di cassazione, con sentenza del 16 gennaio 2009, n. 874, ritenendo sussistente la capacità processuale attribuita all'Ufficio finanziario, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle entrate e ha cassato la pronuncia impugnata con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.
2. - A seguito della riassunzione del giudizio, la Commissione tributaria regionale, con sentenza 137/01/2012, depositata il 19 marzo 2012, ha accolto l'appello dell'amministrazione, confermando l'atto di accertamento. In particolare, i giudici del rinvio hanno sottolineato che la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente ribadito che l'accertamento in rettifica sia consentito pure in presenza di contabilità formalmente regolare, in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che facciano dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata. Sono state inoltre respinte le eccezioni riguardanti l'acquisizione della documentazione senza la preventiva autorizzazione dell'autorità giudiziaria, sul presupposto che gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, specificando che nel caso di specie le operazioni di inventario furono eseguite alla presenza e con la continua assistenza del B. o di persona di sua fiducia appositamente delegata. Nel merito, la Commissione tributaria regionale ha evidenziato che le differenze quantitative delle rimanenze, derivanti dal raffronto tra quantità rilevate e quantità contabilizzate, alla data dell'intervento, hanno dato luogo a presunzioni legali di cessioni o di acquisto dei beni in evasione d'imposta (ex art. 53 d.P.R. n. 633 del 1972) e il valore attribuito alle differenze quantitative riscontrate rappresentava la base imponibile per la determinazione dell'imposta evasa. Riguardo alle annotazioni contenute nelle tre agende e nei fascicoli acquisiti nel corso della verifica, la Commissione tributaria regionale ha sottolineato che il contribuente si è limitato ad asserire genericamente che le annotazioni riguardassero operazioni contenute nella contabilità generale, senza, tuttavia, fornire il riscontro analitico delle singole operazioni.
3. – N.B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. L'Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso. A seguito della trattazione orale in pubblica udienza, preceduta da memoria illustrativa del ricorrente, il collegio, con ordinanza interlocutoria del 10 gennaio 2017, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo per la trattazione unitaria con il ricorso iscritto al n. 74/2015 R.G., rilevando che l'Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 4437 del 12 maggio 2014 con cui la medesima Commissione tributaria regionale della Campania ha revocato la sentenza oggetto del presente giudizio per sussistenza di un precedente giudicato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia su questioni pregiudiziali sollevate nei gradi di merito, in relazione all'articolo 360, comma 1, c.p.c. n. 4 e per violazione dell'articolo 36 d.lgs. 546/1992 in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3. Secondo quanto argomentato, la pronuncia sarebbe incorsa nella violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), avendo il contribuente contestato nel ricorso la questione del giudicato che si era venuto a determinare sulla controversia relativa all'Irpef per la stessa annualità (1994) oggetto del presente giudizio, a seguito della sentenza n. 11/5/2003 della Commissione tributaria regionale della Campania, allegata in copia. In particolare, la sentenza di cui si invoca il giudicato avrebbe escluso la rilevanza probatoria della documentazione acquisita, in sede di accesso, all'interno della scatola rinvenuta nell'abitazione del ricorrente e della borsa ritrovata chiusa nel deposito, documentazione che è altresì alla base dell'accertamento ai fini Iva, oggetto del presente giudizio. La sentenza impugnata non si è pronunciata su detto motivo, incorrendo nel vizio di omessa pronuncia su una o più domande ed eccezioni del contribuente contenute nel ricorso introduttivo, reiterate nelle controdeduzioni proposte in appello e in sede di riassunzione, in violazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 36, comma 2, n. 4) d.lgs. n. 546/92. 1.1. - Il motivo è infondato perché verte su una questione irrilevante. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario l'efficacia espansiva del giudicato esterno non ricorre quando i separati giudizi riguardino tributi diversi, trattandosi di imposte strutturalmente differenti, ancorché la pretesa impositiva sia fondata sui medesimi presupposti di fatto (Cass. 6 giugno 2018, n. 14596; Cass. 9 gennaio 2014, n. 235; Cass. 30 novembre 2009, n. 25200). Nella specie, il presente giudizio riguarda la rettifica della dichiarazione Iva, mentre quello di cui si invoca il giudicato verte sull'accertamento Irpef. Nel giudicato invocato, in base a quanto riportato il ricorso, vengono evocati accertamenti propri delle imposte dirette ed estranei all'Iva (come in riferimento al rapporto tra movimenti in entrata e uscita dei debiti e crediti o dei ricavi e dei costi). Stante la diversità delle fattispecie non sussistono pertanto i presupposti per considerare l'efficacia espansiva del giudicato
2. - Con il secondo motivo si prospetta l'illegittimità della sentenza per violazione dell'articolo 52, commi 1, 2, 3 e 6, del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell'articolo 12 della legge n. 212 del 2000, in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Parte ricorrente, al riguardo, contesta le modalità con cui sarebbe avvenuta l'ispezione, effettuata in locali diversi da quelli destinati ad attività commerciale (tra cui l'abitazione del contribuente e alcuni locali utilizzati per uso promiscuo) senza le necessarie autorizzazioni dell'autorità giudiziaria. L'irrituale acquisizione degli elementi probatori, disposta in violazione delle norme richiamate (apertura di una borsa chiusa senza la previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria e utilizzo di documenti rinvenuti in una scatola di cartone presso l'abitazione del contribuente), determinerebbe l'annullamento dell'avviso in quanto basato su dati inutilizzabili.
2.1. Il motivo è fondato. In tema di accertamento dell'Iva, l'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 prevede, al primo comma, l'accesso degli impiegati dell'Amministrazione finanziaria presso i locali adibiti all'esercizio dell'attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo (e, dunque, anche abitativo) e, al secondo comma, l'accesso presso i locali adibiti ad uso diverso e, dunque, esclusivamente abitativo: nel primo caso, è richiesta la semplice autorizzazione del capo dell'ufficio e del procuratore della Repubblica, senza l'indicazione di specifici presupposti, ponendosi tali autorizzazioni come meri adempimenti procedimentali, legati alla necessità che la perquisizione sia avallata da un'autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l'autorizzazione del procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, trovando il suo fondamento nell'inviolabilità del domicilio di cui all'art. 14 Cost. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, l'effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26829). L'autorizzazione del P.M. all'accesso domiciliare, prevista in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie, dall'art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di Iva costituisce pertanto un provvedimento necessario per la legittimità dell'accertamento e il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell'accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare l'esistenza del decreto del P.M. e la presenza in esso dei requisiti indispensabili atti a fondare l'accesso (Cass. 11 ottobre 2017, n. 23824). L'illegittimità o la mancanza del provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ai sensi dell'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, comporta l'inutilizzabilità delle prove acquisite in seguito a un accesso domiciliare, anche nel caso in cui il contribuente abbia consegnato spontaneamente la documentazione (Cass. 15 gennaio 2019, n. 673). Nel caso di specie, si è proceduto all'accesso in locali del contribuente diversi da quelli destinati a uso commerciale — adibiti a uso promiscuo o abitativo — in assenza di qualunque autorizzazione da parte dell'autorità giudiziaria. Si è inoltre provveduto, in mancanza di autorizzazione, all'apertura di una borsa chiusa e all'acquisizione di documenti rinvenuti in una scatola presso l'abitazione dell'attuale ricorrente. La documentazione acquisita con queste modalità illegittime è quindi inutilizzabile, per cui l'avviso di accertamento che si è basato su tali elementi probatori è a sua volta affetto da illegittimità.
3. - A seguito dell'accoglimento del secondo motivo, risultano assorbiti gli ulteriori motivi di doglianza riguardanti l'illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'articolo 54 d.P.R. n. 633 del 1972 e delle disposizioni degli articoli 2727 e 2729 c.c., in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c. (terzo motivo con cui si contesta l'errata applicazione dei principi che regolano il procedimento di accertamento analitico-sintetico di cui all'articolo 54, comma 2, d.P.R. n. 633/1972, avendo l'ufficio effettuato la rettifica basandosi unicamente sul dato indiziario rappresentato dal ritrovamento della documentazione acquisita, in violazione della disciplina vigente, in sede di accesso da parte dalla Guardia di Finanza) e l'omessa, insufficiente, o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'articolo 360, comma 1, c.p.c. n. 5 (quarto motivo, riguardo alla specificazione degli elementi di diritto e di fatto che avrebbero potuto legittimare l'Ufficio a rettificare i corrispettivi dichiarati dal ricorrente utilizzando esclusivamente le risultanze della documentazione extracontabile reperita senza alcun riscontro con altri elementi gravi, precisi e concordanti idonei ad assegnare al dato indiziario di partenza, rappresentato dal rinvenimento di taluna documentazione extraconta bile, valore di presunzione semplice).
4. - Stante l'illegittimità dell'accesso della Guardia di Finanza, non essendo necessari altri accertamenti, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c. con l'accoglimento del ricorso introduttivo.
5. - Le spese dei gradi di merito vanno integralmente compensate tra le parti, sussistendo giusti motivi in ragione dello svolgimento della complessa vicenda processuale, mentre quelle di legittimità vanno poste a carico dell'Agenzia delle entrate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo. Compensa le spese di merito e condanna l'Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di legittimità che liquida in € 7000,00 per onorari, oltre 15% per spese generali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione civile, 26 ottobre 2018.
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