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Il principio di proporzionalità deve essere rispettato tanto in tema di IVA che di imposte dirette. Lo scostamento lieve dagli studi di settore non giustifica l’avviso di accertamento. Ricorso accolto con annullamento totale dell’avviso.

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Estratto: “Il principio di "proporzionalità", però, non è limitato all'iva, ma riguarda anche le imposte dirette, dovendosi considerare la prioritaria tutela del principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost. (Cass., 5327/2019, proprio in tema di studi di settore, con uno scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore dell'8%, con il rigetto del ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate)”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 8855 del 29 marzo 2019

RITENUTO IN FATTO

1. L'Agenzia delle entrate, utilizzando gli studi di settore, ai sensi dell'art. 62 sexies d.l. 331/1993, accertava, nei confronti della N. s.r.I., esercente attività di vendita di ricambi ed accessori per telefonia, uno scostamento tra l'ammontare dei ricavi dichiarati, per l'anno 2005, e quello derivante dalla applicazione degli studi di settore.

2. La Commissione tributaria provinciale dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto proposto avverso l'invito a comparire, atto non ricompreso tra quelli impugnabili autonomamente ai sensi dell'art. 19 d.lgs. 546/1992, e non nei confronti dell'avviso di accertamento.

3. La Commissione tributaria regionale evidenziava che la contribuente aveva impugnato l'avviso di accertamento e non l'invito al contraddittorio, essendo incorsa in un mero errore di trascrizione, ma rigettava la domanda della contribuente in quanto la stessa non aveva fornito la prova contraria all'applicabilità nei suoi confronti degli studi di settore, a seguito di contraddittorio.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

4. Resiste con controricorso l'Agenzia delle entrate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Anzitutto, deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Infatti, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte dell'art. 57, comma 1, del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, di tutti i "rapporti giuridici", i "poteri" e le "competenze" facenti capo al Ministero dell'Economia e delle Finanze, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza dell'art. 1 del d.m. 28 dicembre 2000), unico soggetto passivamente legittimato è l'Agenzia delle Entrate, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze (Cass., 28 gennaio 2015, n. 1550), che, tra l'altro, non è stato parte nei giudizi di merito.

1.1. Con un unico motivo di impugnazione la N. s.r.l. deduce "Nullità della sentenza per violazione, falsa ed erronea applicazione della legge, art. 360 comma 1 , n. 3, in relazione a: violazione e falsa applicazione dell'art. 10 , comma 1, legge 146/1998, dell'art. 39, comma 1 lett. d) d.p.r. 600/1973 e dell'art. 62 sexies, comma 3, d.l. 331/1993", in quanto la Commissione regionale si sarebbe limitata a confutare "i contenuti e le doglianze formulate nell'atto di appello", avendo opposto la contribuente all'applicabilità degli studi di settore solo argomentazioni generiche. Per la società, invece, non è stato applicato il cluster corretto, in quanto numerose erano le differenze tra i ricavi ed i costi della società e quelli del cluster 7, sia per la vendita in via esclusiva dei ricambi ed accessori, senza vendita di telefonia mobile e fissa, sia per la percentuale di vendita nei confronti dei grossisti (70 % contro il 52 % del cluster), sia per la vendita nei confronti della grande distribuzione (15 % avverso lo zero del cluster), sia per lo spazio destinato alla vendita (o a fronte di 62 mq del cluster). Inoltre, la ricorrente ritiene insussistenti le gravi incongruenze, in quanto il volume di affari dichiarato era di € 3.966.238,00, mentre il volume di affari "puntuale" accertato in base agli studi di settore era di € 4.163.262,00, con una differenza del 4,73%. Tale questione costituisce per la ricorrente una eccezione in senso lato, sicchè può essere anche rilevata d'ufficio dal Giudice e non è inibita in appello dalla preclusione di cui all'art. 57 d.lgs. 546/1992.

1.2. Tale motivo è fondato.

1.3. Va, preliminarmente, affrontata la questione in ordine alla natura della eccezione sollevata per la prima volta dalla società in sede di giudizio di legittimità, in ordine alla insussistenza della "grave incongruenza" tra i ricavi dichiarati e quelli accertati in base agli studi di settore. Infatti, nel giudizio di legittimità è preclusa la proposizione di nuove questioni di diritto solo quando esse presuppongano o comunque richiedano nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto, mentre deve ritenersi consentito dedurre per la prima volta in tale sede questioni di diritto che lascino immutati i termini, in fatto, della controversia così come accertati e considerati dal giudice del merito (Cass., 13 settembre 2007, n. 19164; Cass., 14 ottobre 2005, n. 20005; Cass., 16 novembre 2000, n. 14848). Deve, quindi, chiarirsi se tale doglianza sia una eccezione in senso stretto (proprio) oppure una eccezione in senso lato (o eccezione in senso improprio o mera difesa), in quanto nel primo caso la stessa sarebbe inammissibile perchè la contribuente avrebbe dovuto farla valere come specifica censura nel ricorso avverso il provvedimento di avviso di accertamento. Per questa Corte, nel processo tributario di appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all'originaria "causa petendi" e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l'indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi degli artt. 24 e 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass., 3 luglio 2015, n. 13742).

1.4. Va, però, osservato che per individuare l'oggetto del processo tributario ci si deve soffermare sul combinato disposto di cui agli artt. 18 comma 2 lettere d) ed e), 19 e 24 d.Ig.s. 546/1992, tenendo conto del fatto che il giudizio tributario è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l'atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati (Cass., 21 novembre 2018, n. 30039, ove si evidenzia che l'avviso di accertamento soddisfa l'obbligo di motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel petitum e nella causa petendi), ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo (Cass., Sez. Un. 27 gennaio 2016, n. 1518; Cass., 9754/2003; Cass. Sez.Un., 18 gennaio 2007, n. 1052). L'oggetto del giudizio si risolve, dunque, nello specifico nesso tra atto autoritativo di imposizione e contestazione del contribuente, che consente di identificare concretamente nel processo causa petendi e petitum della domanda proposta. Il contribuente, quindi, pur essendo convenuto in senso sostanziale è, però, attore in senso formale, mentre l'amministrazione assume la veste di attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella risultante dall'atto impugnato (Cass., 28 giugno 2012, n. 10806).

1.5. Va, ancora, precisato che per questa Corte, a sezioni unite (Cass., Sez.Un., 27 gennaio 2016, n. 1518, in tema di rilievo d'ufficio della cessazione della materia del contendere per effetto de condono), il principio della generale rilevabilità d'ufficio delle eccezioni ai sensi dell'art. 112 c.p.c. ("il giudice...non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti"), trova applicazione anche nel processo tributario ai sensi dell'art. 57 comma 2 d.lgs. 546/1992 ("non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio"). Le eccezioni, quindi, possono essere sempre rilevate d'ufficio dal giudice (Cass., Sez.Un., 4 settembre 2012, n. 14828 e Sez.Un., 22 marzo 2017, n. 7294, sul rilievo d'ufficio della nullità del contratto anche in caso di richiesta di risoluzione del contratto, che presuppone l'esistenza di un contratto valido; Cass., Sez. Un., 26242/2014 sul rilievo d'ufficio di una causa di nullità del contratto diversa da quella allegata dall'attore, purchè emergente dagli atti di causa; anche Cass., sez. L, 1 agosto 2018, n. 20388; Cass., sez 2, 30 agosto 2018, n. 21418, sul rilievo d'ufficio della nullità del contratto in tutte le ipotesi in cui il giudice risulti investito di una domanda di risoluzione, annullamento, rescissione del contratto), tranne le ipotesi in cui la legge espressamente le riservi alla parte ed i casi in cui il fatto integratore della eccezione sia elemento costitutivo dell'esercizio di un'azione potestativa della parte (azioni di risoluzione, rescissione ed annullamento). La preclusione di cui all'art. 57 comma 2 d.lgs. 546/1992 si riferisce, allora, solo alle eccezioni in senso stretto (o proprio), rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l'allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo (Cass., 6918/2013). Sono, quindi, le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale (Cass., 24902 del 2013; Cass., 26 settembre 2018, n. 22859, in relazione ai vizi dell'atto di riscossione che costituiscono eccezioni in senso stretto). In particolare, costituisce principio consolidato quello per cui il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto all'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d'invalidità dell'atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, per difetto di elementi formali essenziali, incompetenza o violazione di norme sul procedimento (Cass., 30 settembre 2015, n. 19414), mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., sez. 5, 29 dicembre 2017, n. 31224). Il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato, quindi, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati "ex actis", poiché il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d'ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass., 31 ottobre 2018, n. 27998).

1.6. Pertanto, nella specie, poichè la sussistenza della "grave incongruenza" è proprio il presupposto per l'emissione dell'avviso di accertamento fondato sugli studi di settore ai sensi dell'art. 62 sexies d.l. 331/1995, è consentito alla contribuente allegare per la prima volta anche in sede di legittimità, l'inesistenza del fatto costitutivo della pretesa dell'amministrazione, sollevando una eccezione in senso improprio o mera difesa, tesa unicamente a contestare la sussistenza del fatto costitutivo della obbligazione tributaria.

2. La prima questione di merito da trattare, concerne l'applicabilità al processo in esame dell'art. 1 comma 23, legge 27-12-2006, n. 296, che ha modificato l'art. 10 della legge 8-5-1998, n. 146, a decorrere dall'1-1-2007.

2.1. Per questa Corte, infatti, con orientamento univoco, l'accertamento induttivo fondato sul mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore è legittimo solo a decorrere dal 10 gennaio 2007, in base all'art. 1, comma 23, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che non ha portata retroattiva, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa, in quanto, con l'aggiunta di un inciso, ha soppresso il riferimento alle "gravi incongruenze", prima operato tramite il rinvio recettizio all'art. 62 sexies, comma 3, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, nella legge 29 ottobre 1993, n. 427 (Cass., 17 dicembre 2014, n. 26481; Cass., 31 ottobre 2018, n. 27847). Pertanto, l'art. 10 comma 1 legge 146/1998, come modificato dall'art. 1 comma 23 lett. b. legge 296/2006, con cui è stato soppresso ai fini dell'accertamento basato sugli studi di settore l'originario riferimento alle "gravi incongruenza" di cui al testo originale dell'art. 62 sexies comma 3 d.l. 331/1993, si applica solo agli avvisi di accertamento emessi in data successiva all'entrata in vigore della legge 296/2006, quindi dall' 1-1-2007 (Cass., 26481/2014, cit; Cass., 30760/2017; Cass., 24621/2017). Si è, ancora più chiaramente affermato che, ai fini della applicabilità della novella del 2006 (legge 296/2006 in vigore da111-1-2007), deve tenersi conto della data di notifica dell'avviso di accertamento e non dell'anno di imposta, eventualmente anteriore all'1-1-2007, in virtù della generale regola teMpus regit actum, in assenza di una specifica norma transitoria di contenuto diverso (Cass., 17807/20179). Poiché, nella specie, l'avviso è stato notificato il 18-12-2009, anche se riferito all'anno 2004, deve applicarsi l'art. 10 legge 146/1998, come modificato dall'art. 1 comma 23 della legge 296/2006.

3. Tuttavia, l'orientamento per cui il presupposto delle "gravi incongruenze" non sarebbe più necessario per gli avvisi di accertamento notificati dopo l'-1-1- 2007, anche se relativi ad anni di imposta anteriori a tale data, deve essere opportunamente riconsiderato alla stregua della recente pronuncia della Corte di giustizia (Corte giustizia UE, 21 novembre 2018, n. 648). 3.1.Infatti, in base alla giurisprudenza eurounitaria (Corte Giustizia UE, 648/2018, cit.) la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all'Amministrazione finanziaria, a fronte di "gravi divergenze" tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d'affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell'imposta sul valore aggiunto (IVA), a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell'imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva 2006/112, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (la Corte si è così pronunciata nell'ambito di una controversia insorta tra una contribuente italiana e l'Agenzia delle Entrate in merito ad un avviso d'accertamento Iva). Va evidenziato che tale pronuncia, seppure riferita espressamente all'Iva, detta un principio di diritto applicabile anche alle imposte dirette. Infatti, in motivazione la Corte di giustizia, dopo aver fatto riferimento al principio di "neutralità fiscale", proprio di tale specifica disciplina, si sofferma su quello di proporzionalità, sottolineando che "tale principio non osta a che una normativa nazionale prevede che solamente a fronte di rilevanti divergenze tra l'importo del volume di affari dichiarato dal contribuente e quello determinato in base al metodo induttivo, sulla scorta del volume di affari realizzato da soggetti esercenti la stessa attività del contribuente, possa avviarsi il procedimento di verifica fiscale". Il principio di "proporzionalità", però, non è limitato all'iva, ma riguarda anche le imposte dirette, dovendosi considerare la prioritaria tutela del principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost. (Cass., 5327/2019, proprio in tema di studi di settore, con uno scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore dell'8%, con il rigetto del ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate).

3.2. Del resto, anche nella normativa nazionale sugli studi di settore il requisito delle "gravi incongruenze" è tuttora richiesto espressamente. L'art. 62 comma 3 sexies d.l. 331/1993, tuttora vigente, contiene ancora il riferimento alle "gravi incongruenze", menzionando espressamente, tra l'altro, non solo la disciplina sull'accertamento delle imposte dirette di cui all'art. 39 d.p.r. 600/1973, ma anche quella relativa all'Iva, di cui all'art. 54 d.p.r. 633/1972.

Infatti, si prevede in tale disposizione ("attività di accertamento nei riguardi dei contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili") che "Gli accertamenti di cui agli artt. 39, primo comma, lettera d), d.p.r. 600/1973, e 54 d.p.r. 633/1972, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell'art. 62 bis del presente decreto". L'art. 10 comma 1 della legge 8-5-1998, n. 146 ("modalità di utilizzazione degli studi di settore in sede di accertamento") , dopo le modifiche di cui all'art. 1 comma 23 della legge 296/2006, in vigore dall'1-1-2007, ai sensi dell'art. 1 comma 24 della stessa legge, continua a fare riferimento all'art. 62 sexies d.l. 331/1993, e quindi anche alle "gravi incongruenze" ("Gli accertamenti basati sugli studi di settore, di cui all'articolo 62 sexies del d.l. 331/1993...., sono effettuati nei confronti dei contribuenti con le modalità di cui al presente articolo, qualora l'ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all'ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi"). Inoltre, il comma 4 bis dell'art. 10 della legge 146/1998, ribadisce l'applicabilità della disciplina di accertamento sia alle imposte dirette che all'iva, mediante il richiamo sia all'art. 39 comma 1 lettera d) d.p.r. 600/1973, sia all'art. 54 d.p.r. 633/1972 ("Le rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui all'art. 39, primo comma, lettera d), secondo periodo, d.p.r. 600/1973, e art. 54, secondo comma, ultimo periodo, d.p.r. 633/1972, non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell'adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità, ai fini dell'applicazione degli studi di settore di cui all'art. 62 bis del d.l. 331/1993...tenuto altresì conto dei valori di coerenza risultanti dagli specifici indicatori, di cui all'articolo 10 bis, comma 2, della presente legge, qualora l'ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o compensi dichiarati"). Non v'è stata, dunque, una abrogazione implicita dell'art. 62 sexies d.l. 331/1993, da parte della legge 296/2006 (art. 23 comma 23), che ha modificato l'art. 10 comma 1 della legge 8-5-1998, n. 146. 3.3. In precedenza questa Corte ha ritenuto come scostamenti solo lievi, e quindi inidonei alla rettifica dei redditi quelli del 4,23 % (Cass., 14 luglio 2017, n. 17486), del 7% (Cass., 26 settembre 2014, n. 20414), del 10 % (Cass., 2637/2019), del 21% (Cass., 10 novembre 2015, n. 22946), con la precisazione che la nozione di "grave incongruenza" non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo, invece, la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell'accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività. Pertanto, al fine di individuare divergenze significative tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore, si può anche fare riferimento all'art. 2 comma 1 lettera a del d.p.r. 16-9-1996, n. 570 ("regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli esercenti attività di impresa, arti e professioni"), il quale dispone: "ai medesimi fini indicati nel comma 1, le contraddizioni tra le scritture obbligatorie e i dati e gli elementi direttamente rilevati si considerano gravi e rendono altresì inattendibile la contabilità ordinaria degli esercenti attività di impresa, quando: a)i valori rilevati a seguito di ispezioni o verifiche , anche parziali...abbiano uno scostamento, rispetto a quelli indicati in contabilità, superiore al 10 per cento del valore complessivo delle voci interessate, a condizione che tale scostamento non sia riconducibile a errata applicazione dei criteri di valutazione ovvero di imputazione temporale". Analogamente al comma 2 lettera b) dell'art. 1 del d.p.r. 570/1996, si prevede che "tali contraddizioni" si considerano "gravi" quando "non risultano indicati in alcuna delle scritture contabili o, in mancanza dell'obbligo di indicazione nelle stesse, in altra documentazione attendibile, uno o più beni strunnentali...il cui valore complessivo sia superiore al 10 per cento di quello di tutti i beni strumentali utilizzati...".

3.3. Nella specie, lo scostamento tra l'importo dei ricavi dichiarati dalla società e quelli calcolati in base agli studi di settore è di appena il 4,73%. Tale scostamento risulta molto modesto, soprattutto in relazione all'ammontare dei ricavi dichiarati pari ad € 3.966.238,00 a fronte della somma di € 4.163.262,00 accertati in base agli studi di settore, sicchè non si è verificata una divergenza significativa tale da giustificare l'emissione dell'avviso di accertamento.

4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l'accoglimento del ricorso originario della contribuente.

5.Le spese dell'intero giudizio devono essere interamente compensate tra le parti per il rilievo assunto dalla recente giurisprudenza unionale.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze. Accoglie il ricorso proposto nei confronti dell'Agenzia delle entrate; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente. Compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 19 marzo 2019.

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