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La sesta direttiva UE osta ad una normativa italiana che richieda il pagamento dell’IVA che è stata già pagata con autofattura. Confermata la nullità degli oltre 50 atti notificati al contribuente.

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Estratto: “la violazione dell'obbligo formale d'introduzione fisica delle merci nel deposito «non ha comportato, perlomeno nel procedimento principale, il mancato pagamento dell'Iva all'importazione poiché questa è stata regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile applicato dal soggetto passivo» (punto 37), stabilendo che «la sesta direttiva dev'essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell'imposta sul valore aggiunto, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile, mediante un'autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo» (punto 49 e dispositivo)”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 3765 dell’8 febbraio 2019

FATTI DI CAUSA

1. Si legge nella narrativa della sentenza impugnata che la Direzione Regionale delle Dogane per il Piemonte e la Valle d'Aosta emetteva nei confronti della S. s.r.I., nella qualità di obbligata solidale, 3 cartelle di pagamento, 23 avvisi di pagamento, 30 atti di contestazione relativi al mancato pagamento dell'IVA all'importazione per gli anni 2006-2010 per merce mai introdotta materialmente nel deposito IVA della società.

2. La S. s.r.l. impugnava gli atti con separati ricorsi, successivamente riuniti, innanzi alla CTP di Torino, che li accoglieva integralmente con sentenza impugnata dall'Agenzia delle dogane innanzi alla CTR del Piemonte. Quest'ultima, con sentenza n. 1053 /2016, depositata il 18/8/2016, ha respinto l'appello dell'Agenzia, dichiarando definitivamente assolta l'Iva da parte dell'importatore al momento dell'estrazione della merce dal deposito.

3. La CTR: a) escludeva la necessità di un obbligo di introduzione fisica della merce in deposito, richiamando l'interpretazione autentica dell'articolo 50 bis decreto legge 331/1993 ad opera dell'articolo 34, comma 44, del decreto legge 179/2012 (convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221), essendo sufficiente a realizzare l'introduzione anche quella avvenuta negli spazi limitrofi al deposito, nel qual caso "l'adempimento degli obblighi Iva da parte dell'imprenditore (recte, dell'importatore) al momento dell'estrazione della merce dal deposito deve far ritenere l'Iva definitivamente assolta"; b) in secondo luogo, l'avvenuto adempimento con autofattura degli obblighi Iva da parte dell'importatore doveva far ritenere l'imposta definitivamente assolta, senza possibilità per l'Agenzia delle dogane di richiedere nuovamente il pagamento, una volta disconosciuta l'operatività del regime sospensivo. Richiama, sul punto, la sentenza della Corte di giustizia europea resa nella causa Equoland; c) infine, osserva, gli obblighi contabili della S. erano stati regolarmente assolti, irrilevante essendo che il libro di magazzino, regolarmente compilato, fosse detenuto presso la sede della società e non nel deposito; inoltre, non vi era un onere a carico della società di richiedere agli importatori la dimostrazione del regolare assolvimento degli obblighi Iva.

4. L'Agenzia delle dogane ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La società intimata resiste con controricorso e ha depositato memoria ai sensi dell'art. 380-bis1 c.p.c. puntualizzando e ribadendo le proprie difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con un primo motivo, l'Agenzia deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 50 bis del decreto-legge numero 331/1993 e dell'articolo 16, comma 5 bis, del decreto-legge n. 185/2008, come modificato dall'articolo 34, comma 44, del decreto-legge n. 179/2012, convertito dalla legge numero 221/2012, alla luce della sentenza della Corte di giustizia Equoland, ai sensi dell'articolo 360, 1 0comma, n. 3 c.p.c.. Erroneamente la CTR aveva escluso che, ai fini della realizzazione dell'istituto del deposito Iva, vi sia la necessità di una materiale introduzione delle merci nel deposito applicando alla fattispecie la lett. h) del comma 4 dell'art. 50 bis d.l.n.331/1993. Infatti, osserva, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, estesamente richiamato, l'immissione reale dei beni nel deposito IVA costituisce requisito indefettibile. La novella del 2009 non può incidere sulla fattispecie e non interferisce sulla necessaria introduzione della merce nel deposito, riguardando unicamente le prestazioni di servizi eseguite in luoghi limitrofi. Peraltro, continua, il piazzale su cui gli automezzi sostavano era solo uno spazio di manovra e di carico e scarico di merci e non rientrava nel concetto di locale o spazio in cui eseguire prestazioni di servizi (mai concretamente svolte).

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. e dell'art. 50 bis, comma 6, del decreto-legge numero 331/1993, ai sensi dell'articolo 360, 1 0 comma, n. 3 c.p.c.. La sentenza della CTR di Torino aveva violato i principi in tema di onere della prova affermando che non sarebbe previsto dalla legge un onere in capo alla S. di dimostrare il regolare assolvimento dell'Iva da parte delle società importatrici mediante il sistema del reverse charge. In base all'articolo 2697 c.c., spettava, invece, alla parte resistente di provare i fatti estintivi, modificativi o impeditivi della pretesa tributaria producendo la copia delle fatture emesse dalle società importatrici ex articolo 50 bis e, comma 6, del D.L. 331/93, nonché dei registri contabili dai quali risultava avvenuta l'annotazione delle medesime fatture con relativa data. Ancora, anche in assenza di un espresso obbligo di legge, la S. poteva attirarsi presso le società importatrici per produrre la documentazione atta a dimostrare in fatto che l'Iva era stata effettivamente assolta sulle stesse con il meccanismo dell'inversione contabile, come indicato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Equoland.

3. Esaminando le questioni preliminari proposte, non trova accoglimento l'eccepita inammissibilità del ricorso perché carente della "specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti (...) sui quali il ricorso si fonda", sollevata dalla controricorrente S. Ancorchè rivolta contro "il ricorso", in realtà l'eccezione prende di mira il secondo motivo del ricorso stesso relativamente "alla mancanza di prova in ordine al regolare adempimento, da parte degli importatori, degli obblighi Iva in regime di inversione contabile". Sotto questo aspetto, tuttavia, in sostanza viene richiesto all'Agenzia di fornire la prova su un fatto negativo, non considerando che a) la ricorrente ha esposto nel ricorso (pag. 20) che "la documentazione doganale relativa all'intervenuto assolvimento dell'Iva non si trovava infatti nelle mani dell'amministrazione doganale"; b) la stessa S. ha dedotto che il fatto costituiva una circostanza pacifica e che essa stessa aveva allegato (pag. 22) tutte le autofatture emesse dalle società importatrici.

4. Nel merito, prioritaria appare la trattazione del secondo motivo di ricorso, attinente alla pretesa violazione di legge, in relazione all'art. 50 bis, comma 6, del decreto-legge numero 331/1993 e all' art. 2697 c.c. Il motivo non è congruente col contenuto della decisione ed è inammissibile. La Corte di giustizia, nella causa Equoland dinanzi richiamata, ha osservato che la violazione dell'obbligo formale d'introduzione fisica delle merci nel deposito «non ha comportato, perlomeno nel procedimento principale, il mancato pagamento dell'Iva all'importazione poiché questa è stata regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile applicato dal soggetto passivo» (punto 37), stabilendo che «la sesta direttiva dev'essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell'imposta sul valore aggiunto, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile, mediante un'autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo» (punto 49 e dispositivo).

Ha, dunque, inequivocabilmente postulato che l'Iva all'importazione e l'Iva intracomunitaria sono la stessa imposta, pur se assoggettate a termini ed a modalità diverse di riscossione. Su queste premesse, nella sentenza impugnata non si rinviene alcuna violazione di legge: la CTR, con specifico richiamo alla sentenza Equoland, ha dato conto che "Gli obblighi contabili a carico della S. sono stati regolarmente assolti, né si ritiene fondata l'obiezione sull'assenza del libro di magazzino nel deposito, perché lo stesso era presente presso la sede della società e regolarmente compilato". Con queste statuizioni, coerenti con l'interpretazione della normativa accolta da questa Corte, la ricorrente non si confronta, da ciò derivando che se essa avesse avuto l'intenzione di lamentarsi di un'omessa pronuncia, avrebbe dovuto formulare il motivo ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c.; né i motivi sono riqualificabili da questa Corte ai sensi di tale ultima disposizione, ostandovi il principio espresso da Cass. S.U. n. 17931 del 24/07/2013, per il quale «il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 5 del primo comma dell'art. 360 cod. proc, civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge».

5. In considerazione del principio di diritto stabilito dalla Corte di giustizia, emerge con evidenza l'irrilevanza del fatto sul quale è calibrato il primo motivo (mancata effettiva introduzione delle merci nel deposito gestito dalla S.).

6. Considerando che il rigetto del ricorso non consegue ad una manifesta illegittimità degli atti impugnati sin dal momento della loro emanazione, ma si inserisce in un contesto di incertezza interpretativa in fase di superamento, si ravvisano le condizioni per la compensazione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio. Così deciso in Roma il 10 dicembre 2018.

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