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“In data XXX, la contribuente, odierna appellata, riceveva la notifica dell’avviso di liquidazione dell'imposta e irrogazione delle sanzioni n. XXX, con cui la Direzione Provinciale, oggi appellante, intimava il pagamento di ben XX.XXX,XX euro, limitandosi a richiamare data e numero di un decreto ingiuntivo.
Ma anche a seguito della disamina del richiamato decreto ingiuntivo, la richiesta dell'Ufficio si mostrava inintelligibile ed inspiegabile.
Nel caso de quo, non si trattava, infatti, solo di applicare un'aliquota alla somma intimata con il decreto ingiuntivo.
La contribuente, ricevuta la notifica, aveva proceduto ad una tale verifica, ma senza trovare alcuna corrispondenza con la richiesta di esborso contenuta nell'avviso di liquidazione.
Ad applicare l'aliquota del 3% alla somma invano[1] intimata con il decreto ingiuntivo non si addiveniva all'importo richiesto dall'Ufficio (pari ad euro XX.XXX,00 per la sola imposta di registro), ma ad euro XX.XXX,XX (ndr somma di 3 volte inferiore).
Il conteggio non risultava corretto, equivalendo a quasi il 10% (e non al 3%) dell'importo intimato (peraltro dal debitore mai pagato neanche a seguito del decreto).
Ma sulla base di quale calcolo veniva richiesto l'esborso di una simile somma? Quali atti erano stati presi in considerazione dall'Ufficio? Quale o quali somme erano state assunte, dall'Agenzia delle Entrate, a base imponibile? Quali aliquote erano state applicate dall'Ufficio?
Questi erano tutti elementi ignoti alla contribuente, che si ritrovava privata di qualsiasi possibilità di vagliare l'operato dell'Agenzia, individuando eventuali inesattezze, incongruenze rispetto alla normativa vigente, errori di calcolo e quant'altro.
La stessa, quindi, si era trovata costretta a rinvenire – ipotizzandola – una logica nel calcolo dell'Ufficio e nella richiesta erariale.
Ma imporre una simile attività al contribuente, per costante giurisprudenza, non è ammesso (questa stessa CTR di Milano, sin da prima dell'emanazione della Legge n. 212/2000, cfr. sent. n. 211 del 12 dicembre 1997, ha giustamente affermato che “Non si può pretendere che il contribuente «presuma» le motivazioni delle richieste dell'Amministrazione”).
Nonostante ciò, la contribuente aveva egualmente provato a svolgere una simile attività. L’intimata, in particolare, nella sua indagine volta a dare una logica alla richiesta erariale, aveva proceduto dapprima ad ipotizzare l'eventuale tassazione, unitamente a quella del decreto ingiuntivo, di un atto di fideiussione connesso alla vicenda.
Ma, anche ipotizzando la tassazione dei due atti, la richiesta di esborso dell'Ufficio rimaneva del tutto criptica. Infatti, anche volendo aggiungere alla predetta somma di euro XX.XXX,XX, un ulteriore importo, determinato dalla tassazione – nella misura del 0,5% – della somma garantita, risultava un’ulteriore richiesta per euro X.XXX,XX[2].
Un importo pari a XX.XXX,XX euro, somma dunque ben lontana dall’importo, quasi triplo, intimato in pagamento dall’Ufficio[3].
Veniva pertanto proposto ricorso avverso il sopra menzionato avviso di liquidazione, che all’evidenza non offriva indicazioni idonee a ricostruire puntualmente i calcoli dell’Ufficio, non curandosi di indicare né quali atti fossero stati considerati, né quali basi imponibili fossero state ritenute sottoponibili ad imposizione, né quali aliquote fossero state applicate.
Orbene, solo con la costituzione in primo grado dell’Agenzia delle Entrate, si scopriva che la Direzione aveva sottoposto a tassazione ben quattro diversi atti.
Solo con tale deposito emergeva altresì che parte delle pretese si basava sulla tassazione di atti in realtà inesistenti, e altra parte si basava sull'erronea applicazione di una tassazione proporzionale su atti soggetti ad imposta in misura fissa (cfr. postea).
La sentenza di primo grado, verificato il lampante deficit motivazionale, preso atto che la motivazione della pretesa deve confluire nell’atto e che l’assenza motivazionale non può essere colmata solamente nel corso della successiva – eventuale – fase impugnatoria, ha annullato l’avviso di liquidazione.
Il tutto con motivazione corretta ed esaustiva, così formulata: ”Il ricorso è fondato e come tale va accolto. Risulta invero evidente dall’avviso opposto che, in aperta violazione dello Statuto del contribuente (art. 7), in esso non sono indicati né la base imponibile né i calcoli mediante i quali si è pervenuti alla definizione della pretesa, che sono stati evidenziati tardivamente solo nella difesa postuma della resistente Agenzia, ma che appunto per questo non hanno consentito all’opponente di svolgere sin dall’atto introduttivo un’efficace e dettagliata difesa”.
Non si può che censurare il modus operandi dell’Ufficio che propone un appello infondato e temerario, in un caso in cui la carenza motivazionale è così lampante come nell’ipotesi in discussione.
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1 - Sulla correttezza della sentenza di prime cure – infondatezza e temerarietà dell’atto di appello dell’Ufficio.
L’Ufficio oggi sostiene che la stringata e stereotipata formula di cui all’avviso di liquidazione era, di per sé, più che sufficiente per comprendere nell’an e nel quantum la pretesa avanzata.
Riportiamo dunque integralmente la parte motivazionale dell’avviso: “Imposta principale di registro per atti giudiziari (D.P.R. 131/96) Decreto n. XXX/XX Rep. n. XXX/XX Ingiunto: XXX. Atto contenente enunciazione di scritture private non registrate (artt. 5 e 22 D.p.r. 131/1986). Consegue l'applicazione delle sanzioni ex art. 69 D.p.r. 131/86 e art. 25 D.p.r. 642/72. Viene applicata la definizione agevolata delle sanzioni, pari a 1/3 del 200% (art. 17 D.lgs. 472/97) per il pagamento nei 60 gg, per pagamenti oltre tale termine la sanzione per la mancata registrazione delle scritture private, da imputare al codice 617T, sarà pari a € XXX,XX”.
Come visto non sono né allegati[4] né anche solamente indicati gli atti in virtù dei quali si è effettuata la liquidazione (da nessuna parte viene segnalato che l’Ufficio per addivenire a tale esosa liquidazione ha sottoposto a tassazione ben quattro diversi, presunti, atti).
Parimenti, non sono indicati in alcuna misura i valori e/o gli importi costituenti, ad avviso dell’Ufficio, base imponibile[5] della predetta liquidazione.
Ed ancora, nessuna delle aliquote[6] applicate – peraltro differenti in ragione dell’atto considerato - è stata indicata dall’Ufficio.
Nonostante ciò, l’Ufficio ritiene che quanto indicato sia sufficiente per comprendere nell’an e nel quantum la pretesa.
Senonché, quando all’interno delle controdeduzioni e dello stesso atto di appello, l’Agenzia delle Entrate motiva nell’an e nel quantum la propria pretesa, in tale sede, guarda caso, sente ella stessa l’esigenza di operare una distinzione tra i quattro diversi atti, indicando per ciascuno di tali atti le basi imponibili considerate, differenziando, per ciascuno di tali atti, le aliquote applicate.
A ben vedere è quindi lo stesso Ufficio a riconoscere che per ricostruire tale pretesa, in un caso come quello in discussione, in cui si discorre di molteplici atti, ciascuno con una propria base imponibile e ciascuno soggetto ad aliquote diverse, tali indicazioni sono indispensabili.
È quindi corretta la sentenza di primo grado che ha annullato un avviso di liquidazione chiaramente monco dal punto di vista motivazionale.
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L'esame dell'avviso di liquidazione come visto precludeva alla contribuente qualsiasi tipo di verifica sulla correttezza dell'operato dell'Ufficio e gli importi erano troppo alti per essere giustificati unicamente dall'ingiunzione di pagamento; infatti, anche a farsi parte diligente e ricercare nei testi di legge l'aliquota da applicare all'ingiunzione di pagamento[7], il conteggio non risultava corretto, equivalendo a quasi il 10% (e non al 3%) dell'importo intimato (peraltro dal debitore mai pagato neanche a seguito del decreto).
Ma la funzione della motivazione, per costante giurisprudenza, non è forse proprio quella di dare al contribuente la possibilità di comprendere se le richieste dell'Ufficio sono corrette nell'an e nel quantum?
Ci si trovava di fronte ad un atto che nulla indicava, se non richiamare il decreto ingiuntivo (che mai veniva allegato).[8]
In sostanza si chiedeva alla contribuente semplicemente di “fidarsi” dei calcoli dell'Ufficio e pagare, senza concedere alla stessa il diritto di verificare la correttezza degli stessi.
Ma così altro non si faceva che rinnegare l'obbligo di motivazione.
Altro non si faceva che affermare che l'Agenzia può formare avvisi di liquidazione senza motivarli; affermare che tale atti non necessitano di motivazione.
Ed è proprio questo che sembra sostenere l’Ufficio nell’atto di appello.
Ma in punto di diritto ciò non è corretto: anche tali atti per il Legislatore e per la giurisprudenza (cfr. postea) devono essere motivati, e ciò proprio per garantire al contribuente quantomeno un minimo, embrionale, diritto di difesa.
Il modus operandi dell'Ufficio, che ha costretto la contribuente a ricorrere per vedere spiegate solo in corso del giudizio le ragioni (peraltro errate) alla base dell'avviso, semplicemente è contrario a diritto; ragioni che non erano neanche in alcun modo condivisibili, posto che proprio con la costituzione in giudizio dell’Ufficio (visto che solo con questa sono stati spiegati i conteggi) è emerso come larga parte delle pretese si riferivano per di più ad atti che in realtà semplicemente non esistono e si era errato, addirittura, per come si vedrà, nell'applicazione delle aliquote.
Innanzitutto, caso vuole che vi fosse un giudizio (iscritto al numero di R.G. XXX presso la stessa CTP di Milano)[9] avverso l'avviso di liquidazione notificato ad un secondo creditore (che propose distinto ricorso per decreto ingiuntivo), anch’esso non a caso annullato con sent. n. 9994/43/2015, all'interno del quale l'Agenzia stessa si costituiva e spiegava come in realtà parte delle richieste si fondasse su atti che, a ben vedere, non esistono e tali richieste altro non sono che frutto dell'interpretazione di espressioni utilizzate all'interno del ricorso per decreto ingiuntivo dall'allora avvocato della signora XXX (documento n. X del fascicolo di primo grado; id est estratto controdeduzioni depositate dall'Ufficio nella causa iscritta al n. di R.G. XXX e definita con sent. n. XXX).
In particolare, l'Ufficio, aveva applicato un’ulteriore percentuale (e demandato conseguenti imposte) su presunti contratti di finanziamento, ricavati facendo leva su generiche espressioni utilizzate dall'avvocato che aveva redatto il ricorso per decreto ingiuntivo, all'interno del quale non si poteva parlare di contratti o scritture private di finanziamento perché questi ultimi – semplicemente – non risultato esser stati conclusi.
In altri termini, l'Ufficio utilizzava tali espressioni generiche senza peraltro allegare né il ricorso per decreto ingiuntivo né il decreto ingiuntivo[10]. Se fosse stato allegato tale ricorso evidentemente si sarebbe potuto immediatamente verificare come allo stesso non fosse allegata alcuna scrittura privata di finanziamento, e ciò all'evidenza perché la stessa non esiste.
Ancora, si è appreso in primo grado, solamente dalla lettura delle controdeduzioni, che non solo è avvenuta la tassazione di atti inesistenti, ma addirittura, in relazioni ad una presunta ricognizione di debito, è stata applicata l'imposta in misura proporzionale e non quella in misura fissa, e ciò in diretta violazione di principi stabiliti dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 13506/2014 e n. 13776/2014).
Infatti, come acutamente osservato in precedenti pronunce, tra cui Cass. n. 2104/2012, in tale caso l'assoggettamento ad imposta in misura fissa è naturale stante l'assenza di contenuto patrimoniale della mera conferma di un debito che trova fonte in altro ambito nonché la concomitante mancanza di effetti aventi natura dichiarativa (in via incidentale, Cass. n. 1132/2009), per il fatto di non modificare la situazione preesistente in alcun modo sostanziale. In pratica, come emerge da costante giurisprudenza di legittimità (tra le più recenti, Cass. nn. 13506 e 13776/2014), avendo la ricognizione un valore di natura eminentemente processuale quale dichiarazione di scienza (in quanto consente una inversione dell'onere della prova, più o meno forte in funzione della tipizzazione e individuazione della fonte – c.d. “titolazione” - che ha dato origine al debito riconosciuto) non vi è alcuna manifestazione di capacità contributiva da assoggettare ad imposta in misura proporzionale.
Quindi emerge lampante che, in parte si è proceduto a tassare atti inesistenti, in parte si è errato nell'applicazione delle aliquote e nello stesso assoggettamento ad imposta di tali atti.
Tutto ciò è emerso solo nel corso del giudizio di primo grado.
Dunque non è revocabile in dubbio l’inesistenza di una motivazione sufficiente a giustificare l’atto, che - se fosse stato esplicitato il conteggio eseguito - avrebbe permesso di valutare tali elementi sin dalla notifica dell’avviso.
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In ogni caso ciò che si è sempre contestato maggiormente è che doveva essere concessa alla contribuente la possibilità di effettuare simili valutazioni non certo in vista dell'udienza di trattazione del giudizio di primo grado, a seguito della lettura delle controdeduzioni, ma al momento della notifica dell'atto[11].
Sarebbe stato forse così oneroso per l'Ufficio offrire tali giustificazioni in sede di redazione della motivazione dell'avviso di liquidazione ed ivi indicare quali atti (o presunti atti, per come visto) stava considerando, quali importi e quali aliquote?
Questo era d'altronde lo sforzo minimo che sarebbe stato richiesto all'Ufficio.
Quest'ultimo, seppure evidentemente in possesso del ricorso per decreto ingiuntivo (avendo lo stesso operato presunzioni che prendono le mosse unicamente da espressioni generiche adoperate dall'allora difensore), ne omise finanche l'allegazione.
E dal canto suo, la difesa non poteva che censurare la mancata ottemperanza di questi pur minimi obblighi motivazionali, che è la legge a stabilire.
Obblighi dall'Ufficio semplicemente non rispettati e disattesi, ed è perciò che risultava più che giustificata la dichiarazione di nullità dell'avviso di liquidazione per omessa motivazione, operata per effetto dell’ineccepibile sentenza di prime cure.
E non vi è un solo, pur minimo, dubbio sul fatto che il diritto e la giurisprudenza siano tutte dalla parte della contribuente e non certamente dell'Ufficio.
È la giurisprudenza che stabilisce che: “L’avviso di liquidazione con cui l’ufficio impositore determini l’imposta di registro relativa alla registrazione di una sentenza, non è correttamente motivato, ai sensi dell’art. 7 legge n. 212/2000, ove si limiti ad indicare gli estremi dell’atto sottoposto a registrazione e la somma da pagare, essendo a tal fine necessaria l’indicazione di tutte quelle informazioni tali da garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio del diritto di difesa” (così Cass. n. 9299 del 2013).
Ed ancora, proprio in riferimento ad un avviso di liquidazione, è la Suprema Corte a ribadire che l'obbligo di motivazione di tale avviso "persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l'opportunità di esperire l'impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l'an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa" (cfr. Cass. n. 21564 del 2013).
E nel caso di specie non vi sono dubbi sul fatto che l'atto non contenga una motivazione idonea a consentire alla contribuente di verificare precisamente la correttezza, nell'an e nel quantum, della pretesa avanzata dall'Ufficio.
Per di più, una volta esaminata la tardiva quantificazione delle pretese, così come operata dall'Ufficio, anche quest'ultima si è mostrata erronea; dato che l'Agenzia ha sottoposto a tassazione atti che, a ben leggere le giustificazioni addotte dallo stesso Ufficio, semplicemente non risultano esistenti. Ed ancora, anche la tassazione proporzionale e non fissa, applicata ad uno dei presunti atti si è mostrata errata.
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Ancora, la carenza motivazionale dell'atto impugnato (e la conseguente nullità dello stesso) emerge anche sotto un ulteriore correlato profilo, anche questo già denunciato in primo grado.
Ai fini della dichiarazione di nullità dell’avviso di liquidazione, sarebbe infatti stata sufficiente la verifica dell'omessa allegazione allo stesso del decreto ingiuntivo (CTP Milano sent. n. 3485 del 14 aprile 2015). Tale obbligo di allegazione è infatti imposto, anch’esso a pena di nullità, dall'art. 7 della legge n. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente).
Leggiamo infatti in giurisprudenza: “E' radicalmente nullo per difetto di motivazione, in violazione dello statuto dei diritti del contribuente, l'avviso di liquidazione al quale non è stato allegato il decreto ingiuntivo di cui l'amministrazione finanziaria ridetermina l'imposta di registro in quanto così facendo al contribuente non è dato di comprendere il motivo delle pretese del fisco, il fine precipuo della motivazione è, per l'appunto, quello di salvaguardare il diritto di difesa del contribuente ed è inteso a garantire una corretta dialettica tra l'amministrazione finanziaria ed il contribuente stesso nel processo” (cfr. documento n. X del fascicolo di primo grado, sent. n. 3485 del 14 aprile 2015).
Si noti, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità si pone del tutto in linea con quanto esposto da questa difesa: “In tema di imposta di registro, l'avviso di liquidazione emesso ex art. 54, comma 5, del d.P.R. n. 131 del 1986 che indichi soltanto la data e il numero della sentenza civile oggetto della registrazione, senza allegarla, è illegittimo, per difetto di motivazione, in quanto l'obbligo di allegazione, previsto dall'art. 7 della legge n. 212 del 2000, mira a garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio delle sue facoltà difensive, laddove, in mancanza, egli sarebbe costretto ad una attività di ricerca, che comprimerebbe illegittimamente il termine a sua disposizione per impugnare (cfr. Cass. n. 18532/2010).
Principio, da ultimo, ribadito dalla Suprema Corte con sentenza n. 9299 del 2013, secondo cui “L’avviso di liquidazione con cui l’ufficio impositore determini l’imposta di registro relativa alla registrazione di una sentenza, non e’ correttamente motivato, ai sensi dell’art. 7 legge n. 212/2000, ove si limiti ad indicare gli estremi dell’atto sottoposto a registrazione e la somma da pagare, essendo a tal fine necessaria l’indicazione di tutte quelle informazioni tali da garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio del diritto di difesa”.
Si ribadisce ancora una volta, quindi, l’assorbito motivo di nullità insanabile dell'atto per omessa allegazione del decreto ingiuntivo e del ricorso per decreto ingiuntivo, che inficia anch’esso la completezza della motivazione.
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Dunque, nullità dell'avviso per omessa allegazione degli atti alla base della liquidazione dell'Ufficio, ma anche nullità per assenza “di tutte quelle informazioni tali da garantire alla contribuente il pieno ed immediato esercizio del diritto di difesa” (Cass. n. 9299 del 2013).
Infatti, dalla lettura dell'avviso non è possibile evincere:
- quali atti siano stati considerati dall'Ufficio ai fini della liquidazione;
- quale o quali importi l'Agenzia abbia assunto a base imponibile dell'imposta;
- quale aliquota sia stata applicata in concreto dagli organi accertatori.
E queste ultime sono senz’altro informazioni necessarie a “garantire alla contribuente il pieno ed immediato esercizio del diritto di difesa”.
Alla contribuente, in altri termini, fu notificata un'ingente richiesta di esborso che si mostrava del tutto oscura.
Ove l'avviso di liquidazione fosse stato formato in ossequio alle disposizioni di legge così come interpretate dalla Suprema Corte, lo stesso: - avrebbe contenuto, in allegato, l'atto e/o gli atti su cui risulta assisa la liquidazione dell'imposta; - avrebbe indicato la base imponibile e/o le basi imponibili tenute in considerazione dall'Ufficio; - avrebbe indicato le aliquote applicate dall'Agenzia delle Entrate.
Invece, nel caso di cui trattasi, al contribuente è stata preclusa qualsiasi possibilità di verificare la correttezza della richiesta di esborso dell'Ufficio, verifica che – per consolidata giurisprudenza – deve essere possibile dalla lettura dell'atto impositivo.
La motivazione, d'altronde, ha proprio lo scopo di fornire al contribuente la possibilità di effettuare una simile valutazione.
Ciò è stato più volte riconosciuto dalla Corte di Cassazione, che non ha mancato di dichiarare nulli e illegittimi atti impositivi non dotati di esaustiva motivazione in grado di offrire al contribuente la possibilità di ricostruire l’operato dell’Ufficio. Trattasi di un onere peraltro indispensabile, come affermato dai giudici di legittimità, proprio per tutelare il diritto di difesa[12].
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Pertanto, a parere della Suprema Corte, la motivazione dell’avviso di liquidazione deve consentire al contribuente, a pena di nullità, di conoscere in modo compiuto e intellegibile la pretesa impositiva e, dall'esposizione che precede, è evidente che, nel caso de quo, tale possibilità fu preclusa alla signora XXX.
Non si comprende dunque di cosa possa dolersi l’Ufficio, a fronte di una sentenza giuridicamente ineccepibile, congrua e massimamente equa, come quella di cui discutiamo.”
[1] La vittoria processuale non si era infatti tradotta in alcun modo nel soddisfacimento del credito vantato, stante la situazione di insolvenza del debitore.
[2] Che, si noti, non era detto fossero dovuti in base alle circostanze del caso di specie.
[3] Ed ancora, ragionando per ipotesi, ci si era chiesti se l'Ufficio non avesse richiesto il doppio di tale somma, posto che l'Autorità Giudiziaria ha condannato al pagamento tanto il debitore principale che il fideiussore. In tal caso, tuttavia, da un lato, non coincidevano gli importi, e dall'altro, la richiesta si mostrava contraria a principi più volte affermati in giurisprudenza. La Suprema Corte (ex multis, con ord. 3501 dell’11 febbraio 2011; principio già espresso ex pluribus da Cass. nn. 2696/2003, 3572/1998 e 9007/1992), aveva ribadito che: “ai fini dell’imposta di registro, il decreto ingiuntivo che condanni sia il debitore principale che il fideiussore al pagamento di una determinata somma non è soggetto a duplice tassazione in relazione alla duplicità delle condanne, avendo il decreto un unico effetto giuridico consistente nella condanna di più soggetti in via alternativa al pagamento della stessa somma”.
Pertanto, i decreti ingiuntivi con ingiunzione di pagamento sia nei confronti del debitore principale sia nei confronti del fideiussore, ai fini dell’imposta di registro, non sono soggetti ad una duplice tassazione, in relazione alla duplicità delle condanne, avendo i decreti un unico effetto giuridico, consistente nella condanna di più soggetti alla stessa somma.
Insomma, nel caso di specie, erano numerosi gli elementi che dimostravano la presenza di un'assoluta carenza motivazionale, con conseguente irreparabile compressione del diritto di difesa della contribuente.
Un modus operandi illegittimo, che incide sulla validità dell'avviso di liquidazione, il quale risultava formato in insanabile contrasto: - con l'articolo 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241, che testualmente recita: “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato(…). La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; - con l'art. 7 della Legge 27 luglio 2000, n.212 (c.d. Statuto del contribuente) che specifica ed amplia, in ambito tributario, gli obblighi imposti, a pena di nullità, all'Amministrazione, dal citato art. 3 L. 241/1990; disposizione che, in particolare, oltre ad aver ribadito il generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi, ha introdotto il divieto, in capo all’Amministrazione Finanziaria, di motivare l’atto impositivo per relationem.
[4] Peraltro, buona parte della giurisprudenza (ex pluribus CTP Milano sent. n. 3485 del 14 aprile 2015, documento n. X del fascicolo di primo grado), in casi identici a quello in discussione, ha ritenuto che, di per sé, anche solamente l’omessa allegazione del decreto ingiuntivo, omissione che certamente rende più difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa, costituisca autonomo motivo di nullità dell’avviso di liquidazione.
[5] Anche solo tale omissione, come precisato da questa stessa CTR di Milano (sent. n. 160/2013), in un caso secondo diversi profili analogo, costituisce autonomo motivo di nullità nell'atto, tanto più in casi – come quello di cui trattasi – in cui la stessa non sia di semplice ed immediata verificabilità, come quando si discorra di molteplici atti sottoposti a tassazione in via cumulata.
[6] Mancava completamente l'indicazione delle aliquote applicate. Come poteva la contribuente verificare se – magari per negligenza o un errore materiale – non fosse stata applicata un'aliquota superiore a quella prevista per legge? Insomma, non vi è dubbio che la contribuente si era trovata privata di qualsiasi possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, in una maniera piena ed effettiva e, quindi, che la motivazione dell'avviso annullato in prime cure non fosse idonea a svolgere la propria funzione.
[7] Nel caso de quo, peraltro, certamente non si trattava solo di applicare un'aliquota alla somma intimata con il decreto ingiuntivo, come vorrebbe intendere l’Ufficio nell’atto di appello.
[8] Non erano allegati né anche solamente indicati gli ulteriori numerosi – come scoperto solo con il deposito da parte dell’Ufficio delle controdeduzioni di primo grado – atti in virtù dei quali si era effettuata la liquidazione. Non era indicato il valore e/o l'importo costituente base imponibile della predetta liquidazione. Non erano indicate le aliquote applicate.
Come avrebbe mai potuto il contribuente ricostruire l'operato dell'Ufficio?
L'avviso altro non conteneva che una formula stereotipata contenente il richiamo del decreto ingiuntivo. Che tipo di verifica poteva effettuare la destinataria dell'avviso a fronte di ciò?
[9] Le controdeduzioni depositate nel giudizio in discussione invece erano silenti in merito e facevano riferimento a finanziamenti, senza altro aggiungere.
[10] E ciò determinava di per sé la nullità dell'avviso sulla scorta di principi affermati e recentissimamente ribaditi anche dalla CTP di Milano (documento n. X del fascicolo di primo grado, sent. n. 3485 del 14 aprile 2015).
[11] Era in tale momento che doveva essere spiegato al contribuente il calcolo che portava all'ingente richiesta di imborso, gli atti presi in considerazione dall'Ufficio, peraltro erroneamente visto che uno di questi neanche esiste, quali somme venivano assunte a base imponibile e quali aliquote applicate. Erano tutti elementi ignoti al contribuente, che si ritrovava privato di qualsiasi possibilità di vagliare l'operato dell'Agenzia, individuando eventuali erroneità, errori di calcolo e quant'altro.
[12] Ex pluribus, proprio in riferimento ad un avviso di liquidazione, la Suprema Corte ha recentemente ribadito che l'obbligo di motivazione di tale avviso "persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l'opportunità di esperire l'impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l'an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa" (Cass. n. 21564 del 2013).
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