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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 3104 dell’1 febbraio 2019
Rilevato
1. che con l'impugnata sentenza, per quanto rimasto di interesse, in riforma della prima decisione, la Regionale accoglieva il ricorso promosso dal coobbligato S., rappresentante fiscale in Italia di una Società di diritto estero che aveva importato scarpe sportive di fabbricazione cinese, avverso un avviso di accertamento con il quale, a seguito di controllo «a posteriori», rettificati i valori dichiarati in dogana, venivano recuperati maggiori dazi, nonché recuperata IVA all'importazione, quest'ultima in relazione all'irregolare utilizzo del deposito fiscale ex art. 50 bis d.l. 30 agosto 1993 n. 331 conv. con modif. in I. 29 ottobre 1993 n. 427, atteso che la Società di diritto estero, sempre secondo l'ufficio, si era «fittiziamente» interposta tra l'esportatore cinese e la reale compratrice italiana;
2. che la Regionale, dopo aver accertato che a causa del «contingentamento» all'importazione di scarpe sportive «a basso contenuto tecnologico», la compratrice italiana si era illecitamente servita della interposta Società di diritto inglese per importare le scarpe cinesi, nonché per introdurle nel deposito fiscale, laddove erano state rivendute alla stessa esportatrice cinese, che le aveva poi definitivamente vendute alla compratrice italiana; accertava altresì che «l'invocata sottofatturazione da parte dell'ufficio non nasceva dalla contestazione della violazione degli articoli da 28 a 36 del codice doganale comunitario che disciplinavano la materia del valore in dogana, ma nasceva dal mero raffronto, non indicativo di per sé di alcun illecito fiscale, tra il valore della merce indicato nei documenti commerciali destinati alla compratrice italiana e quello minore dichiarato nelle bollette di importazione»; e con l'ulteriore conseguenza, sempre secondo la Regionale, che «non c'era alcuna IVA all'importazione da riscuotere, non vertendosi in fattispecie di sottofatturazione, ma di violazione di divieti economici»; e che, peraltro, «nella concreta fattispecie, l’IVA reclamata dall'ufficio era stata pagata in autofatturazione, come la legge prevedeva, al momento della estrazione della merce dal deposito fiscale» da parte della compratrice italiana, che l'aveva in effetti acquistata quando ancora era in regime di sospensione d'imposta, in quanto detenuta nel deposito IVA;
3. che l'ufficio ricorreva per quattro motivi, mentre il contribuente S. resisteva con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
Considerato:
1. che con il primo complesso motivo, formulato in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., lamentata la violazione «degli artt. da 28 a 36 del CDC, dell'art. 98 CDC», nonché dell'art. 11 d.lgs. 8 novembre 1990 n. 374, anche richiamando giurisprudenza unionale in materia di elusione fiscale, l'ufficio addebitava alla CTR di aver erroneamente «giustificato» l'illecito comportamento della compratrice italiana, rivolto ad aggirare le disposizioni comunitarie in tema di «contingentamento» all'importazione di scarpe sportive «a basso contenuto tecnologico»; un illecito comportamento dal quale erano invece conseguite, secondo l'amministrazione, sia l'evasione dei maggiori dazi, come provato dalla circostanza che la vendita finale alla compratrice italiana era stata fatta per un prezzo che era circa il doppio del valore dichiarato in dogana; sia il mancato versamento dell'IVA all'importazione, in thesi dell'amministrazione dovuta perché l'introduzione nel deposito fiscale da parte di un importatore «fittizio» doveva ritenersi irregolare, con il derivato venir meno del regime di sospensione d'imposta discendente dall'immissione in libera pratica;
1.1. che con il secondo motivo di ricorso, lamentando «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», ricordato in proposito che le scarpe sportive che erano state importate, erano state in seguito vendute alla finale compratrice italiana per un prezzo quasi doppio rispetto al valore dichiarato in dogana, l'ufficio rimproverava alla Regionale di essere «rimasta silente» con riguardo a questa circostanza;
1.2. che con il terzo motivo di ricorso, lamentando «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», ricordato in proposito che «dall'unica reale operazione di importazione» era originata, in forza della mendace dichiarazione in dogana, una «evidente sottofatturazione», l'ufficio rimproverava alla Regionale di aver in proposito «omesso di motivare», limitandosi invece a «sottolineare soltanto la illegittimità del meccanismo attuato»;
1.3. che questi primi tre motivi, da trattarsi congiuntamente, riguardando tutti il recupero dei maggiori dazi, sono da giudicarsi complessivamente infondati; 1.4. che la CTR ha in effetti semplicemente accertato «in fatto» che il prezzo di vendita finale delle scarpe cinesi, seppur quasi raddoppiato rispetto al valore dichiarato in dogana, «non era indicativo di per sé di alcun illecito fiscale»;
1.5. che, però, questo accertamento «in fatto» circa la mancanza di prova che i valori dichiarati in dogana fossero davvero inferiori a quelli reali, non può essere aggredito con il «nuovo» art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., atteso che quest'ultimo garantisce la motivazione soltanto «nel minimo costituzionale»; e considerando inoltre che la Regionale ha preso in esame sia l'aggiramento del «contingentamento» all'importazione, reputandolo sì illecito, ma ininfluente, sia il più elevato prezzo di cessione finale delle scarpe oggetto di trading, ritenendolo tuttavia irrilevante (Cass. sez. un. n. 8053 del 2014);
2. che con il quarto motivo di ricorso, formulato in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., lamentata la violazione dell'art. 50 bis d.l. n. 331 cit, oltreché «degli artt. 67-70 d.p.r. 633/72 nonché 201-202 CDC», premesso il carattere «fittizio» della “intermediazione” svolta dalla Società di diritto estero nell'operazione di importazione delle scarpe di fabbricazione cinese, dalla quale sarebbe derivata, in thesi dell'amministrazione, l'illegittima immissione in libera pratica, l'ufficio sosteneva che la Regionale era incorsa in errore, sia laddove aveva statuito che l’IVA all'importazione non era dovuta, sia laddove aveva stabilito che l'obbligazione tributaria poteva «essere compensata dall'assolvimento, mediante autofatturazione, dell'IVA interna, in considerazione della diversità tra i due tributi»;
2.1. che detto quarto motivo, assieme al primo, nella parte in cui quest'ultimo tratta il recupero dell'IVA all'importazione: 2.2. sono in primo luogo affetti da evidenti profili di inammissibilità, per difetto di specificità, laddove l'ufficio non chiarisce perché l'aggiramento del «contingentamento» sarebbe illecito, questione più che complessa, come non si è mancato di evidenziare sia dalla giurisprudenza unionale, sia da quella domestica (Corte giust. eun. 131 del 2016; Cass. sez. trib. n. 2067 del 2017); e laddove l'ufficio nemmeno spiega la ragione per cui, da tale ipotetica illegittimità dell'aggiramento del «contingentamento», sarebbe anche da farsi derivare l'illegittimità della immissione in libera pratica;
2.3. sono in secondo luogo infondati «nel merito», laddove sostengono che, successivamente all'estrazione dal deposito fiscale, l'obbligazione tributaria non poteva essere assolta con autofatturazione, mediante il meccanismo dell'inversione contabile, chiamato reverse charge; autofatturazione che è, in effetti, ormai pacificamente ammessa persino in ipotesi di cosiddetto «deposito virtuale» (Corte giust. UE sez. VI n. 272 del 2014, segnatamente nn. 29, 36 e 39; Cass. sez. VI-T n. 10911 del 2016; Cass. sez. VI-T n. 17815 del 2015); 3. che il ricorso deve essere pertanto rigettato;
4. che le spese debbono quindi seguire la soccombenza ed essere liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna l'ufficio a rimborsare le spese processuali, queste liquidate in € 3.000,00 a titolo di compenso, oltre a spese forfetarie e agli accessori di legge; ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 8 gennaio
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