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Il curatore che non presenta la dichiarazione dei redditi della società fallita non diventa responsabile solidale per la sanzione. Respinto il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate. Featured

Scritto da Avv. Federico Pau
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Estratto: secondo il ricorrente, l'inadempimento da parte del curatore fallimentare dell'obbligo ex art. 10 cit. di presentazione della dichiarazione dei redditi della società fallita relativa al periodo compreso fra l'inizio del periodo di imposta e la dichiarazione di fallimento, comporta il pagamento delle sovrattasse e delle pene pecuniarie previste per la violazioni relative all'accertamento delle imposte sui redditi contenute nel d.P.R. n. 600/73, previsto dall'art. 98, comma 6, cit. in capo al legale rappresentante della società di capitali. 5. Il motivo risulta infondato. Invero, costituisce principio consolidato quello secondo cui, «in tema di solidarietà tributaria, l'amministratore o legale rappresentante di società di capitali non è solidalmente responsabile per il pagamento di soprattasse o pene pecuniarie irrogate alla società per violazioni, ad essa direttamente imputabili, di norme relative all'accertamento delle imposte sui redditi contenute nel d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicandosi il principio di solidarietà sancito dall'art. 98, sesto comma, del d.P.R 29 settembre 1973 n. 602 alle sole sanzioni civili previste dal titolo III di quest'ultimo decreto». (Cass. Sez. 5, n. 26042 del 16/12/2016, Rv. 641950 - 01; Sez. 5, n. 22464 del 05/09/2008, Rv. 604454 - 01)”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 2404 del 29 gennaio 2019

Rilevato che

In data 23.10.1986, l'Amministrazione finanziaria notificava alla società XXX s.r.l. in fallimento, in persona del curatore dott. XXX, avviso di accertamento avente ad oggetto i maggiori redditi accertati in capo alla società (pari a L. 1.189.734.000) e, per quanto di interesse ai fini del presente ricorso, la conseguente sanzione per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'esercizio 1985, di competenza del predetto curatore fallimentare in qualità di sostituto d'imposta. Tale atto diveniva definitivo per mancata impugnazione. Di conseguenza, l'Esattoria delle II.DD. di Pordenone notificava, in data 2.6.1987, al curatore fallimentare, quale responsabile solidale, il conseguente avviso di mora per il recupero della sanzione dovuta, ex art. 98 d.p.r. n. 602/73, a seguito della predetta omissione. Il curatore impugnava detto avviso di mora avanti alla CT di I grado di Pordenone, che accoglieva il ricorso; l'appello dell'Ufficio veniva respinto dalla Commissione di II grado con pronuncia del 15.11.1989. In entrambi i casi, i giudici di merito fondavano la decisione sia sulla mancanza di documentazione contabile quale circostanza esimente dall'obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, sia sul rilievo che, in ogni caso, il curatore fallimentare, in virtù della funzione pubblica rivestita, non era qualificabile quale soggetto solidalmente responsabile per le irregolarità commesse dalla società. L'ulteriore gravame dell'Ufficio veniva accolto dalla CTC che, con sentenza del 18.5.2006, depositata il 2.6.2006, accoglieva l'appello presentato dall'Amministrazione finanziaria, ritenendo che la parte, per sollevare i suddetti motivi, avrebbe dovuto impugnare l'avviso di accertamento, nel frattempo diventato esecutivo, e non invece l'avviso di mora, impugnabile solo per vizi suoi propri. La suddetta decisione della CTC, come si legge nel ricorso, diveniva definitiva per mancata impugnazione. A seguito di ciò, il 20.9.2007, veniva notificato al XXX un nuovo avviso di mora per il recupero della predetta sanzione, pari ad € 343.001,25. Tale atto veniva nuovamente impugnato dal contribuente davanti alla CTP di Pordenone, deducendo l'inesistenza dell'atto, in quanto diretto ad un soggetto, il curatore fallimentare, estraneo all'obbligo impositivo: onde, a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza della CTC, lo stesso atto impugnato non doveva ritenersi produttivo di effetti, con conseguente obbligo del giudice di dichiararne, anche d'ufficio ed in ogni stato e grado del processo, detta inesistenza.

L'Agenzia delle Entrate si costituiva facendo rilevare, in via pregiudiziale, la violazione del ne bis in idem e la preclusione derivante dall'intervenuto giudicato; nel merito, sosteneva comunque la legittimità del recupero delle sanzioni dovute per l'omessa dichiarazione della società fallita, stante il combinato disposto dell'art. 10 del D.P.R. 600/73, che annovera espressamente il curatore fallimentare tra i soggetti obbligati a presentare la dichiarazione dei redditi, e dell'art. 98 DPR 602/73, secondo cui al pagamento delle sopratasse e delle pene pecuniarie sono obbligati in solido, con il soggetto inadempiente, coloro che ne hanno la rappresentanza. Anche Equitalia s.p.a., quale agente della riscossione che aveva emesso l'avviso di mora, si costituiva opponendosi al ricorso del contribuente e sostenendo le medesime ragioni dell'Agenzia delle Entrate. La CTP di Pordenone, con sentenza in data 20.2.2008, accogliéva il ricorso del contribuente stabilendo la non assoggettabilità del curatore alle sanzioni tributarie in oggetto, non essendo legale rappresentante né coobbligato in solido e quindi non rivestendo il ruolo di soggetto passivo del rapporto tributario facente capo alla fallita (citando Cass. n. 5777 del 28.10.1980). Nulla statuiva sull'eccezione di giudicato. La CTR del Friuli Venezia Giulia, con sentenza n. 25/07/11 del 17.1.11, dep. il 28.2.11, rigettava l'appello dell'Ufficio. La decisione riconosceva, da un lato, che il curatore non aveva impugnato l'avviso di accertamento, che non aveva proposto ricorso contro la sentenza della CTC nel primo procedimento e che quello attuale «è nient'altro che il seguito della prima ormai presuntamente definita controversia». Ciò posto, rilevava che il provvedimento impugnato era inesistente ed improduttivo di effetti in quanto diretto a persona estranea all'obbligo impositivo e, nel merito, affermava l'inapplicabilità dell'art. 98 citato al curatore fallimentare. L'Agenzia formula due motivi di ricorso. Resiste il contribuente con controricorso e con memoria, nella quale, fra l'altro, si chiede la disapplicazione del giudicato ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 1 legge 689/81, 25,11,117 Cost., 49 Carta diritti fondamentali UE e 6 e 7 CEDU.

Considerato che

1. Con il primo motivo, l'Agenzia ricorrente deduce violazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ. per avere la sentenza impugnata disatteso il principio del ne bis in idem contemplato dalle predette norme. A tale riguardo, la difesa del controricorrente ha sottolineato l'inammissibilità del motivo sotto due profili, che vanno esaminati partitamente.

1.2. Sotto il primo di essi, l'inammissibilità viene fatta derivare dalla errata qualificazione del vizio dedotto, dovendo lo stesso essere eccepito ai sensi del n. 4 dell'art. 360 cod. proc. civ. e non del n. 3 della medesima norma; impossibile sarebbe, inoltre, una eventuale riqualificazione del motivo nel senso indicato come corretto, perché manca nel suo svolgimento alcun riferimento alla "nullità della sentenza", considerato indispensabile ai fini della riqualificazione dal più recente orientamento delle Sezioni Unite (cfr. Sez. U., 24.7.2013, n. 17931, Rv.627268- 01).

1.3. Sotto il secondo profilo, si evidenzia la carenza di autosufficienza del mezzo, in quanto il motivo non riporta affatto nella sua completezza, né ritrascrive interamente, il contenuto della sentenza della CTC che rivestirebbe efficacia di cosa giudicata, rendendo così impossibile al Collegio di apprezzare oggetto e limiti oggettivi e soggettivi di tale pronuncia, passaggio fondamentale per giudicare sul motivo stesso. Né, ancora, risulta indicata la sede ove tale sentenza sia rinvenibile, mancando, quindi, i dati necessari all'individuazione della collocazione di tale atto quanto al momento ed al luogo della produzione nei gradi dei giudizi di merito. Infine, il contribuente ha evidenziato la mancata produzione, unitamente al ricorso, della sentenza della CTC divenuta irrevocabile, come previsto dall'art. 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ,

2. La tesi del controricorrente in ordine all'erronea qualificazione del vizio dedotto è infondata, posto che la violazione del giudicato, quale norma del caso concreto, può essere assimilata, ai fini che qui rilevano, alla violazione della norma generale ed astratta, essendo il giudicato "tamquam jus"; né è superfluo sottolineare che il giudicato non rileva soltanto sul piano processuale (art. 324 cod. proc. civ.) ma anche sostanziale (art. 2909 cod. civ.), onde il parametro dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. risulta appropriato. 3. Quanto al profilo attinente al richiamo, da parte del ricorso, ad una precedente decisione irrevocabile, ritiene il Collegio che, esclusa la ricorrenza di un'ipotesi di improcedibilità, il rilievo di inammissibilità sia fondato sotto un duplice aspetto.

3.1. In via preliminare, va richiamato l'insegnamento di Sez. U, n. 22726 del 03/11/2011, Rv. 619318 - 01, secondo cui «In tema di giudizio per cassazione, per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte». Nella specie, avendo l'Agenzia ricorrente domandato la trasmissione alla Corte del fascicolo d'ufficio, al quale sono allegati i fascicoli di parte (né risultando ipotesi di irrituale restituzioni del fascicolo di parte), la stessa non aveva l'onere di riprodurre il documento a pena di improcedibilità.

3.2. Resta, invece, fermo il mancato rispetto del principio di autosufficienza. In primo luogo, invero, va rilevato che il ricorso dell'Agenzia si limita ad indicare gli estremi della sentenza della CTC di cui in premessa e riporta (a pag. 9) uno stralcio della motivazione (chiaramente non riprodotta nella sua integrità, posto che il brano citato esordisce con «Sta di fatto, altresì»). Parimenti, non risultano riprodotti né lo svolgimento del processo né il dispositivo, indispensabili, fra l'altro, per comprendere quali fossero le domande del contribuente in quella sede e per verificare la loro corretta qualificazione da parte della CTC. In tale prospettiva, va rilevato che, secondo l'orientamento maturato da questa Corte, «l'interpretazione di un giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, io forza del principio di autosufficienza di questo mezzo dì impugnazione»; a tal fine occorrendo il «richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale». (cfr. Cass. Sez. Un. 27/1/2004 n.1416; Cass. 13/12/2006, n. 26627, ed in motivazione Cass. 31/7/2012 n.13658, Cass. 17/1/2017 n.995). In tale cornice ermeneutica, si è precisato (Cass. Sez. 2, n. 17576 del 13.7.2016), con riferimento ad una fattispecie in cui era invocata l'efficacia preclusiva derivante da un giudicato rappresentato da una diversa sentenza, ancorché emessa nell'ambito dello stesso giudizio, che «il principio della rilevabilità del giudicato esterno deve essere coordinato con l'onere di autosufficienza del ricorso, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve, a pena di inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest'ultimo il testo della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della stessa», derivandone, in mancanza, l'inammissibilità del motivo, con cui si denuncia la violazione dell'art. 2909 e 324 cod. proc. civ., restando precluso ogni tipo di attività nomofilattica (conf. Cass. Sez. 5, n. 2617 del 11/02/2015, Rv. 634157 - 01; Cass. Sez. 5, n. 16227 del 16/07/2014, Rv. 632127 - 01; secondo Cass. Sez. L, n. 5508/18 del 8.11.2017, la tecnica redazionale che si risolva «nella mera riproduzione solo di taluni stralci della pronuncia divenuta res iudicata, ridonda, dunque, in termini di genericità del ricorso medesimo»).

3.3. Sotto un ulteriore e convergente profilo, va rilevato che l'Agenzia ricorrente non ha provveduto ad indicare la sede ove tale sentenza sia rinvenibile: mancano, quindi, i dati necessari all'individuazione della collocazione di tale atto quanto al momento ed al luogo della produzione nei gradi dei giudizi di merito; requisito, parimenti, indispensabile ai fini dell'autosufficienza ex art.366, n. 6 cod. proc. civ. Invero, come già precisato da questa Sezione (Cass. Sez. 5, n. 23575 del 18/11/2015, Rv. 637488 - 01), «In tema di contenzioso tributario, il ricorrente, pur non essendo tenuto a produrre nuovamente i documenti, in ragione dell'indisponibilità del fascicolo di parte che resta acquisito, ai sensi dell'art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, al fascicolo d'ufficio del giudizio svoltosi dinanzi alla commissione tributaria, di cui è sufficiente la richiesta di trasmissione ex art. 369, comma 3, cod. proc. civ., deve rispettare, a pena d'inammissibilità del ricorso, il diverso onere di cui all'art. 366, n. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all'individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito». Analogamente, Cass. Sez. 1, n. 16900 del 19/08/2015, Rv. 636324 - 01 ha affermato che «ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dall'art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario specificare, in ossequio al principio di autosufficienza, la sede in cui gli atti stessi sono rinvenibili (fascicolo d'ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame. Tale principio trova applicazione anche per il caso di produzione in giudizio di un lodo arbitrale, in ragione della sua intrinseca natura di documento e in quanto l'attività degli arbitri rituali non ha efficacia negoziale, ma ha natura giurisdizionale (conf. Cass. Sez. 2, n. 12415 del 17/05/2017, Rv. 644083 - 01).». 4. Passando all'esame del secondo motivo di ricorso, lo stesso richiama la violazione degli artt. 98, comma 5 (rectius, 6), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e 10, comma 4, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ratione temporis applicabili in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in quanto, secondo il ricorrente, l'inadempimento da parte del curatore fallimentare dell'obbligo ex art. 10 cit. di presentazione della dichiarazione dei redditi della società fallita relativa al periodo compreso fra l'inizio del periodo di imposta e la dichiarazione di fallimento, comporta il pagamento delle sovrattasse e delle pene pecuniarie previste per la violazioni relative all'accertamento delle imposte sui redditi contenute nel d.P.R. n. 600/73, previsto dall'art. 98, comma 6, cit. in capo al legale rappresentante della società di capitali.

5. Il motivo risulta infondato. Invero, costituisce principio consolidato quello secondo cui, «in tema di solidarietà tributaria, l'amministratore o legale rappresentante di società di capitali non è solidalmente responsabile per il pagamento di soprattasse o pene pecuniarie irrogate alla società per violazioni, ad essa direttamente imputabili, di norme relative all'accertamento delle imposte sui redditi contenute nel d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicandosi il principio di solidarietà sancito dall'art. 98, sesto comma, del d.P.R 29 settembre 1973 n. 602 alle sole sanzioni civili previste dal titolo III di quest'ultimo decreto». (Cass. Sez. 5, n. 26042 del 16/12/2016, Rv. 641950 - 01; Sez. 5, n. 22464 del 05/09/2008, Rv. 604454 - 01). Da tale indirizzo si discosta la sola sentenza n. 27036/07, sulla scorta di argomenti, di prevalente carattere logico, che non paiono tuttavia a questo Collegio tali da determinare il superamento della maggioritaria e consolidata giurisprudenza. In particolare, come già evidenziato dalle precedenti decisioni sopra richiamate, «la sentenza da ultimo citata non sembra adeguatamente valorizzare il dato letterale desumibile, nella collocazione sistematica della norma, dall'evidente riferimento alle pene pecuniarie e sopratasse previste dal (solo) d.P.R. n. 602 del 1973, né tiene alcun conto dell'ulteriore argomento rappresentato proprio dalla successiva introduzione, nel sistema, del principio della responsabilità della persona fisica per le violazioni ad essa riferibili, di cui al citato art. 2 del d.lgs. n. 472 del 1997; introduzione dalla quale è lecito argomentare proprio la precedente insussistenza di una generalizzata responsabilità degli amministratori per gli illeciti delle persone giuridiche».

6. In conclusione, deve essere dichiarato inammissibile il primo motivo e rigettato il secondo. Segue la condanna dell'Agenzia ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in C 4.000,00, oltre 15% per spese forfettarie ed oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il primo motivo e rigetta il secondo motivo di ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in C 4.000,00, oltre 15% per spese forfettarie ed oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2018

 

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