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Analisi casi processuali. Agenzia delle Entrate rideterminava valore impianto solare. Motivi di ricorso

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In questo articolo, esaminiamo, in luogo di una sentenza, le argomentazioni processuali sviluppate dal nostro studio all’interno di un reclamo avverso un avviso di rettifica e liquidazione fondato sulla riqualificazione del valore di un impianto solare.

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“avverso l’avviso di rettifica e liquidazione indicato in epigrafe per i seguenti motivi:

1 – DIFETTO DI MOTIVAZIONE – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 7, PRIMO COMMA, DELLA LEGGE N. 212/2000 – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 51 E 52 D.P.R. N. 131/1986.

L’avviso di cui trattasi deve ritenersi insanabilmente nullo per carenza di motivazione, la quale costituisce elemento essenziale ai fini della validità dell’atto.

1.1 – Innanzitutto, nella sezione dedicata alla motivazione dell’avviso ci si limita ad affermare: “Da indagini effettuate da questo Ufficio, ai fini della determinazione del valore in comune commercio del diritto ceduto, è emerso che i prezzi di mercato, relativi a cessioni di diritti similari, sono variabili e determinati in proporzione alla redditività degli impianti, e quindi sono legati all’irraggiamento del sito dove devono essere realizzati; tenendo come misura, 1 Mw/p installato, le cifre offerte dagli investitori variano dai 300.000,00 € al nord, sino ai 450.000 € della Sicilia. Tale criterio di valutazione è tra l’altro diffusamente utilizzato dagli Uffici Tecnici Comunali al momento di stimare il valore da indicare nei bandi di gara (…)”.

Per poi richiamare una serie di atti all’interno dei quali – a parere dell’Ufficio – si sarebbero ceduti diritti di superficie su terreni di dimensioni similari a quello oggetto dell’atto concluso dalla Società, che dovrebbero supplire alla prova del maggior valore del diritto ceduto.

Orbene, come menzionato, l’Ufficio richiama non meglio precisate “indagini effettuate”. Ora, nulla è dato sapersi su quali siano tali presunte indagini, su quando le stesse siano state effettuate, né con quali modalità o con quali criteri. Con ciò il contribuente risulta privato di ogni possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, a tutela del quale è prevista la necessità della motivazione degli atti dell’Amministrazione Finanziaria.

Similmente, non è dato sapersi da quali dati o attraverso quale metodo l’Agenzia delle Entrate abbia verificato che gli investitori sono disposti ad offrire, in ipotesi similari, dai 300.000,00 € al nord sino ai 450.000 € in Sicilia.

Trattasi, invero, di asserzioni generiche, che il Contribuente, stante la mancanza di ulteriori spiegazioni dell’Ufficio, non è posto in grado di comprendere in considerazione della mancata indicazione, neanche in parte, di elementi, da cui desumere le cifre riportate nell’avviso di rettifica e liquidazione.

In realtà, le affermazioni di cui trattasi, più verosimilmente, sembrano finalizzate a offrire una “parvenza” di motivazione ad un atto impositivo, invero, basato sul richiamo di terzi atti – presunti analoghi – la cui menzione, lungi dal servire – come asserito dall’Ufficio – da “riscontro” di altri elementi, rappresenta l’unico dato considerato dai Verificatori.

In realtà, nulla è dato sapere quanto a tali atti, quanto ai diritti con gli stessi ceduti o alle disposizioni contrattuali ivi contenute, non essendo gli stessi stati allegati – in spregio del canone di cui all’art. 7, comma 1, della L. n. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del Contribuente) e dell’obbligo imposto, a pena di nullità, dall’art. 52, comma 2-bis, del D.P.R. n. 131/1986 – né l’Ufficio ha provveduto a riportarne, neppure parzialmente, il contenuto essenziale.

Il predetto avviso deve, pertanto, ritenersi insanabilmente nullo per violazione degli artt. 7, comma 1, della L. n. 212/2000 e 52, comma 2-bis, del D.P.R. n. 131/1986.

Infatti, l’art. 7, comma 1, della L. n. 212/2000 prevede che: “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione finanziaria. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.”.

Inoltre, l’art. 52, comma 2-bis, del D.P.R. 131/1986, proprio in relazione agli avvisi di rettifica e liquidazione conferma la sanzione della nullità dell’avviso di rettifica e liquidazione in caso di mancata allegazione degli atti ivi richiamati (la disposizione recita: “La motivazione dell'atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. L'accertamento è nullo se non sono osservate le disposizioni di cui al presente comma”).

Si noti, infine, che, nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate, non solamente omette l’allegazione di tali atti, ma non ne riproduce, in alcun modo, e nemmeno parzialmente o per stralci, il contenuto.

Alla luce di quanto esposto, è evidente che l’avviso di cui si discute non può che considerarsi insanabilmente nullo e improduttivo di effetti.

1.2 – Salvo quanto retro, anche qualora si ritenga osservata la modalità di rinvio attuata nell’atto impugnato, la motivazione dell’avviso di rettifica e liquidazione si paleserebbe ugualmente carente dal punto di vista funzionale, e, quindi, inidonea al proprio scopo.

Come noto, infatti, il ruolo della motivazione si individua, da un lato, nella sua essenza di rappresentazione della giustificazione del potere autoritativo esercitato nel caso concreto e, dall’altro, quale strumento di garanzia del diritto di difesa a tutela del contribuente.

In altri termini, la funzione della motivazione dell’atto impositivo si esplica nel rendere edotto il contribuente dei presupposti di fatto e di diritto sui quali la rettifica è fondata, nonché dell’iter logico-giuridico in base al quale l’Amministrazione Finanziaria è giunta all’affermazione, in via autoritativa, di una determinata pretesa impositiva.

Orbene, nel caso di cui trattasi, l’Agenzia delle Entrate, previa unilaterale selezione di alcuni atti registrati, riferiti ad operazioni intercorse tra terzi soggetti ed aventi ad oggetto distinti diritti, omettendo qualsiasi “vaglio critico”, procede ad una nuova rideterminazione del valore dei diritti ceduti trascurando di indicare gli elementi a tal fine valorizzati dall’Ufficio e l’iter logico-giuridico seguito.

Come può il contribuente dirsi posto in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa se non è reso edotto di alcuno degli elementi, considerati dall’Ufficio rilevanti nel proprio giudizio comparatistico, né, tanto meno, dei criteri seguiti al fine del calcolo di un maggior valore dei diritti ceduti?

Nel caso specifico, inoltre, il difetto motivazionale è enfatizzato in virtù dell’applicazione della metodologia di rettifica e liquidazione di cui all’art. 51 d.p.r. n. 131/1986, il cui terzo comma prevede che Per gli atti che hanno per oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari l'ufficio del registro, ai fini dell'eventuale rettifica, controlla il valore di cui al comma 1 avendo riguardo ai trasferimenti a qualsiasi titolo e alle divisioni e perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data dell'atto o a quella in cui se ne produce l'effetto traslativo o costitutivo, che abbiano avuto per oggetto gli stessi immobili o altri di analoghe caratteristiche e condizioni (…)“.

Orbene, la previsione non può che implicare il dovere dell’Amministrazione Finanziaria – che ha l’obbligo di estrinsecare in una motivazione il modus operandi seguito nel caso concreto – di indicare quali “caratteristiche e condizioni” dei diritti ceduti nei contratti richiamati permettono di ritenere gli stessi analoghi a quello di specie.

D’altronde la necessità di dar conto di tali elementi all’interno della motivazione, è confermata dallo stesso legislatore il quale, al successivo art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 131/1986 ha stabilito che l’avviso di rettifica e liquidazione “deve contenere l'indicazione (…) degli elementi di cui all'art. 51 in base ai quali è stato determinato”.

Il mero richiamo di terzi contratti, di cui nulla si indica, con ogni evidenza è assolutamente inidoneo a precostituire la motivazione dell’avviso de quo, e poiché la presenza di una motivazione idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dall’Agenzia delle Entrate costituisce una condizione essenziale di legittimità dell’avviso, la suddetta carenza non può che determinare l’invalidità dell’atto impugnato.

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In virtù di quanto esposto, non può ritenersi assolto, in alcun modo, l’obbligo richiesto dalla legge affinché l’atto impositivo trovi legittimazione giuridica, data la mancanza di uno degli elementi “essenziali” dell’atto medesimo, ossia la motivazione, sicché l’atto impugnato andrà dichiarato nullo e improduttivo di qualsiasi effetto, in quanto mancante di idonea motivazione, ovvero in quanto adottato in violazione dell’art. 7, comma 1, della L. n. 212/2000 nonché dell’art. 52, comma 2-bis, del D.P.R. 131/1986.

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2 – INFONDATEZZA, INATTENDIBILITA’ E ILLEGITTIMITA’ DELLA RETTIFICA.

2.1. Ferma restando l’assorbente eccezione di cui retro, si contesta totalmente la rettifica di valore ed il modus operandi dell’Ufficio.

Preliminarmente, al fine di fugare ogni dubbio al riguardo, è opportuno chiarire che non esiste alcun elemento che dimostri la corresponsione di maggiori somme di denaro da parte della Società in conseguenza della cessione del diritto.

L’Agenzia, dunque, stante l’assenza di comprovati maggiori flussi di denaro, asserisce che il diritto di cui trattasi ha un valore di mercato più elevato rispetto a quello risultante dall’atto.

Occorre, pertanto, verificare le modalità attraverso le quali l’Ufficio ha provveduto ad identificare il valore del diritto ceduto.

Innanzitutto, l’Agenzia delle Entrate non ha mai proceduto ad effettuare alcuna perizia o stima specifica.

Orbene, posto che – per principi consolidati in giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. n. 5645/2006) – l’Amministrazione Finanziaria, su cui ricade “l'onere di fornire la prova delle circostanze poste a fondamento della rettifica del valore dichiarato dal contribuente”, deve offrire, anche in caso di stima specifica, ulteriori “oggettivi e certi elementi di riscontro”, a maggior ragione – in assenza di qualsiasi perizia o stima specifica – deve ritenersi necessaria la dimostrazione di elementi certi, oggettivi ed inequivocabili attestanti un diverso valore del diritto ceduto; di conseguenza, l’onere gravante dall’Amministrazione Finanziaria non può considerarsi rispettato attraverso il mero richiamo di distinti atti giuridici, unilateralmente ritenuti simili, per giunta del tutto sconosciuti al contribuente.

L’omissione motivazionale e probatoria dell’Ufficio emerge, pertanto, con solare evidenza.

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2.2. Invero, l’Agenzia delle Entrate, ridetermina il valore del diritto ceduto, prescindendo dalle peculiari circostanze della fattispecie concreta, limitandosi a richiamare, del tutto acriticamente, distinti atti registrati, aventi – secondo quanto asserito, senza ulteriori spiegazioni, dall’Amministrazione Finanziaria – oggetto analogo a quello del contratto de quo.

Orbene, non è dato sapere, e, men che meno l’Amministrazione si cura di evidenziare, l’ubicazione dei terreni oggetto di tali contratti ovvero quali siano le previsioni contrattuali in essi pattuite, entrambi elementi che possono avere un peso di non poco momento sulla determinazione del prezzo del “diritto”.

Due sostanzialmente i dati offerti dall’Amministrazione Finanziaria in riferimento a tali contratti: la durata e la data.

Per come si vedrà, da questi stessi elementi si desume una ricostruzione del valore del diritto ceduto tutt’altro che imparziale e del tutto inaffidabile.

Innanzitutto, secondo quanto indicato dall’Agenzia delle Entrate, la durata dei menzionati contratti varia “da 24 a 30 anni” (mentre il contratto concluso dalla ricorrente ha durata di 25 anni).

Ora, dal punto di vista motivazionale, non è dato sapere quali e quanti di questi contratti abbiano durata trentennale e quali abbiano durata di 24 anni.

Inoltre, ci si chiede perchè “selezionare” contratti fino a 5 anni più lunghi ma solo fino ad un anno più brevi? Perchè non invece – come parrebbe più equo per addivenire ad una determinazione imparziale del “valore del diritto” – contratti da 5 anni più brevi a 5 anni più lunghi?

Forse perché il corrispettivo tende a crescere tanto maggiore è la durata? Avendo l’investitore in tal caso un arco temporale più ampio per mettere a realizzo il proprio investimento.

L’Amministrazione Finanziaria indica, inoltre, la data di conclusione dei contratti posti alla base del ragionamento comparatistico.

Orbene, con riferimento a tale elemento emerge un dato singolare: ben sei degli otto contratti indicati dall’Amministrazione Finanziaria sono stati stipulato nel corso dell’anno 2010.

Ora, perché l’Amministrazione Finanziaria ha basato la propria rettifica su contratti conclusi prevalentemente nel 2010? Perché non svolgere un’indagine avente ad oggetto negozi conclusi in prossimità della data di stipula del contratto da parte della Agri Solar Berlingo S.a.r.l.?

L’analisi dei provvedimenti di legge che hanno inciso sul mercato del fotovoltaico sembrerebbe evidenziare la ratio sottostante ad un simile modus operandi.

Infatti, a seguito dell’emanazione del D.M. 10/02/2007 (c.d. “secondo conto energia”), per effetto del sistema di incentivazione ivi previsto e largamente limitato nel corso degli anni 2011-2012, il mercato del fotovoltaico ha subito un’espansione che ha portato l’Italia a superare, con quasi dieci anni di anticipo, l’obiettivo nazionale di potenza cumulata da installare entro il 2020[1], permettendo alla stessa di posizionarsi al secondo posto nel mondo per capacità fotovoltaica totale in esercizio.

Pertanto, gli operatori del settore, nel 2010, non solamente sottostavano, per come si vedrà, a minori requisiti operativi e oneri amministrativi (che ovviamente si traducono in costi più elevati), ma potevano beneficiare di tariffe che negli anni 2011-2012 sono state incisivamente abbattute.

Il primo intervento volto a limitare l’espansione – e le possibili speculazioni – del settore è, infatti, dell’agosto 2010 (cfr. D.M. 06/08/2010).

Orbene, si evidenzia come l’assoluta maggioranza[2] degli atti citati dai Verificatori, nell’avviso di rettifica e liquidazione, sono antecedenti rispetto a tale data e si collocano nei primi sette mesi del 2010, in cui – come visto – gli operatori economici del settore sottostavano a minori oneri e costi e beneficiavano di tariffe incisivamente ridotte negli anni 2011 e 2012.

Come può essere “sfuggito” questo dato ai Verificatori nel corso delle “indagini effettuate”?

Un ulteriore riduzione dei vantaggi degli operatori del settore è stato determinato dal successivo abbattimento delle tariffe per effetto del D.M. 5/5/2011 (di attuazione del D.lgs. n. 28/2011) che ha, altresì, introdotto limiti cogenti particolarmente restrittivi per gli impianti, come quello di specie, installati su terreni agricoli, che ha disincentivato ancor di più lo sfruttamento di terreni agricoli ai fini della realizzazione di impianti fotovoltaici di dimensioni significative.

Orbene, trattandosi di provvedimenti di legge noti e di facile riscontro, delle due l’una, o l’Ufficio non ha effettuato alcuna indagine concreta, ovvero, ha proceduto a determinare il valore dei diritti ceduti cosciente dell’eccessività del valore indicato nell’avviso, calcolato prendendo quale unico punto di riferimento contratti in prevalenza conclusi in condizioni di mercato del tutto differenti.

In entrambi i casi, la rettifica si dimostra illegittima e inattendibile, e l’operato dell’Agenzia delle Entrate si palesa contrario al principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed ai principi di correttezza e buona fede che devono improntare il rapporto tra contribuente e P.A. in applicazione dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente.

In altri termini, gli elementi sopra menzionati evidenziano come l’Ufficio, lungi dal condurre un’analisi volta ad individuare il valore effettivo del diritto ceduto, abbia ricercato i contratti in cui fu previsto il corrispettivo più elevato, conclusi in tempi in cui la regolamentazione del settore – in larga parte riformata nel momento di conclusione del contratto de quo – permetteva un margine assolutamente incentivante per gli operatori, e li abbia posti a motivazione delle proprie indebite richieste di esborso.

Come si spiegherebbe altrimenti il richiamo di atti in assoluta prevalenza conclusi prima dell’inizio dei provvedimenti che hanno portato all’attuale forte limitazione degli incentivi riconosciuti agli operatori economici nel settore del fotovoltaico?

Alla luce di tutto quanto esposto, la metodologia erariale si mostra del tutto inaffidabile, oltre che palesemente contraria a qualsiasi principio di correttezza e buona fede.

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Fermi restando i vizi di cui si è detto, si rileva la presenza di elementi che dimostrano limpidamente la congruità del prezzo corrisposto dalla Società ricorrente nel caso di specie – invero sin troppo elevato.

Innanzitutto, nell’ipotesi de qua, è la stessa Società ricorrente che, come chiaramente risultante dal contratto (pag. X: documento X), ha curato, a proprie spese, la progettazione architettonica, strutturale ed elettrica dell’impianto ed è la stessa Società ricorrente che ha così formato la documentazione necessaria affinché il concedente potesse presentare richiesta di Permesso di Costruire.

L’odierna ricorrente, in altri termini, preso atto dell’esistenza di un terreno – sito nel Comune di XXX e appartenente alla categoria “XXX” – ha creato le condizioni affinché lo stesso potesse essere utilizzato al fine della realizzazione di un impianto fotovoltaico, da realizzare a cura e spese della stessa Società.

Ora, ai fini della costituzione di un diritto di superficie, su una simile area, l’importo corrisposto dalla Società ricorrente, pari ad euro 130.000,00 è più che congruo rispetto ai valori di mercato.

Infatti, perfino il valore del pieno ed esclusivo diritto di proprietà su un tale terreno è inferiore al prezzo corrisposto, dall’odierna ricorrente, per un mero diritto di godimento, limitato anche temporalmente.

Ciò, si noti, è affermato – non solamente da questa difesa ma anche – dalla stessa Pubblica Amministrazione. È infatti quest’ultima che nel determinare il valore venale (rectius: di mercato) del diritto di piena proprietà – e pertanto il valore venale di un diritto più esteso di quello, limitato, trasferito nel caso di specie – di un terreno sito nel Comune di XXX e appartenente alla categoria “XXX”, indica un valore di quasi 20.000 euro inferiore al prezzo corrisposto dalla Società ricorrente.

In particolare, l’Amministrazione Pubblica, e nello specifico la Commissione Provinciale Espropri di XXX (documento n. X), nell’individuare il valore venale del diritto di proprietà dei terreni ubicati all’interno del Comune di XXX e inseriti nella categoria “xxx”, per l’anno 2012, indica un valore pari ad euro X/mq.

Orbene, considerato che il terreno di cui si discute ha un’estensione di XXX mq, secondo i dati provenienti dalla Pubblica Amministrazione, il valore del pieno ed esclusivo diritto di proprietà sullo stesso risulterebbe pari ad euro 113.239,00[3].

Dunque, innanzitutto, è la stessa Amministrazione Pubblica che contraddice le richieste di esborso contenute nell’avviso di rettifica e liquidazione in questa sede censurato.

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Ancora, l’Agenzia delle Entrate, ad ogni evidenza, non si è curata di esaminare le previsione pattizie contenute nell’atto di costituzione del diritto di superficie.

Quest’ultimo, infatti, contiene disposizioni che – comprimendo i diritti della Società ricorrente a favore del concedente – riducono ulteriormente il valore del diritto di superficie costituito.

La parte concedente, in particolare, si è contrattualmente riservata il diritto, non solo per sé ma anche per i propri aventi causa, di utilizzare il terreno di cui trattasi, anche tramite soggetti coltivatori diretti e/o imprenditori agricoli. Non v’è chi non veda come una simile previsione riduca ulteriormente il valore del diritto trasmesso all’odierna ricorrente, che trova ulteriori limitazioni nelle previsioni pattizie.

Nello specifico, il contratto dispone espressamente  che: “XXX (pag. XXX documento XXX).

Alla luce delle concrete pattuizioni contrattuali, e della loro chiara incidenza sulla determinazione del valore del diritto, è evidente come l’Ufficio abbia proceduto a notificare l’avviso di cui trattasi, senza procedere ad analisi alcuna, e rideterminando in maniera del tutto inattendibile ed inverosimile il valore del diritto trasferito.

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In definitiva, è ictu oculi evidente l’infondatezza, inverosimiglianza, inattendibilità ed illegittimità della rettifica operata dall’Ufficio, per l’effetto, l’avviso in epigrafe non può che ritenersi nullo, annullabile e comunque privo di ogni effetto.


[1] Mentre la soglia di energia prodotta prevista, in base alla metodologia di calcolo indicata dalla direttiva 2009/28/CE, entro il 2020 è pari a 8 GW, nel 2011 l’Italia aveva già superato i 9 GW.

[2] Dei contratti citati dall’Agenzia delle Entrate, sei di questi sono stati registrati nel 2010, uno nel 2011, e un ultimo nel 2012.

[3] Si rammenta come, in caso di esproprio, sia ormai pacificamente dovuto il valore di mercato del bene (principio da ultimo ribadito da Cass. n. 893/2012) e dunque il valore indicato dalla Pubblica Amministrazione nelle richiamate tabelle deve ritenersi il valore venale del diritto di proprietà sul terreno di cui trattasi.

 

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