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Operazioni soggettivamente inesistenti: i soggetti acquirenti, che hanno acquistato per rivendere, anche se consapevoli della frode, possono dedurre i costi. Accolto il ricorso.

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Estratto: “in tema di imposte sui redditi, a norma dell'art. 14, comma 4, bis, I. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l'art. 8, comma 1, d.l. n. 16 del 2012, conv. con I. n. 44 del 2012, l'acquirente dei beni può dedurre i costi di beni o servizi, non utilizzati direttamente per commettere il reato, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nell'ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento di dette operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del TUIR approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5,

Ordinanza n. 4982 del 25 febbraio 2020

RILEVATO CHE:

La Commissione Tributaria Regionale dell'Abruzzo, con la sentenza n. 961 del 30 agosto 2012, ha respinto l'appello proposto da I. s.r.I., contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Pescara che aveva, a sua volta, rigettato il ricorso della contribuente volto ad ottenere l'annullamento dell'avviso di accertamento notificatole dall'Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione - per l'anno 2002

- dell'IVA indebitamente detratta in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti nonché dei maggiori importi da essa dovuti per IRPEF ed IRAP.

- La CTR ha ritenuto che l'amministrazione avesse pienamente fornito la prova dei fatti posti a fondamento dell'avviso, rilevando: che nel processo penale promosso per i medesimi fatti, anche se in relazione a diversi anni di imposta, il principale imputato, M.B., gestore occulto di una serie di società c.d. cartiere, aveva dichiarato che queste si interponevano fittiziamente fra l'effettivo fornitore estero delle carni ed I., non versavano l'IVA sugli acquisti formalmente loro corrisposta e dividevano poi il provento del reato con l'interponente/acquirente, cui (per il tramite di soggetti ad essa riconducibili, fra i quali il procuratore di I. D.F.) veniva

restituito circa il 60% dell'imposta evasa, in buste chiuse contenenti il denaro;

che tali dichiarazioni erano state confermate anche dagli imputati G.B.C. e L.M., bracci operativi di B. nelle truffe fiscali (i quali avevano altresì precisato che le "cartiere" venivano da questi costituite ed estinte di anno in anno, potendo essere utilizzate solo fino a quando l'Ufficio non si accorgeva dell'evasione) ed avevano trovato precisi riscontri sia documentali che logici; che la piena consapevolezza di I. dell'inesistenza soggettiva delle operazioni era provata anche dal fatto che la contribuente risultava aver acquistato le forniture, nel 2002 e nel 2003, da due diverse società coinvolte nella frode ed entrambe riconducibili a B., il quale era dunque, in sostanza, l'unico soggetto con il quale essa intratteneva rapporti;

che, alla luce di tali elementi, che dimostravano la partecipazione di I. all'illecito, era indifferente accertare chi fosse la persona fisica che si era in concreto accordata con B.;

che era, del pari, irrilevante che l'indagine penale non avesse riguardato l'annualità in contestazione, in quanto il sistema descritto era andato avanti per anni, ivi compreso il 2002.

- Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ha poi respinto in diritto il motivo col quale IL. aveva contestato di essere tenuta al pagamento delle maggiori IRPEF ed IRAP accertate, affermando che il principio invocato dall'appellante - secondo cui, nel caso di operazione soggettivamente inesistente, il costo dell'acquisto, in quanto effettivamente sopportato, va comunque riconosciuto ai fini delle imposte dirette, poiché ciò che va tassato è il reddito e non il ricavo lordo - non trova applicazione allorché l'acquisto sia frutto di un illecito penale, la cui conseguenza è, per l'appunto, la perdita del diritto alla detrazione.

- I. propone ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a cinque motivi. - L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO CHE:

- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omesso esame del fatto decisivo costituito dall'impossibilità (definita "anche ontologica") del suo coinvolgimento in una frode fiscale integrante il reato di cui all'art. 10 ter d. Igs. n. 74/2000 (commesso attraverso l'artificio - comportante anche l'imputazione per il reato di truffa aggravata di cui all'art. 640 II comma c.p. - di esporre in dichiarazione versamenti mai eseguiti) realizzata da soggetti a sé non riconducibili, atteso che l'unico reato contestato a D.F., soggetto peraltro estraneo alla sua compagine sociale, è stato quello di ricettazione; aggiunge che l'effettività degli acquisti da essa effettuati emergeva da numerosi riscontri di natura documentale (fatture emesse dal venditore estero verso l'acquirente italiana GIAL e da quest'ultima a suo carico; pagamenti da essa eseguiti tramite assegni bancari) e, soprattutto, dalla richiesta del P.M. (riportata per ampi stralci nel motivo) di applicazione della misura cautelare per i reati di cui all'art. 10 ter d. Igs. 74/2000 e 640 II comma c.p. nei soli confronti del gestore delle società fittiziamente interposte.

- Con il secondo motivo, I. lamenta, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione dell'art. 2697 c.c., anche in riferimento all'art. 116 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado ritenuto assolto l'onere probatorio a carico dell'Amministrazione finanziaria "accordando valore di prova alle dichiarazioni rese nell'ambito del procedimento penale da soggetti che risultavano indagati", benché dette dichiarazioni si palesassero inutilizzabili in quanto non rese da terzi "disinteressati".

- Con il terzo motivo, la contribuente denuncia la violazione dell'art. 116 c.p.c., per avere la CTR utilizzato "dichiarazioni rese da terze persone, che non sono state nemmeno riversate agli atti del giudizio", che "essendo semplicemente richiamate, peraltro in forma riassuntiva, nell'accertamento e nel p.v.c.", non erano idonee ad "assurgere a valore di prova, tanto meno esclusiva".

- I motivi, che si prestano ad un esame unitario in quanto contestano tutti, ancorché sotto distinti profili, il ragionamento probatorio del giudice del merito, devono essere respinti.

- Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di frode IVA per operazioni soggettivamente inesistenti la prova, che incombe sull'amministrazione, dell'interposizione fittizia del fornitore (circostanza non contestata dalla ricorrente) e della consapevolezza in capo al cessionario della simulazione della cessione può essere fornita anche per presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti), che possono derivare dalle stesse risultanze di fatto attinenti al ruolo di "cartiera" del cedente, gravando senz'altro sul contribuente, a fronte di siffatte dimostrazioni, la prova contraria (v. Cass. n. 11873 del 2018; Cass. n. 18118 del 2016; Cass. n. 25778 del 2014).

- Nel caso di specie il giudice d'appello ha indicato, con motivazione ampia ed esaustiva, gli elementi, dettagliatamente riportati nel p.v.c., in base ai quali ha ritenuto che l'Agenzia avesse pienamente adempiuto al proprio onere, valorizzando, fra l'altro, le dichiarazioni concordemente rese dagli imputati B., C.e M. - di per sé sufficienti a provare il coinvolgimento di I. nell'illecito fiscale - secondo cui il 60% circa delle somme apparentemente versate dalla società a titolo di IVA sugli acquisti le veniva restituita in denaro contante, consegnatole in busta chiusa per il tramite del procuratore Fedele o di altri soggetti ad essa riconducibili.

- Ciò premesso, va escluso che la circostanza, sottolineata a più riprese dalla ricorrente, che al Fedele non sia stato ascritto il reato di cui all'art. 10 ter d.lgs. n. 74 del 2000, ma solo quello di ricettazione,

integri il fatto decisivo omesso che, ove considerato dal giudice, avrebbe determinato un diverso esito della controversia.

- Si tratta, infatti, di circostanza del tutto irrilevante rispetto all'oggetto dell'accertamento spettante alla CTR, posto che il giudice tributario non è vincolato dalle imputazioni formulate in sede penale, ma è invece tenuto a vagliare per proprio conto - come puntualmente accaduto nel caso che occupa - se le prove acquisite nel processo penale e riportate nel p.v.c. siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell'obbligazione tributaria (Cass. n. 6918 del 2013; Cass. n. 12577 del 2000; Cass. n. 2409 del 2005). - Tanto, del resto, in virtù del principio generale secondo cui, in mancanza di un esplicito divieto di legge, il giudice del merito ben può utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o altre parti, al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass. n. 8585 del 1999), essendo sua prerogativa esclusiva l'individuazione degli elementi probatori ritenuti rilevanti ed atti a sostenere la decisione (ex plurimis, Cass., sez. un., n. 898 del 1999), purché egli illustri il procedimento di ordine logico e giuridico che lo ha condotto ad assumerla. - Dall'applicazione di tali principi discende l'infondatezza anche delle censure con le quali la ricorrente contesta l'utilizzabilità delle dichiarazioni, trasfuse nel p.v.c., rese da terzi in sede penale.

- Non depone in senso contrario la disposizione contenuta nell'art. 7, comma 4, d.Ig. 31 dicembre 1992 n. 546, secondo cui nel processo tributario "non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale", che è limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica e vale, dunque, solo per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, non anche in rapporto alle dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori, quand'anche nell'ambito di un procedimento penale, e inserite anche per riassunto - o per "stralci" - nel p.v.c., avendo esse natura di mere informazioni acquisite nell'ambito di indagini amministrative e palesandosi, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova (Cass. n. 21812 del 2018; Cass. n. 20032 del 2011).

- Con il quarto ed il quinto motivo, la ricorrente deduce violazione dell'art. 14, comma 4 bis, I. n. 537 del 1993, anche in relazione all'art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la sentenza impugnata affermato il principio dell'indetraibilità ai fini delle imposte dirette anche del costo di acquisto dei beni, sebbene effettivamente sopportato.

- I motivi, che pongono la medesima questione, devono essere accolti.

- Questa Corte ha già affermato che, in tema di imposte sui redditi, a norma dell'art. 14, comma 4, bis, I. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l'art. 8, comma 1, d.l. n. 16 del 2012, conv. con I. n. 44 del 2012, l'acquirente dei beni può dedurre i costi di beni o servizi, non utilizzati direttamente per commettere il reato, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nell'ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento dei dette operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del TUIR approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. n. 4164 del 2019; Cass. n. 27566 del 2018).

- La norma novellata, operando quale "ius superveniens", trova applicazione in tutti i casi in cui il rapporto tributario controverso non è ancora esaurito.

- Infatti, il comma 3 dello stesso art. 8 ha stabilito che le disposizioni di cui al citato comma 1 "si applicano, in luogo di quanto disposto dall'art. 14, comma 4 bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell'entrata in vigore" dello stesso comma 1, "ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi".

- Pertanto, alla luce della nuova disciplina, ai soggetti coinvolti nella frode, che usualmente non utilizzano i beni acquistati "al fine di commettere il reato", ma per porli in commercio e venderli, non è più contestabile la deducibilità dei costi, ferma restando la facoltà dell'amministrazione di fornire prova contraria, nel caso di specie, peraltro, neppure offerta.

- All'accoglimento del quarto e del quinto motivo di ricorso conseguono la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Commissione Tributaria regionale dell'Abruzzo, in diversa composizione, che, previo accertamento dell'ammontare dei costi detraibili, provvederà a rideterminare il reddito imponibile di I. per l'anno 2002 e le imposte dirette eventualmente ancora dovute dalla società e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e il quinto motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 12 marzo 2019.

 

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