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La categoria dei tassisti è costantemente sotto attacco sotto diversi fronti.
L’accusa principale sembrerebbe quella dichiarare al Fisco introiti di gran lunga inferiori rispetto ai loro reali guadagni e ciò sfruttando una prerogativa tipica della loro professione. I tassisti, infatti, non sono tenuti a rilasciare le ricevute fiscali ai clienti dopo le loro corse né ad avere i Pos all’interno del taxi per consentire i pagamenti elettronici, e quindi tracciabili, con carte di credito o bancomat.
L’utilizzo del contante ed il mancato rilascio di un documento fiscale consentirebbe, dunque, di non dichiarare al Fisco tutti i proventi derivanti dal lavoro.
Eppure, le inchieste giornalistiche affiancandosi a quelle giudiziarie sembrano prendere di mira una categoria professionale fortemente in crisi.
Ritenuti evasori seriali i tassisti, in verità, svolgono una professione dove oltre alla forte competizione dovuta agli abusivi che esercitano senza licenza ha molto risentito del recente avvento di Uber.
Ed infatti, l’utilizzo sempre più frequente di Uber nel trasporto urbano, ove gli automobilisti privati “condividono” la loro auto mettendola a disposizione dei clienti dietro il pagamento di un compenso, ha minato la categoria del taxi tradizionale, sfruttando anche le carenze normative che ancora riguardano il car sharing.
Uber, che difatti è un “servizio di noleggio con conducente”, e servizi simili a questo, applica un servizio concorrenziale rispetto alle tariffe dei taxi, usufruendo, almeno sinora, di benefici relativi al mancato possesso di una regolare licenza di trasporto pubblico come nel caso dei tassisti.
Al di là della concorrenza di operatori come Uber, inoltre, in pochi sanno che i tassisti devono affrontare un costo di avviamento iniziale oneroso per l’acquisto delle licenze oltre ad essere sottoposti a numero adempimenti ed a rigide normative, anche relativamente alle tariffe applicate.
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Su cosa si basa l’accertamento dell’Agenzia
Stando agli studi di settore un tassista dovrebbe guadagnare mediamente poco di più di mille euro netti mensili. Una cifra ritenuta irrisoria e sospettata di essere distante a quelli che sono i veri guadagni di “alcuni” tassisti che si avvicinerebbero ai quattromila euro netti mensili.
Ecco allora che l’Agenzia delle Entrate, sospettando dei maggiori ricavi ottenuti dai tassisti, procede in diverse occasioni all’accertamento delle maggiori imposte dovute dal contribuente.
In particolare, l’Agenzia fonda i suoi controlli su alcuni elementi che in alcuni casi ritiene indici di un lavoro intenso e costante e per nulla in crisi. I controlli vertono sulle ore di lavoro quotidianamente svolte, la tipologia dei servizi offerti, l’entità dei flussi turistici di una città, le tratte maggiormente frequentate, i confronti con gli altri operatori della zona, la valutazione dei prezzi medi applicati e dei tempi di percorrenza, il consumo del carburante.
Tutte queste valutazioni porterebbero, a parere degli accertatori, a stabilire in maniera quasi certa il numero di servizi offerti da un tassista e quindi a ricostruire il suo reale volume di affari.
Questi dati cozzerebbero con i redditi dichiarati dai tassisti ritenuti inadeguati e sottodimensionati rispetto alle reali esigenze della vita quotidiana. Insomma, si ritiene che con un reddito dichiarato così basso un tassista non riuscirebbe a far fronte a tutte le esigenze della vita quotidiana e quindi ad affrontare le spese per vitto, alloggio, vestiario, consumi vari.
Sulla base di questi sospetti, l’Agenzia delle Entrate presuppone che il tassista in realtà percepisca maggiori ricavi di impresa omettendo di dichiararli al Fisco.
Ad essere presi di mira, inoltre, anche le cessioni delle licenze, specie se avvenute tra familiari stretti.
Vediamo, però, che queste deduzioni e ricostruzioni possono essere contestate con ricorso da parte del tassista, contribuente.
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Quando il tassista ha ragione
Di seguito, 3 esempi di casi in cui il tassista ha vinto contro le accuse dell’Agenzia delle Entrate dopo aver proposto il ricorso.
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Sentenza del 05/10/2016 n. 5776 - Comm. Trib. Reg. per il Lazio
Con questa sentenza la Commissione tributaria laziale ha affrontato la questione relativa alla cessione della licenza amministrativa di taxi tra un padre ed un figlio avvenuta dietro pagamento de un prezzo a parere dell’Agenzia delle Entrate e quindi sottoposta ad un accertamento della plusvalenza sul valore accertato.
Il tassista che avrebbe venduto la licenza al figlio, insomma, avrebbe dovuto pagare maggiori ricavi ai fini IRPEF.
In verità, la Commissione ha ritenuto che il trasferimento della licenza tra un padre ed un figlio fa presumere che l’operazione sia avvenuta a titolo gratuito e ciò sia per il vincolo familiare esistente tra i due, sia per la mancata prova della transazione economica.
Secondo i giudici, quindi, non sarebbe stata provata alcuna plusvalenza tassabile in quanto il trasferimento della licenza del taxi non si può assimilare ad una cessione di azienda, a meno che non via sia prova contraria dall’Amministrazione Finanziaria.
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Corte di Cassazione, Sezione Civile, sentenza n. 17478 del 14 luglio 2017
Anche questo caso ha avvio dalla cessione di una licenza per l'esercizio del servizio di taxi, avvenuta secondo l’Amministrazione a titolo oneroso che comportava, quindi, un maggior reddito rideterminato in relazione alla plusvalenza della vendita.
Gli ermellini hanno dato ragione al tassista ritenendo che elementi di valutazione a cui è ricorsa l’Agenzia delle Entrate per la rideterminazione del maggior reddito erano generici e fondati su uno studio condotto dall'Università della Tuscia, attraverso questionari, attraverso cui era stato calcolato l'andamento del settore nel Comune di Roma. La Cassazione ha precisato che spetta sempre all'Agenzia provare sia l’an che il quantum della pretesa tributaria.
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Corte di Cassazione, Sezione Civile, Ordinanza n. 6493 del 6 marzo 2019
Questa pronuncia ha avuto origine da un avviso accertamento emesso nei confronti di un tassista fiorentino a fronte del suo maggior reddito accertato rispetto a quello dichiarato, a seguito della ricostruzione induttiva dei suoi ricavi.
Il tassista, in primis, lamenta la mancanza di uno studio ad hoc da parte del Comune di Firenze in grado di confermare scientificamente il valore di una corsa media di un taxi in km 3,2, dato su cui sia era stata fondata la ricostruzione induttiva dei suoi ricavi per l'anno di riferimento.
La Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente a causa delle motivazioni inidonee e contraddittorie su cui era stata fondata la sua accusa e relative all’elevata probabilità di corse "senza supplemento bagagli", al minor numero di corse con chiamata radio, soprattutto in una città come Firenze ove è facile accedere alle stazioni di servizio.
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