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FATTURE FALSE E ONERE DELLA PROVA: 3 ESEMPI DI CASI IN CUI I GIUDICI HANNO RITENUTO CHE LE PROVE INDICATE DALL'AGENZIA DELLE ENTRATE NON FOSSERO SUFFICIENTI. Featured

Scritto da Avv. Federico Pau
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L'Agenzia delle Entrate ti ha accusato di emissione ed utilizzo di fatture false oppure pensi che simili accuse possano essere mosse nei tuoi confronti in futuro? Ti sei chiesto quali prove deve avere il Fisco per accusarti? Come viene ripartito l'onere probatorio tra l'Agenzia delle Entrate e il contribuente?

In questo articolo analizzeremo 3 casi in cui i giudici hanno ritenuto che le prove indicate dall'Agenzia delle Entrate non fossero sufficienti.

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3 processi in cui i giudici hanno ritenuto che le prove fornite dall'Agenzia delle Entrate non bastassero.

1) Il primo caso è quello esemplificato dalla sentenza n. 1114/2019 con la quale la Commissione Tributaria Regionale-Campania si è pronunciata, in seguito all'ordinanza della Suprema Corte n. 13265/2017, annullando in toto ben sei avvisi di accertamento per mancanza di prova idonea a dimostrare la colpevolezza della società cessionaria, accusata di partecipazione ad una asserita frode fiscale, commessa, si contestava, unitamente alla società cedente che aveva fatturato le operazioni oggetto della contestazione.

La vicenda prendeva le mosse da un'attività investigativa posta in essere dall'Agenzia delle Entrate che aveva riscontrato come erano state contabilizzate e dichiarate delle fatture emesse per operazioni asseritamente inesistenti da parte di una società di consulenza immobiliare: l'Ufficio procedeva alla notifica di sei avvisi di accertamento con i quali si contestava un'indebita detrazione di costi riferiti ad operazioni inesistenti.

La società e i soci proponevano ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale, eccependo, fra l'altro: la nullità degli avvisi di accertamento; l'onere della prova e la validità delle presunzioni; l'assoluta illegittimità del modus operandi dell'Ufficio; la effettiva esistenza delle operazioni commerciali poste in essere, depositando come prova copia delle fatture ricevute dalla ditta nonché di copia degli avvenuti pagamenti di tali fatture; la deducibilità dei costi e la detraibilità dell'Iva a fronte di operazioni realmente poste in essere e intercorse tra emittente e percettore della fattura.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva solo parzialmente alcuni ricorsi dei ricorrenti. Avverso tale sentenza di primo grado, sia i contribuenti che l'Agenzia delle Entrate, proponevano appello. In particolare, la società e i soci, insistevano nel sostenere l'illegittimità dell'accertamento e l'inidoneità delle prove fornite dall'Ufficio a dimostrare l'inesistenza delle operazioni.

La Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello dell'Ufficio.

Tuttavia, i ricorrenti, forti delle loro motivazioni, proponevano ricorso in Cassazione eccependo in particolare: la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, 1 comma, n. 3), c.p.c., denunciando come la CTR invero fosse incorsa nel vizio di ultrapetizione per aver erroneamente considerato  le operazioni commerciali in contestazione oggettivamente  inesistenti, laddove, invece, l'Ufficio aveva nei suoi precedenti atti difensivi sempre ristretto la contestazione al campo delle operazioni soggettivamente inesistenti; la violazione e falsa applicazione degli art. 2697 c.c., 112 c.p.c. nonché dell'art. 7 del D. lgs. 546/1992 in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.  denunciando che la CTR aveva considerato sufficientemente motivato l'atto impositivo e sopperendo alle carenze di prove fornite dall'Ufficio.

La Corte di Cassazione con ordinanza 13265/2017, ritenendo che i Giudici di secondo grado erano incorsi nel vizio di ultrapetizione accoglieva il primo e il terzo motivo del ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Commissione Tributaria Regionale per un nuovo esame.

Così, la Commissione Tributaria Regionale-Campania con sentenza 1114/2019 annullava totalmente i sei avvisi di accertamento impugnati.

I giudici campani, sul punto, hanno ritenuto condivisibile “l'orientamento generale secondo il quale l'imprenditore commerciale non può rispondere della eventuale natura fraudolenta delle operazioni, occorrendo la dimostrazione della piena conoscenza e della partecipazione alla frode fiscale o dell'accordo simulatorio” con la società cedente.

In poche parole, i giudici, in questo caso (ma di tenore analogo troviamo molte recenti pronunce della Corte di Cassazione), hanno enfatizzato come spetti all'Amministrazione Finanziaria provare che il contribuente, al momento dell'acquisto del bene o del servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere che il soggetto formalmente cedente operava secondo i meccanismi tipici delle frodi carosello.

2)  Il secondo esempio ci è fornito dalla Corte di Cassazione, Sezione Quinta, con sentenza n. 13924/2018. La sentenza si è pronunciata sul ricorso proposto dall'Agenzia delle Entrate deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 19, 54, 56 del D.P.R.  633/1972 e dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. nonché l'insufficienza e la contradditorietà della motivazione proposta dei giudici di secondo grado. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato l'Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese processuali motivando come “Qualora l'Amministrazione Finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture ai fini Iva e di imposte dirette, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all'Ufficio fornire la prova che l'operazione commerciale, oggetto della fattura non è mai stata posta in essere, ovvero non è stata posta in essere tra i soggetti  indicati nella fattura”.

3) Il terzo esempio è fornito (dalla sentenza della Commissione Tributaria di Modena n. 61/2010 confermata da sentenza della Commissione Tributaria Regionale n. 14/2011 di Bologna) che si è pronunciata sul ricorso di una società destinataria di un avviso di accertamento che contestava, anche ai fini dell'imputazione ai soci, il reddito percepito nell'anno XXX e l'Iva detratta nel medesimo anno d'imposta per cinque fatture ricevute dalla ditta XXX. La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso con sentenza confermata dalla Commissione Tributaria Regionale di Bologna motivando come l'Agenzia delle Entrate non avesse fornito alcuna prova circa il fatto che le fatture emesse dalla società XXX ed intestate alla società ricorrente fossero relative ad operazioni inesistenti. Infatti, “L'Ufficio avrebbe dovuto provare a mezzo di indagini bancarie che le somme corrisposte dalla ricorrente XX in relazione alle fatture regolarmente annotate nella contabilità erano state a questa restituite. Dunque non esistevano presunzioni gravi, precise e concordanti a carico della ricorrente XX ma solo presunzioni a carico della XXXX sicché il contribuente non era gravato dell'onere della prova dell'effettività delle operazioni”. Avverso tale sentenza, l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, rigettato con sentenza n. 15862/18 in quanto la “Commissione Tributaria Regionale ha fatto corretta applicazione delle norme e dei principi (…) poiché ha ritenuto (…) che l'accertamento dell'amministrazione non era basato su presunzioni gravi, precise e concordanti che rivelassero l'annotazione di fatture per operazioni inesistenti”.

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Questi sono solo alcuni esempi di processi conclusi a favore del contribuente perché i giudici hanno ritenuto insufficienti le prove presentate dall'Agenzia delle Entrate, tuttavia l'elenco non è per niente esaustivo e le variabili da considerare sono molte di più. Per approfondire puoi ricercare tra le tante sentenze e ricorsi pubblicati sul nostro sito o chiedere l'intervento di un avvocato tributarista esperto proprio in questi temi per trovare la soluzione migliore possibile in relazione al tuo personale caso.

 

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