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“Come già menzionato in sede di ricorso, con l'avviso oggi impugnato l'Ufficio ha richiesto al contribuente il pagamento di circa 75.000,00 euro.
Tale pretesa si trova interamente assisa su un dato erroneo, non corrispondente a verità. Secondo i verificatori, infatti, il ricorrente eserciterebbe la propria attività “in un ambulatorio veterinario dove la degenza degli animali, per legge, non può essere superiore a quella giornaliera” (così leggiamo a pagina X dell'avviso di accertamento: allegato n. 1 del ricorso introduttivo), pertanto, i costi dei mangimi per animali dedotti dal contribuente sarebbero troppo elevati proprio in quanto “rapportati alla struttura sanitaria che non prevede una degenza degli animali superiore alla giornata” (cfr. pag. X dell'avviso di accertamento: allegato n. X del ricorso introduttivo).
Su tale dato erroneo i verificatori basano la propria ricostruzione: se la degenza non poteva essere superiore a quella giornaliera, a parere dell'Ufficio, i mangimi erano acquistati dall'odierno ricorrente per essere rivenduti, e quindi lo stesso svolgeva in via parallela “un'attività commerciale di vendita al pubblico di alimenti per animali ed accessori vari” (cfr. pag. X dell'avviso di accertamento: allegato n. X del ricorso introduttivo).
Ricapitolando, secondo la Direzione Provinciale di Pavia: la struttura del ricorrente sarebbe un ambulatorio veterinario, in quanto tale la degenza degli animali non può essere superiore a quella giornaliera, pertanto la quantità di mangimi acquistati risulterebbe troppo elevata se rapportata a questa tipologia di struttura, dunque, il ricorrente avrebbe svolto una parallela attività di vendita di mangimi, e nell'anno di cui trattasi avrebbe venduto la totalità dei mangimi acquistati, applicando sugli stessi la percentuale di ricarica ipotizzata dall'Ufficio, e conseguendo quindi redditi sottratti ad imposizione.
Dunque, ad avviso dei verificatori, nel corso della degenza, gli animali presenti nella struttura non sarebbero stati nutriti, in quanto in realtà l'intero quantitativo di mangime acquistato sarebbe stato destinato alla cessione al pubblico. Parimenti secondo tale assioma mai una volta parte del mangime si sarebbe deteriorato, e mai un solo granello sarebbe andato perduto negli spostamenti.
Questo fantomatico negozio di mangimi, immaginato dai verificatori, pur non potendo pubblicizzarsi e neanche appendere un'insegna, avrebbe operato in maniera estremamente efficiente: non solo infatti avrebbe venduto il 100% della merce acquistata (a scapito degli animali della clinica, mai nutriti secondo l'assioma erariale), ma addirittura, da solo, avrebbe generato circa 60.000,00 euro di incassi, pressoché superando i ricavi dei veri e propri negozi di rivendita di mangimi situati in zone ben più centrali.
Al pari, in conformità al teorema erariale, il XXX – all'evidenza – si sarebbe limitato a visitare l'animale, spesso condotto in clinica proprio per problemi alimentari, per poi dimetterlo immediatamente senza nutrirlo né dare al padrone i primi alimenti con cui nutrire l'animale la sera onde evitare un aggravarsi delle condizioni del medesimo.
Senonché non ci si spiega allora perché le stesse ricevute, su cui il contribuente ha calcolato e versato le imposte, indichino che il pagamento era dipeso proprio dalla dieta somministrata all'animale (all. X del ricorso di primo grado).
Il predetto teorema erariale, come visto, si basa unicamente su un dato: a parere dei verificatori il mangime acquistato dal contribuente non poteva che essere destinato alla vendita posto che la struttura in cui il dottore operava sarebbe stato un ambulatorio veterinario, che, in quanto tale, non avrebbe potuto ospitare gli animali per la degenza.
In realtà, tale dato di partenza – posto a fondamento dell'intera ricostruzione dell'Agenzia – era ed è errato.
Non è infatti vero che il contribuente operava in un ambulatorio veterinario.
La struttura in cui operava il dottor XXX era ed è una Clinica Veterinaria con numerose gabbie, e non un ambulatorio, e perciò la degenza ben poteva prolungarsi oltre la giornata.
E ciò è stata dimostrato già in sede di ricorso depositando l'autorizzazione rilasciata nel XXX al Dott. XXX dall'ASL di XXX (all. X al ricorso introduttivo), con cui si autorizza il contribuente ad “attivare e mantenere in esercizio la Clinica Veterinaria sita in XXX”).
Venuto meno il presupposto alla base dell'accertamento, l'intero teorema erariale è venuto meno.
Oggi, all'interno delle controdeduzioni (cfr. pag. X), l'Ufficio ci spiega la ragione alla base dell'errore: l'Ufficio afferma di aver tratto l'informazione da un'errata indicazione contenuta negli studi di settore del contribuente.
Ora, una giustificazione siffatta sarebbe potenzialmente idonea ad evitare una condanna dell'Agenzia al risarcimento dei danni subiti ex art. 96 c.p.c., in quanto la stessa avendo correttamente giustificato la fonte alla base dell'errore, proverebbe di non aver formato l'avviso con colpa grave.
Ma non si vede proprio come l'Ufficio, spiegandoci la ragione per cui ha indicato il dato erroneo, che ha ritenuto di porre a base fondante dell'intero accertamento, possa in questo modo salvare la validità di un accertamento che comunque è, e rimane, fondato su un dato provato esser errato.
È singolare, inoltre, il comportamento processuale dell'Ufficio, il quale piuttosto che prendere atto dell'errore, annullare in autotutela l'avviso e chiedere la cessazione della materia del contendere, evitando la condanna ex art. 96 c.p.c., decide di insistere temerariamente, nonostante l'evidenza, nella propria pretesa impositiva.
E ciò con argomentazioni del tutto pretestuose, in particolare affermando che: “il possesso di un'autorizzazione rilasciata nel XXX dall'ASL di XXX, mai prodotta all'Ufficio, non dimostra che il ricorrente ne abbia fatto uso” (cfr. pag. X delle controdeduzioni).
Quindi, l'Agenzia si rifugia dietro una presunta carenza probatoria.
A parere dell'Ufficio l'autorizzazione ufficiale rilasciata dall'ASL non sarebbe sufficiente a provare che il signor XXX esercitava la propria attività in una clinica veterinaria e non, come ritenuto dalla Direzione Provinciale, in un ambulatorio.
Un'eccezione pretestuosa che dimostra la chiusura totale dell'Ufficio nei confronti di quella che è emersa essere la reale situazione fiscale del contribuente verificato.
Vogliamo soddisfare egualmente tale richiesta dell'Agenzia delle Entrate.
Ciò anche se l'autorizzazione dell'ASL è sicuramente sufficiente a dimostrare la verità di quanto affermato dal contribuente; infatti con tale documento ufficiale si autorizza espressamente il contribuente ad “attivare e mantenere in esercizio la Clinica Veterinaria” – non quindi un ambulatorio veterinario – “sita in XXX”).
Sempre che l'Ufficio non voglia addirittura ipotizzare che 8 anni fa il contribuente abbia immaginato che oggi gli sarebbe stato notificato l'odierno accertamento ed abbia voluto precostituirsi una prova a sostegno della propria tesi (?!).
Come detto, asseconderemo le richieste dell'Ufficio offrendo in comunicazione, in questa sede, ulteriori documenti che attestano inequivocabilmente che il contribuente, nel periodo d'imposta considerato, esercitava effettivamente la propria attività in una clinica veterinaria (in cui la degenza degli animali ben poteva essere superiore alla giornata) e non in un ambulatorio.
Trattasi, in particolare, dei seguenti documenti:
a) verbale di sopralluogo (XXX) effettuato dall'Azienda Sanitaria Locale Città di XXX – Dipartimento di prevenzione veterinario, presso la “Clinica Veterinaria”, sottoscritto dal tecnico incaricato (allegato n. X);
b) stampata attestante che il sito internet della clinica: (“XXX”) è stato creato sin dal mese di XXX del XXX, ossia l'anno d'imposta oggetto di analisi (l'indicazione che trattasi di una clinica è addirittura presente nel “domain name” del sito internet; cfr. allegato n. X);
c) autocertificazione, datata XXX, di valutazione dei rischi presenti nel luogo di lavoro, all'interno della “Clinica Veterinaria XXX” con sede in XXX (allegato n. X).
A fronte di quest'ultima documentazione depositata, ci chiediamo se l'Ufficio vorrà ancora negare che esista la prova dello svolgimento nell'anno d'imposta accertato, da parte del ricorrente, della propria attività in una clinica veterinaria e non in un ambulatorio e come per l'effetto l'intero assioma erariale vada a cadere.
Ora, non vi sono altri dati reali da analizzare, e ciò perché nient'altro è stato offerto dall'Ufficio per giustificare l'esosa richiesta di esborso avanzata nei confronti del ricorrente.
Solo su tale dato erroneo l'Agenzia ha infatti basato l'intero accertamento, che sotto ogni altro profilo si trova assiso su un ragionamento totalmente induttivo, elaborato senza un contraddittorio iniziale.
Incredibilmente, oggi, all'interno delle controdeduzioni, l'Ufficio giunge a lamentarsi del fatto che il contribuente non abbia attivato la procedura di accertamento con adesione (1) quando avrebbe dovuto essere l'Agenzia, in conformità al principio del necessario contraddittorio pre-contenzioso, sempre più valorizzato dalla recente giurisprudenza (finanche a Sezioni Unite: cfr. da ultimo Cass. S.U. n. 19667/14), tanto più in presenza di accertamenti fondati unicamente su ragionamenti presuntivi, a dare impulso alla fase contraddittoria prima di notificare una richiesta di esborso (eccedente i 70.000,00 euro) e far così decorrere i termini per il pagamento.
Come detto, nessun altro dato reale v'è da analizzare semplicemente perché nessun dato reale offre l'Agenzia a sostegno della propria richiesta; d'altronde:
- non è mai stato provato dall'Ufficio che siano stati conseguiti redditi occulti;
- non è mai stato provato dall'Ufficio che la percentuale di ricarica applicata dai Verificatori è congrua rispetto al mercato di vendita dei mangimi;
- non è mai stata provata l'esistenza di una sola delle innumerevoli cessioni al pubblico di mangime ipotizzate dalla Direzione;
- non è mai stato provato che il Dott. XXX svolgesse effettivamente attività di vendita di mangimi;
- non è mai stato provato per quale motivo la quantità di mangime acquistata dal ricorrente debba essere considerata troppo elevata se rapportata ad una struttura che permetta la sola degenza giornaliera degli animali (ossia un ambulatorio veterinario);
- l'unico dato che dovrebbe essere provato (lo svolgimento da parte del dottore della propria attività in una struttura che permette la degenza solo infra giornaliera) in realtà è errato.
Ed infatti, nel resto le argomentazioni trasfuse nelle controdeduzioni si mostrano del tutto censurabili e pretestuose (2).
In particolare, l'Ufficio si duole del fatto che il ricorrente abbia allegato a campione solo cinque ricevute (del XXX, anno d'imposta accertato) attestanti che la prestazione del dottore era comprensiva delle cure, della dieta e della terapia opportuna per la guarigione, somministrate agli animali durante la permanenza in clinica.
Senonché come verbalizzato nel corso dell'udienza del XXX, gli originali delle ricevute dell'anno d'imposta di cui trattasi sono tutti in possesso dell'Ufficio (e non più del contribuente), ed in tale sede ne è stata demandata all'Agenzia l'esibizione in questo procedimento, ma ad oggi la stessa non ha dato alcun seguito a tale richiesta.
Ed ancora l'Ufficio discorre di costi eccessivi, ma sulla base esattamente di cosa si giunge a tale conclusione?
Non è dato saperlo.
Si tratta di un'affermazione non motivata né basata su reali valutazioni del mercato di riferimento, né su altri parametri di sorta.
D'altronde nell'anno di cui trattasi il ricorrente aveva redditi congrui, di circa XXX, i quali, nell'anno successivo, anche in ragione dei costi sostenuti nell'anno d'imposta considerato, sono addirittura cresciuti.
Ed infatti non si comprendono i copiosi richiami giurisprudenziali operati dall'Ufficio all'interno delle controdeduzioni (cfr. pagg. X, X e X), di pronunce, il 100% delle quali riguarda casi in cui i contribuenti oggetto di verifica non avevano dichiarato redditi o addirittura avevano dichiarato delle perdite.
Tutta la giurisprudenza richiamata dall'Agenzia, in altri termini, riguarda ipotesi che nulla hanno a che vedere con la fattispecie sottoposta a codesto On.le Giudicante.
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Questa difesa non comprende cosa vorrebbe oggi l'Ufficio? Vorrebbe adesso cambiare completamente la motivazione dell'atto impositivo? Chiede a Codesto On.le Giudicante di far il lavoro dell'Agenzia delle Entrate e produrre, in sentenza (?!), un nuovo, diverso accertamento, magari diversamente motivato?! È quello il senso del richiamo delle massime (del tutto inconferentemente citate) che stabiliscono che la giurisdizione tributaria è una giurisdizione di impugnazione-merito?!
Ed infine ricordiamo come l'Ufficio non prenda alcuna posizione, né contesti specificatamente le eccezioni in diritto contenute nel paragrafo n. X del ricorso, con cui si contesta:
a) la nullità dell'avviso di accertamento per violazione del divieto di presunzioni di secondo grado (c.d. praesumptum de praesumpto non admittitur).
b) la nullità dell'avviso di accertamento per vizi motivazionali.
L'Ufficio non prende alcuna posizione su tali censure, per l'effetto - in punto di diritto - l'accoglimento delle stesse discende anche solamente dal mancato rispetto dell'onere di contestazione.
Nello specifico, si rileva, quanto al primo vizio, che è nullo l'atto fondato su ragionamenti inferenziali di grado superiore al primo (cfr. giurisprudenza citata a pagg. XXX-XXX del ricorso) e non vi sono dubbi sul fatto che l'avviso de quo lo sia.
Ciò è provato dal semplice esame dell'iter logico seguito dall'Ufficio.
Vi è forse la prova del percepimento, da parte del contribuente, di somme di denaro e, quindi, di redditi occulti? Tale prova è del tutto assente.
Tuttavia, la percezione di redditi occulti è ricavata inferenzialmente dalla – presunta – esistenza di cessioni al pubblico di mangimi.
Ma neanche di tali cessioni vi è traccia né prova.
Tali cessioni sono, infatti, anch'esse ricavate inferenzialmente dal – presunto – svolgimento da parte del ricorrente, non solo dell'attività di veterinario, ma anche di una presunta attività di vendita al pubblico di mangimi.
Ma ancora una volta, non esiste un solo elemento (come potrebbe essere un verbale di verifica della guardia di finanza) che possa indicare l'effettivo svolgimento di una simile attività.
Questo elemento è infatti a sua volta ricavato inferenzialmente dall'acquisto, da parte del contribuente, di mangimi per animali “ritenuti molto ingenti se rapportati alla struttura sanitaria che non prevede una degenza degli animali superiore alla giornata” (affermazione erronea per come dimostrato, in quanto il contribuente operava in una clinica veterinaria e non in un ambulatorio veterinario, come invece asserito dall'Ufficio).
Insomma, un accertamento che non può vantare una sola prova a supporto delle tesi sostenute al suo interno, e che, in definitiva, si mostra del tutto basato su una ricostruzione inferenziale a catena che stride con il divieto di presunzioni di secondo grado; ricostruzione, peraltro, assisa su un dato pacificamente errato.
Ed ancora, sotto il secondo profilo, non vi sono dubbi che l'unico dato offerto in motivazione per legittimare l'esosa richiesta di esborso sia un dato che si è provato essere erroneo. Posto che la motivazione non ci dice null'altro, questa stessa non può che cadere unitamente all'accertamento dell'erroneità del solo dato indicato in essa, e l'avviso, per l'effetto, andrà in definitiva considerato privo di motivazione e quindi nullo”.
(1) Cfr. pagina 2 dell'avviso di accertamento (“il contribuente, senza tentare alcun accertamento con adesione, ha impugnato l'atto” … (omissis).
(2) Basti pensare a come l'Ufficio strumentalizzi le espressioni contenute in sede di ricorso. In tale atto processuale, infatti, si è cercato di delineare lo svolgimento dell'attività del contribuente, ricordando che vi sono casi in cui all'animale malato viene somministrato il mangime curativo o viene data ai padroni la dose da somministrare nella notte (nei casi in cui i padroni non vogliano lasciare l'animale in clinica) per evitare l'aggravarsi delle condizioni dell'animale (all'evidenza trattasi di cessioni gratuite assimilabili a quelle del medico che somministra l'antibiotico al paziente che gli si presenta alle 10 di sera con una sintomatologia che richiede un intervento immediato). Ed ecco che l'Ufficio strumentalizza questa frase del ricorso per affermare che il contribuente “ha ammesso di effettuare attività commerciale” (cfr. pag. XXX delle controdeduzioni).
Insomma, l'assoluta mancanza di argomentazioni si evince chiaramente analizzando simili prese di posizione. Ci si chiede se l'Ufficio proverà ad affermare che l'aver poco sopra scritto “nei casi in cui i padroni non vogliano lasciare l'animale in clinica” altro non rappresenti che il riconoscimento dell'impossibilità di trattenere gli animali oltre la notte (?!).
La causa è stata definita con accoglimento del ricorso dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Pavia, n. 266/15, passata in giudicato.
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