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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 13371 del 17 maggio 2019
RITENUTO IN FATTO
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avvisi di accertamento per gli anni 2003 e 2004, nei confronti di M., esercente attività di "valorizzazione immobiliare", supportati da operazioni di verifica riguardanti gli anni dal 2003 al 2006, evidenziando, sulla base di documentazione extracontabile e delle dichiarazioni dei titolari delle agenzie immobiliari, che il prezzo di vendita degli immobili era superiore a quello indicato negli atti di compravendita, che le irregolarità contabili era talmente gravi, numerose e ripetute (omessa registrazione di alcune operazioni contabili, somme ricevute a titolo di acconto, contenuto degli hard disk del personal computer), da determinare l'utilizzo dell'accertamento "induttivo" di cui all'art. 39 d.p.r. 600/1973 ed all'art. 55 del d.p.r 633/1972 per i ricavi ed il reddito imponibile ai fini irpef ed irap, oltre al volume di affari ai fini Iva.
2. Il contribuente presentava ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale deducendo, fra l'altro, l'illegittimità delle presunzioni utilizzate per rettificare i corrispettivi (cfr. pagina 4 del ricorso per cassazione presentato dall'Agenzia delle entrate).
3. La Commissione tributaria provinciale accoglieva solo la doglianza in ordine alla mancata determinazione dei costi, ammessi nella percentuale del 43,12 % dei ricavi.
4. Proponeva appello il contribuente sia perchè i costi dovevano essere determinati nella maggiore percentuale dell'89,14 % dei ricavi, sia perchè "insisteva sul recepimento acritico, da parte dell'Ufficio, delle risultanze del verbale sostenendo che, nella fattispecie..., non esistevano i presupposti per l'applicazione della metodologia dell'accertamento induttivo".
5. Presentava appello incidentale l'Agenzia delle entrate perchè la Commissione provinciale aveva riconosciuto costi del tutto privi di documentazione. Inoltre, l'Agenzia eccepiva la inammissibilità per novità del motivo di appello del contribuente in ordine alla mancata sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'accertamento induttivo.
7. La Commissione tributaria regionale accoglieva l'appello principale del contribuente, non ritenendo sussistenti i presupposti per l'applicazione dell'accertamento induttivo, mentre rigettava l'appello incidentale.
8. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate. 9. Resiste con controricorso il contribuente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di impugnazione l'Agenzia delle entrate deduce "nullità della sentenza e/o del procedimento ex artt. 18, 24 e 57 del d.lgs. 546/1992 in relazione all'art. 360 n.4 c.p.c., nonché omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.", in quanto solo in grado di appello, per la prima volta, e quindi in modo inammissibile, il contribuente ha dedotto come "nuovo motivo" la "totale carenza dei presupposti giuridici previsti per l'applicazione dell'accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, d.p.r. 600/1973", inserendo, quindi, una nuova "questione" ed un nuovo "tema di indagine". Inoltre, la Commissione regionale, pur avendo disatteso l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla Agenzia con le controdeduzioni in appello, non ha esposto le ragioni logico-giuridiche di tale decisione.
1.1. Tale motivo è infondato. Invero, dalla lettura del ricorso e del controricorso emerge che la dedotta violazione del principio che vieta l'introduzione di questioni nuove in appello, ai sensi dell'art. 57 d.p.r. 546/1992, non si è verificata. Già dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, infatti, il contribuente ha dedotto che l'Agenzia delle entrate aveva effettuato un accertamento induttivo di cui all'art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973, in assenza dei relativi presupposti, limitandosi, in sede di appello, solo a meglio precisare e chiarire i confini della domanda originaria, formulata tempestivamente. Nel ricorso introduttivo, infatti, si legge, a pagina 17, che "nel caso, invece, l'accertamento induttivo operato dall'Ufficio si basa solo su mere congetture e non su fatti certi...questi fatti non possono di per sé costituire fatto certo dal quale indurre,.. .la presenza di ricavi non registrati". Si aggiunge a pagina 18 del ricorso introduttivo: "...non operando in caso di determinazione induttiva del reddito su dati extracontabili i limiti formali delle risultanze contabili".
Anche ai fini Iva, nel ricorso introduttivo, a pagina 19, si fa riferimento all'accertamento induttivo ("...a prescindere dal fatto che.., nella specie le operazioni in addebito ritenute dall'Ufficio non sussistono, né tanto meno, risultano, anche solo induttivamente, provate"). Nelle controdeduzioni in primo grado, del resto l'Agenzia ha dedotto che "...secondo parte ricorrente per quanto sopra esposto la pretesa impositiva si basa su presunzioni basate su congetture e dati presunti contravvenendo così al divieto della c.d. praesumptio de praesumpto...". Pertanto, in sede di appello il contribuente si è limitato a chiarire le doglianze, già palesate in modo esauriente nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Il richiamo specifico all'art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973, manifestato solo in grado di appello, non costituisce una "questione nuova", in quanto il tema della insussistenza dei presupposti per l'utilizzo dell'accertamento sintetico o extracontabile era già presente nelle deduzioni articolate nel ricorso di primo grado. I fatti costitutivi della pretesa erano, quindi, già oggetto del giudizio svoltosi dinanzi alla Commissione provinciale, come scolpiti nel ricorso introduttivo. Con riferimento, poi, al vizio di "omessa motivazione" sulla questione della inammissibilità della pretesa "domanda nuova", si evidenzia che la sentenza della Commissione regionale, in motivazione, ha accertato la insussistenza dei presupposti per l'accertamento induttivo o extracontabile di cui all'art. 39 comma 2, d.p.r. 600/1973, pur non avendo motivato sulla mancata violazione del divieto di ius novorum in appello. In sostanza, con l'accoglimento dell'appello principale del contribuente, la Commissione regionale ha implicitamente respinto l'eccezione di inammissibilità del motivo di appello per novità dello stesso, sollevata dalla Agenzia delle entrate. Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello per cui ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico giuridica della pronuncia (Cass., 13 ottobre 2017, n. 24155).
2. Con il secondo motivo di impugnazione l'Agenzia deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973 e dell'art. 55 d.p.r. 633/1972 in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.", in quanto sono presenti in atti elementi idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti per l'utilizzo dell'accertamento induttivo o extracontabile. In particolare, la sentenza della commissione non ha tenuto conto delle "ricevute e caparre", con natura di "acconti" e della mancata emissione dei documenti fiscali relativi alle permute. 2.1.Tale motivo è inammissibile. 2.2. Invero, la ricorrente, pur censurando la sentenza della Commissione regionale, per violazione di legge ai sensi dell'art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973, in realtà censura le argomentazioni con cui la Commissione ha ritenuto insussistenti i presupposti di fatto per l'impiego dell'accertamento induttivo, con diretta incidenza, dunque, sulla motivazione della decisione. Infatti, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass.Civ, 12 ottobre 2017, n. 24054). Tale motivo è inammissibile anche perché con la censura suddetta si cerca di provocare una nuova valutazione degli elementi di fatto, già compiuta in modo congruo dal giudice di prime cure, non consentita in questa sede.
3. Le spese del giudizio di legittimità, in applicazione del principio della soccombenza, vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del resistente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi € 10.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, accessori di legge e rimborso spese generali nella misura forfettaria del 15 %. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 14 febbraio 2019.
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