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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 13142 del 16 maggio 2019
Rilevato che:
L'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 70/30/10, depositata il 2.11.2010 dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, che confermava la decisione di primo grado di annullamento degli avvisi di accertamento notificati a S.; ha riferito che a seguito della notifica di due atti impositivi relativi agli anni d'imposta 2001 e 2002, con i quali, disattendendo le scritture contabili della contribuente e ricorrendo a riscontri di studi di settore e ad una diversa quantificazione del costo del venduto, era rideterminato il reddito d'impresa della S.. Ne seguiva il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Vercelli con sentenza n. 69/04/2008, che accoglieva il ricorso. L'appello della Agenzia era rigettato con la pronuncia ora al vaglio della Corte. L'Agenzia censura la decisione con un motivo, nel quale, lamentando l'insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, la violazione e falsa applicazione degli artt. 38 e 39 co. 1, lett. d) e 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché dell'art. 2697 c.c. e 115 c.p.c., infine la nullità della sentenza, tutto in relazione all'art. 360 co. 1 n. 5, 3 e 4 c.p.c., chiede la cassazione della sentenza. La contribuente non ha inteso costituirsi nonostante la rituale notifica.
Considerato che
A parte la formulazione del motivo ai limiti della inammissibilità per essere state sollevate contestualmente una pluralità di censure, sotto l'aspetto del vizio motivazionale, dell'errore di diritto e dell'errore processuale, senza distinguere in maniera chiara le critiche alla pronuncia in base al vizio lamentato, esso è del tutto infondato e non merita accoglimento. L'Agenzia lamenta l'erroneità della decisione per non aver tenuto conto della evidente antieconomicità dell'attività svolta dalla contribuente, secondo quanto emergeva dalla contabilità tenuta, e della necessità dunque di una ricostruzione induttiva dei redditi, secondo criteri più attendibili; delle erronee conseguenze tratte dal giudice regionale dalla dichiarata cessazione della attività di venditore ambulante, definita semplicistica dall'Ufficio e comunque non provata; della legittimità ed esattezza dell'accertamento induttivo eseguito, della correttezza della percentuale di ricarico applicata ai costi, in linea con gli studi di settore. Ha rimarcato l'abnormità e irragionevolezza dei ricavi dichiarati, in contraddizione con i presupposti della convenienza economica dell'esercizio di una attività d'impresa. Ha criticato che il giudice regionale abbia annullato gli atti impositivi anzicchè rideterminare il reddito. Nel denunciare unitariamente vizi motivazionali ed errores iuris in iudicando - mentre non è ben comprensibile quale sia stato l'error iuris in procedendo sollevato con il ricorso-, occorre preliminarmente fissare alcuni principi. In materia di vizio di motivazione questa Corte ha affermato che la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., ord. n. 12967/2018; 19547/2017; 17477/2007). Quanto alle censure sollevate ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per la corretta applicazione delle regole sulla prova presuntiva, che l'Agenzia critica denunciando sostanzialmente un loro malgoverno da parte del giudice regionale, deve ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell'esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell'art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).
Questi in sintesi gli approdi interpretativi in tema di vizio motivazionale ed errore di diritto in ragione del governo delle prove presuntive, la sentenza, condividendo le motivazioni del giudice di primo grado, ha sollevato dubbi sui risultati raggiunti dall'ufficio con l'accertamento induttivo, sostenendo che l'utilizzo di una pluralità di dati non omogenei non era idoneo a fondare una prova presuntiva; ha ritenuto eccessivo il ricarico percentuale del 90% sui costi desunti, evidenziando i limiti della presunzione perché un ricarico così importante, capace di assicurare una buona remunerazione all'attività svolta, era contraddittorio rispetto alla scelta di chiudere le attività economiche, quella esercitata in locale fisso e quella ambulante, "per andare alle dipendenze con salario alquanto esiguo"; ha rilevato che comunque il reddito dichiarato era coerente con lo studio di settore di appartenenza; ha contestato l'apparente incongruenza della scarsa redditività dell'attività economica, reiterata per alcuni anni, tenendo conto che le medesime attività era state infatti dismesse. Le argomentazioni della Commissione, condivisibili o meno, non evidenziano salti logici o errori materiali. Evidenziano un ragionamento nel quale il giudice regionale ha preso in considerazione i vari elementi presuntivi raccolti, i dati oggettivi incontestati, e ne ha tratto specifiche conclusioni. Trattasi di un giudizio di merito che, in assenza di incoerenze logiche, non trova censure in sede di legittimità. Peraltro i dubbi sulla cessazione dell'attività restano del tutto evanescenti perché senza un minimo riscontro. Sul piano della elaborazione valutativa delle prove presuntive il giudizio non è affatto atomistico, e la critica in cui si diffonde la ricorrente è un tentativo di rielaborazione del merito della vicenda, inibito in questa sede. In conclusione il motivo di ricorso è infondato. Considerato che il ricorso va pertanto rigettato. Nulla va deciso in merito alle spese, non essendosi costituita la resistente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il giorno 14 febbraio 2018
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