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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 12496 del 10 maggio 2019
Rilevato che
- con sentenza n. 3279/23/2014, depositata il 2 aprile 2014, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l'appello proposto da C. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore nei confronti della Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 153/21/2012 della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva rigettato il ricorso della detta società avverso l'avviso di accertamento n. XXX con il quale l'Ufficio delle dogane di Napoli 1, previo p.v.c. del 31 ottobre 2008, aveva recuperato nei confronti di quest'ultima l'Iva in relazione ad operazioni di importazione di merce extracomunitaria, per l'anno di imposta 2006;
- nell'accertamento impugnato i funzionari della dogana di Napoli avevano contestato l'utilizzo meramente virtuale del deposito fiscale ex art. 50 bis del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 con riferimento alle merci extra UE importate- negli anni 2004-2006- attraverso i varchi doganali e avevano invitato la importatrice C. s.a.s. in solido con la S. s.p.a., quale gestore del deposito fiscale, a corrispondere l’IVA all'importazione evasa in relazione all'anno 2006;
- la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, osservava che: 1) quanto all'assunta violazione degli artt. 7 e 12 della legge n. 212 del 2000, per non essere l'atto impositivo adeguatamente motivato, non risultando allegato il richiamato p.v.c., la motivazione per relationem corrispondeva ai rigorosi criteri di cui all'art. 7 cit., essendo "esaustivo" il riferimento al p.v.c. e "ben conosciuto" dalla parte ogni altro atto ivi richiamato;
2) infondata era la censura relativa all'assunta violazione dell'art. 12, comma 7 della legge n. 212 del 2000, trovando applicazione in materia doganale l'art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990;
3) l'autofatturazione dell'Iva interna non poteva compensare il mancato pagamento dell'Iva all'importazione in quanto il sistema di accertamento dei tributi era diverso, per essere l'Iva all'importazione un "diritto di confine" correlata, nella specie, alla mancata introduzione della merce nel deposito doganale;
3) dai documenti doganali, di transito e dalle dichiarazioni dei trasportatori si evinceva che il trasporto delle merci era avvenuto direttamente al cliente destinatario della merce senza alcun passaggio presso il deposito Iva di XXX della S. s.p.a.;
- avverso la sentenza della CTR, la C., in persona del legale rappresentante pro tempore, propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, variamente articolati, cui resiste, con "atto di costituzione", l'Agenzia delle dogane;
- il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 375, secondo comma, e dell'art. 380-bis.1 cod. proc. civ., introdotti dall'art. 1 -bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
- preliminarmente va rilevato che l'Agenzia delle dogane ha resistito con "atto di costituzione", non notificato, chiedendo di essere ammesso a partecipare alla discussione orale ex art. 370 c.p.c.;
- va al riguardo, ricordato che, in mancanza di notificazione, l'atto depositato non è qualificabile come controricorso ed il controricorrente, pure in presenza di regolare procura speciale ad litem, non è legittimato neppure a depositare memorie illustrative (Cass. n. 25735 del 2014): principio affermato con riferimento alla trattazione della causa in pubblica udienza, ma che deve essere esteso anche al procedimento in camera di consiglio di cui all'art. 380 bis.1 c.p.c., introdotto dal DL 31 agosto 2016 n. 168 conv. in legge 25 ottobre 2016 n. 197 (Cass. n. 26974 del 2017; n. 30372 del 2018);
- con il primo motivo, la ricorrente denuncia: 1) in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione della legge n. 212 del 2000, della legge n. 241 del 1990, degli artt. 99, 100, 112 e 115 c.p.c. e dell'art. 24 Cost. per avere la CTR erroneamente
a) disatteso il motivo di censura inerente l'assunto difetto di motivazione dell'atto impositivo, ancorché il p.v.c. richiamato per relationem non fosse stato ad esso allegato, non essendo sufficiente che lo stesso fosse conoscibile dalla contribuente, comunque, nella specie, non conosciuto né conoscibile contrariamente a quanto apoditticamente affermato dal giudice di appello;
b) ritenuto infondata la censura concernente l'asserita violazione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, per non essere stato rispettato il termine di sessanta giorni- preposto a garantire il diritto di difesa della contribuente- tra la notifica del p.v.c. del 31 ottobre 2008 e l'emissione dell'invito di pagamento;
2) in relazione all'art. 360, comma 5, c.p.c., l'omesso esame circa i fatti decisivi e controversi per il giudizio quali l'asserito difetto di motivazione dell'atto impositivo e il mancato rispetto del termine ex art. 12, comma 7, cit.
- il primo sub motivo, variamente articolato, è infondato; -quanto alla prima doglianza attinente l'assunta violazione dell'obbligo di motivazione dell'atto impositivo, per non essere stato allegato ad esso il richiamato p.v.c. della G.d.F., va ribadito che nel regime introdotto dall'art. 7 1. 27 luglio 2000 n. 212, l'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all'atto notificato, oppure che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale (fra varie, Cass. n. 6914/11; n. 13110/12; ord. n. 9032/13). A tanto si aggiunge la considerazione che un'interpretazione meramente formalistica dell' art. 7 si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell'interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d'invalidità o d'inammissibilità chiaramente irragionevoli (in termini, fra varie, Cass. n. 26045/2016; n. 15327/14; n. 407/15; n. 24254/15). In merito, questa Corte ha precisato che «l'obbligo dell'Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell'avviso va inteso, ai sensi dell'art. 3, comma 3, I n. 241 del 1990, in relazione alla finalità "integrativa" delle ragioni che sorreggono l'atto impositivo: il contribuente ha diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare la motivazione, ma non anche di tutti quelli cui, comunque, vi sia un riferimento ove la motivazione sia già sufficiente oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (nella parte rilevante ai fini della motivazione) sia già riportato nell'atto noto, spettando ad egli provare che almeno una parte del contenuto di tali atti sia necessaria ad integrarne la motivazione» (Cass. n. 26683 del 18/12/2009; Cass. n. 10118 del 21/04/2017). Ugualmente, ai sensi dell'art. 11, comma 5 bis, d.lgs. n. 374 del 1990 «La motivazione dell'atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale ai fini della difesa» (v. Cass. 29532 del 2018);
- nella specie, la CTR, in ossequio ai suddetti principi, con un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto adeguatamente motivato per relationem l'atto impositivo in questione, in quanto il riferimento al p.v.c. era "esaustivo" e ogni altro atto ivi richiamato era "ben conosciuto" dalla parte che aveva partecipato attivamente al contraddittorio della fase investigativa;
- quanto alla seconda censura attinente l'assunta violazione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, va osservato che con specifico riferimento al contraddittorio in materia doganale, rilevante nel presente procedimento, nel quale l'Amministrazione delle dogane ha emesso nei confronti della società contribuente un avviso di rettifica di accertamento per la ripresa dell'Iva all'importazione evasa, che questa Corte si è più volte pronunziata, sulla scia dei precedenti resi dalla Corte di Giustizia. In particolare, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 (codice doganale comunitario), si evince dalle previsioni espresse dell'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 e costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. Ne deriva che la denuncia di vizi di attività dell'Amministrazione capaci di inficiare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l'inosservanza delle regole abbia determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione che si sia riverberata sui vizi del provvedimento finale. Per altro verso, questa Corte ha ritenuto che, in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile l'art. 12, comma 7, della legge 20 luglio 2000, n. 212, operando in tale ambito lo jus speciale di cui all'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all'impugnazione in giudizio del detto avviso (Cass. n. 23669 del 2018; Cass. 15032 del 2014; Cass. n. 8399 del 2013). In particolare, da ultimo nella sentenza n. 23669 del 2018, questa Corte ha precisato come la disciplina di cui all'art. 11 cit.- nella versione- applicabile nella specie- ante novella del d.l. n. 1 del 2012, convertito dalla legge n. 27 del 2012 - sia stata promossa dalla Corte di giustizia, con la sentenza del 20 dicembre 2017, causa C- 276/16, Preqù -Italia, secondo cui "il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell'adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell'accertamento, adottato dall'autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell'interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all'interessato di contestare tale atto nell'ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell'esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all'articolo 244 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l'esecuzione dell'atto impugnato, dal momento che l'applicazione dell'articolo 244, secondo comma, di detto regolamento da parte dell'autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell'esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l'interessato" e "la violazione del diritto di essere ascoltati determina l'annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso"; - la CTR si è attenuta ai suddetti principi per avere ritenuto che, in materia doganale, trovasse applicazione non già l'art. 12, comma 7, cit. ma bensì l'art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990; - il secondo sub motivo, anch'esso variamente articolato, è inammissibile; - va ribadito che il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 25 febbraio 2014) concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e dell'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015); -nella specie, il motivo è inammissibile, in quanto la ricorrente non ha assolto il suddetto onere, essendo stato, peraltro, dedotto l'omesso esame non già di un "fatto storico", ma bensì di questioni di diritto inerenti la motivazione per relationem dell'atto impositivo e il contraddittorio endoprocedimentale;
- con il secondo motivo la ricorrente denuncia: 1) in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 374 del 1990, del d.l. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993, del d.lgs. n. 32 del 2001, del d.P.R. n. 600 del 1973, del d.P.R. n. 633 del 1972, della legge n. 212 del 2000, della legge n. 241 del 1990, del d.P.R. n. 43 del 1973, del Reg. CEE del 23 aprile 2008, del Reg. CEE n. 515 del 1997, del Reg. CEE n. 1073 del 1999, della sesta Direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977, della Direttiva n. 2006/18/CE del 14 febbraio 2006, della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006, degli artt.99,100, 112 e 115 c.p.c. e degli artt. 24 e 53 Cost. per avere la CTR erroneamente ritenuto che l'avvenuta autofatturazione non costituisse modalità idonea all'assolvimento dell'imposta dovuta, ancorché - ad avviso della ricorrente - l'immissione in libera pratica della merce destinata, come nella specie, all'introduzione in deposito Iva non potesse qualificarsi più "importazione" nei termini cui agli artt. 67 e segg. del d.P.R. n. 633 del 1972, costituendo operazione effettuata senza il pagamento dell'imposta, ex art. 50bis, quarto comma, lett. b) del d.l. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993, sicché l'Iva, se dovuta, non poteva considerarsi più diritto doganale ma Iva interna;
2) in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c. per avere la CTR omesso di pronunciarsi in ordine
ai profili di cui sopra;
3) in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. l'omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio quale l'avvenuto pagamento dell'Iva dovuta con il metodo del c.d. "reverse charge"; - premessa l'infondatezza del secondo sub motivo inerente l'assunta violazione dell'art. 112 c.p.c., per avere la CTR espressamente disatteso il motivo di censura dell'appellante relativo all'avvenuto assolvimento dell'imposta, ritenendo l'autofatturazione dell'Iva interna non idonea a compensare il mancato pagamento dell'Iva all'importazione, e premessa, altresì, l'inammissibilità del terzo sub motivo, per non involgere l'omesso esame di un "fatto storico", il primo sub motivo è fondato;
- in materia di depositi fiscali questa Corte ha affermato il principio secondo il quale «l'Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all'art. 50-bis, comma 4, lett. b), del d.l. n. 331 del 1993, conv., con modif., dalla L. n. 427 del 1993, qualora costui abbia già provveduto all'adempimento, sebbene tardivo, dell'obbligazione tributaria nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile mediante un'autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell'IVA, realizzata dall'importatore per effetto dell'immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13, a tenore della quale detta violazione può essere punita, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l'autofatturazione, con una specifica sanzione per il ritardo - non fissa e che può consistere anche nel computo degli interessi di mora, purché sia rispettato il principio di proporzionalità - la cui adeguata determinazione, implicando un accertamento di fatto, compete al giudice di merito» (cfr., ex multis, Cass. n. 1327 del 2018; n. 12231 del 2017; v. anche Cass. n. 15988 e n. 17814 del 2015);
- va evidenziato che la CGUE, con la pronuncia del 17 luglio 2014, Equoland, in causa C-272/13, ha stabilito che «l'articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che subordini la concessione dell'esenzione dal pagamento dell'IVA all'importazione, prevista da tale normativa, alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale ai fini dell'IVA siano fisicamente introdotte nel medesimo». La normativa italiana prevede appunto, per la sospensione d'imposta, l'introduzione fisica della merce nel deposito, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis n. 24449 del 2018; 10911 del 2016; n. 17815 e da n. 15987 a n. 15995 del 2015) e come riconosciuto dalla citata sentenza della CGUE («il legislatore italiano ha previsto che, al fine di poter beneficiare dell'esenzione dal pagamento dell'IVA all'importazione, il soggetto passivo abbia l'obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale»). Tuttavia, come specificato nella medesima sentenza della CGUE, «la sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell'IVA, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell'IVA all'importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile, mediante un'autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo»;
- nella specie, la CTR non si è attenuta ai suddetti principi, avendo ritenuto che, a fronte della accertata mancata introduzione fisica della merce nel deposito fiscale, l'avvenuta incontestata autofatturazione non costituisse una modalità di adempimento (sebbene tardivo) dell'obbligazione tributaria nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile;
- con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360, comma 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 374 del 1990, del d.lgs. n. 32 del 2001, del d.P.R. n. 600 del 1973, del d.P.R. n. 633 del 1972, degli artt. 1683 e segg. c.c., dell'art. 2697 c.c., degli artt. 2727 e segg. c.c. 2738 e segg. c.c., e dell'art. 351 c.p.c., per avere la CTR erroneamente ritenuto che dagli elementi presuntivi in atti (dichiarazioni rese in ambito penale dal trasportatore T., documenti doganali, bolle di consegna) si evinceva che il trasporto delle merci era avvenuto direttamente al cliente destinatario della merce senza alcun passaggio presso il deposito Iva di XXX della S. s.p.a; 2) in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. l'omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio quale era l'avvenuta effettiva introduzione della merce nel deposito Iva;
- l'accoglimento del secondo motivo nei termini di cui sopra rende inutile la trattazione del terzo con assorbimento dello stesso;
- in conclusione, va accolto il primo sub profilo del secondo motivo di ricorso, disattesi gli altri sub profili del secondo motivo nonché il primo motivo, assorbito il terzo motivo, con cassazione della sentenza impugnata - in relazione al motivo come accolto - e decidendo nel merito ex art. 384, comma 2, c.p.c., con accoglimento del ricorso originario della società contribuente avverso l'atto impositivo;
- si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei gradi di merito, mentre le spese del giudizio di legittimità seguono il principio della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo profilo del secondo motivo di ricorso, disattesi gli altri sub profili del secondo motivo e il primo motivo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata- in relazione al motivo accolto - e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della società contribuente avverso l'atto impositivo; condanna l'Agenzia delle dogane al pagamento in favore della C., in persona del legale rappresentante pro tempore, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 5.600,00 oltre rimborso forfettario nella misura del 15% ed accessori di legge.
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