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***Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 8009 del 21 marzo 2019
Rilevato che:
L'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 73/01/12, depositata il 2.07.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia-Giulia, che, confermando la decisione del giudice di primo grado, annullava l'avviso di accertamento notificato a V. e relativo all'anno d'imposta 2003, con cui era rideterminato il reddito ai fini Irpef nella misura di C 241.197,89. Premetteva che l'atto impositivo scaturiva da una indagine sui conti correnti bancari riferibili al contribuente, da cui emergevano movimentazioni bancarie non risultanti dalle dichiarazioni dei redditi. Riferiva che dall'accertamento era scaturito il contenzioso, esitato in primo grado nella sentenza n. 60/01/11, pronunciata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Gorizia, che aveva accolto il ricorso annullando l'avviso di accertamento. L'appello della Agenzia era stato respinto dalla Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia-Giulia, con la pronuncia ora al vaglio della Corte. L'Ufficio censura la decisione con unico motivo, dolendosi della insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione. Si è costituito il contribuente, eccependo l'inammissibilità del ricorso per le modalità del suo confezionamento e nel merito ha contestato la fondatezza del motivo, di cui ha chiesto il rigetto.
Considerato che:
Esaminando la sollevata eccezione di inammissibilità del ricorso, essa trova fondamento sotto il profilo del rispetto del contenuto, ai sensi dell'art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché del principio di autosufficienza, trattandosi di atto redatto con la tecnica dell'assemblaggio. In ordine all'utilizzo di tale tecnica di redazione dell'atto impugnativo, ritenuta motivo di inammissibilità del ricorso per mancato rispetto del contenuto prescritto dall'art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c., la giurisprudenza di questa Corte ha puntualizzato che l'integrale riproduzione di una serie di documenti si traduce in un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, così risolvendosi in un difetto di autosufficienza sanzionabile con l'inammissibilità. Ciò rende incomprensibile il mezzo processuale, perché privo di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (ai sensi dell'art. 366, com 1, n. 3, c.p.c.), della sintetica esposizione della soluzione accolta dal giudice di merito, nonché dell'illustrazione dell'errore da quest'ultimo commesso e delle ragioni che lo facciano considerare tale, addossando in tal modo al giudice di legittimità il compito, ad esso non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere (cfr. Cass., Sez. 6-1, ord. n. 22185/2015; Sez. 6-3, sent. n. 3385/2016). Perché il difetto di autosufficienza possa ritenersi superato è necessario che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, se facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall'atto processuale, la cui autosufficienza pertanto, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (Cass., Sez. 5, sent. n. 18363 del 2015; ord. n. 12641 del 2017). Nel caso di specie la dubbia tecnica di redazione del ricorso non solo coinvolge il rispetto delle prescrizioni richieste dall'art. 366 co. 1 n. 3 c.p.c., ma anche di quelle imposte dal n. 4) del medesimo comma, pregiudicando la chiarezza espositiva dell'atto. Sotto questo ulteriore aspetto la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali - il quale, fissato dall'art. 3, co 2 del codice del processo amministrativo, esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale destinato ad operare anche nel processo civile - espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, non già per l'irragionevole estensione del ricorso, che non è fattispecie espressamente sanzionata, ma perché pregiudica l'intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c., assistite dalla sanzione della inammissibilità (cfr. Cass., sent. n. 21297 del 2016, relativa proprio ad una fattispecie nella quale il ricorso era redatto con motivi che riproponevano stralci di atti processuali e documenti, riversando in sede di legittimità il contenuto dei gradi di merito. Cfr. anche Sez. U, sent. n. 964/2017, in tema di declaratoria d'inammissibilità dell'appello dinanzi al Consiglio di Stato). Incide cioè sulla ammissibilità del ricorso proprio quella tipologia di redazione dell'atto in cui i motivi di censura siano articolati in un'inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado, che alla fine, quand'anche con uno sforzo interpretativo sia possibile superare il deficit di chiarezza espositiva, costringono l'organo giudicante ad una estrapolazione della materia del contendere, riservata invece al ricorrente (cfr. Cass., ord. n. 13312/2018). D'altronde si è condivisibilmente affermato che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione, in quanto esso collide con l'obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, che deve essere quello di assicurare una decisione di merito, al fine dell'effettiva tutela del diritto di difesa, sancito dall'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, co 2, Cost. e in coerenza con l'art. 6 CEDU, nonché per evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui (Cass., sent. n. 17798/2014). Nel caso che ci occupa il ricorso, dopo l'intestazione e l'indicazione delle parti nella prima pagina, e dopo le premesse relative alla vicenda, riportate in parte della seconda, da pagina due a pag. venti riproduce esclusivamente stralci degli atti difensivi depositati dalla medesima Amministrazione nei pregressi gradi di giudizio, per poi concludere, a pag. ventuno, che «sarebbe stato onere della CTR prendere espressa posizione sulle molteplici incongruenze rilevate dall'Ufficio ed esplicitare chiaramente per quali ragioni, eventualmente, la documentazione prodotta dal contribuente fosse idonea a superarle».....«è evidente, infatti, che ove la CTR avesse puntualmente analizzato le argomentazioni difensive dell'Ufficio e gli elementi forniti dal contribuente, avrebbe dovuto concludere per l'inidoneità di questi ultimi a superare la presunzione di cui all'art. 32 DPR n. 600/73 e la conseguente legittimità dell'avviso di accertamento impugnato.». A ben vedere il ricorso non contiene alcuna specifica critica propositiva nei confronti della sentenza, che peraltro, per mera completezza e a differenza di quanto afferma la difesa della ricorrente, non si limita ad affermazioni apodittiche, ma valuta invece la documentazione prodotta dalle parti nel corso del giudizio, di cui vi è infatti puntuale e dettagliato riferimento nella parte espositiva del provvedimento (la documentazione contabile acquisita in occasione degli accessi eseguiti presso l'abitazione del V. e relativa alla società statunitense di cui il contribuente era titolare; gli esiti degli accertamenti eseguiti dalle autorità americane presso la CRM ai sensi del'art. 26 della Convenzione Italia-USA; i pareri favorevoli al contribuente espressi dal Garante per il Contribuente a proposito della verifica e del contenzioso fiscale per cui è causa; gli esiti processuali relativi agli anni d'imposta precedenti). Da tutto il materiale a disposizione il giudice regionale trae la conclusiva valutazione favorevole al contribuente. A fronte di una sentenza sufficientemente motivata era onere della Amministrazione riprendere puntualmente le varie ragioni e i vari documenti su cui la pronuncia ha inteso fondarsi, e partitamente provvedere alla confutazione. La difesa si è invece limitata a riversare nel ricorso i precedenti atti difensivi, lasciando un inammissibile onere di indagine al giudice di legittimità. In conclusione il ricorso è inammissibile. Considerato che Il ricorso va rigettato e all'esito del giudizio segue la soccombenza della Agenzia alla rifusione delle spese processuali, nella misura indicata in dispositivo,
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna l'Agenzia alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore del V., che liquida in € 5.600,00 per competenze, € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori come per legge. Così deciso in Roma, il giorno 26 febbraio 2019
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