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Prima di fornire una definizione di tax haven e di esaminarne le tipologie, è necessario soffermarci sul concetto, elaborato in sede OCSE[1], di harmful tax competition (concorrenza fiscale dannosa).
Il primo invito formale ad approfondire le tematiche attinenti alla concorrenza fiscale dannosa rivolto all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico va individuato nel Comunicato ministeriale del maggio 1996, con il quale, preso atto della presenza di Stati che adoperano la leva fiscale al fine di attirare investimenti finanziari o produttivi stranieri, si sollecitava l’Organizzazione stessa a sviluppare misure per contrastare gli effetti distorsivi della concorrenza fiscale dannosa attraverso la predisposizione di un Rapporto entro il 1998. Nel corso del Summit del G7 a Lione del 27-29 giugno 1996 l'incarico conferito all'OCSE di predisporre un rapporto in materia di lotta alla competizione fiscale entro il 1998 venne nuovamente ribadito.
In seguito a tali esortazioni il Comitato degli Affari fiscali dell’OCSE decise di creare una “Sessione speciale per la concorrenza fiscale”, la quale nel 1998 elaborò il primo report in materia di concorrenza fiscale dannosa, titolato “Harmful tax competition – an Emerging Global Issue”.
In ossequio al mandato ricevuto, tale Rapporto si propone lo scopo di analizzare come i tax havens e gli harmful preferential tax regimes (regimi fiscali preferenziali potenzialmente dannosi) – globalmente indicati come harmful tax practices (pratiche fiscali dannose) – influenzino l’allocazione delle attività finanziarie e di servizi, erodano le basi imponibili degli altri paesi, distorcano i commerci e i modelli d’investimento e minino l’equità, la neutralità e la generale accettazione sociale dei sistemi fiscali[2]; inoltre, il rapporto aspira a scoraggiare il diffondersi di tali pratiche fiscali dannose ed a spingere gli Stati in cui sono rinvenibili tali pratiche a rivedere i propri sistemi fiscali.
Da un punto di vista strutturale, il Rapporto[3] si articola in 171 paragrafi, numerati progressivamente e compendiati in tre capitoli. Il primo Capitolo (titolato "Competizione fiscale: un fenomeno globale") tratteggia le conseguenze negative connesse alla competizione fiscale tra gli Stati, delineando quali motivazioni economiche, sociali e politiche hanno spinto l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico a formulare il Rapporto. Il secondo Capitolo (titolato "Fattori per l'identificazione dei paradisi fiscali e le pratiche fiscali privilegiate dannose") indica quali elementi occorre analizzare e ponderare per verificare se uno Stato o un territorio possa essere ricondotto nella categoria dei tax havens o degli harmful preferential tax regimes, nonché determina se ed in quale misura gli uni o gli altri siano considerabili dannosi e, come tali, rappresentino un ostacolo per lo sviluppo e l'integrità dei sistemi fiscali degli Stati. Infine, il terzo Capitolo (titolato "Reazione alla competizione fiscale dannosa") contiene l'analitica menzione ed esplicazione delle misure e iniziative prospettate dall’OCSE; nello specifico, sono previste 19 Raccomandazioni che l'Organizzazione ritiene necessarie al fine di contrastare efficacemente l'espansione della competizione fiscale tra gli Stati e mitigare i benefici che i contribuenti possono trarre dall'utilizzo degli harmful tax practices. Risulta comunque opportuno precisare come il report non contenga alcuna sanzione, propriamente detta, nei confronti delle harmful tax practices avendo questo valore di mera raccomandazione interna ed è essendo quindi privo di efficacia cogente. Il Rapporto si compone, altresì, di tre Allegati.
Secondo il Rapporto è possibile suddividere le c.d. harmful tax practices in due categorie: harmful preferential tax regimes (regimi fiscali preferenziali potenzialmente dannosi) e tax havens.
Il report nel tratteggiare il concetto di tax haven, ne accoglie una nozione che abbraccia sostanzialmente gli Stati che non prevedono - o prevedono con aliquote meramente nominali - imposte sul reddito, che promuovono la propria immagine come luogo di ideale localizzazione per i non residenti di capitali al fine di eludere le imposte nel proprio Paese di residenza, e che non temono la concorrenza fiscale dannosa degli altri Stati.
Il rapporto inoltre indica quali elementi specifici debba presentare lo Stato od il territorio per essere qualificato tax haven. In via principale deve essere caratterizzato da un livello di imposizione particolarmente basso o puramente nominale che si traduce in un carico fiscale effettivo ridotto o nullo (no or only nominal taxes); tuttavia tale requisito, pur rappresentando la condizione principale e necessaria, non è sufficiente per tale qualificazione, essendo altresì richiesta la sussistenza di uno degli ulteriori key factors.
Il primo elemento indicato - oltre al livello di tassazione - è la presenza nel Paese di disposizioni normative o pratiche amministrative che ostacolo lo scambio di informazioni con le amministrazioni in relazione ai soggetti beneficiari del basso livello di imposizione (lack of effective exchange of information). In altri termini devono sussistere norme positive e/o prassi amministrative che, concretamente, inibiscano ovvero ostacolino l'amministrazione finanziaria dall’effettuare un efficace scambio di informazioni con le amministrazioni fiscali degli altri Stati; tra tali previsioni è possibile annoverare quelle che prevedono l’incondizionata tutela del segreto bancario, rendendo di conseguenza impossibile o estremamente difficoltoso all’Amministrazione finanziaria richiedente acquisire qualsiasi informazione relativa ai soggetti interessati dall’accertamento.
Il secondo elemento è rappresentato dallo scarso livello di trasparenza quanto alle modalità di applicazione delle normative e delle procedure amministrative (lack of transparency). Tale situazione si manifesta non solo in ragione della presenza di provvedimenti di natura cogente, come ad esempio le norme che tutelano in modo assoluto il segreto professionale o la costituzione dei beni in trust ovvero che ammettano la concessione di azioni al portatore, ma anche quale conseguenza di consolidate prassi amministrative, che a titolo potrebbero comportare di fatto l’omissione dei controlli sui contribuenti. A titolo esemplificativo si può segnalare che la previsione di secret rulings è forte indice di mancanza di trasparenza (lack of transparency).
L’ultimo elemento individuato dal report è infine l’assenza di disposizioni che impongano l’esercizio di un’attività economica sostanziale quale condizione per beneficiare dei regimi agevolati[4] (no substantial activities).
Il documento OCSE prosegue analizzando quali scopi si prefiggono i contribuenti nell’utilizzazione di Paesi a fiscalità privilegiata. Nello specifico ad avviso del Rapporto, riconosciuto che molti Paesi si avvalgono della leva fiscale e di altre misure di politica economica (quali la possibilità per il soggetto economico di operare nell’anonimato) per attrarre capitali e investimenti nel settore finanziario e dei servizi, è possibile individuare tre finalità di ordine generale che spingono ad adoperare in Paesi a fiscalità privilegiata: a) al fine del loro utilizzo quali “money boxes”, ossia come luogo ove custodire capitali utilizzati per investimenti “passivi” (specificamente finanziari, in grado di generare interessi, royalties e dividendi); b) allo scopo del loro impiego come c.d. paper profits, ossia localizzazione per imputare contabilmente profitti altrove realizzati; c) per occultare capitali alle autorità fiscali del Paese di residenza.
Per quanto invece concerne gli harmful preferential tax regimes, il Rapporto evidenzia come, nei sistemi fiscali degli Stati rientranti in tale categoria, seppure siano previste imposte sul reddito che producono un elevato gettito fiscale nello Stato, sono altresì previste norme agevolative - idonee ad attrarre attività economiche e finanziarie - rappresentanti una forma di concorrenza fiscale a danno di Stati terzi; si tratterà inoltre di Stati esposti essi stessi al pericolo di concorrenza fiscale dannosa e pertanto maggiormente inclini a partecipare ad azioni concertate di politica fiscale internazionale.
Il Rapporto del 1998 segnala quali sono i principali criteri identificativi dei regimi fiscali preferenziali (potenzialmente) dannosi; specificamente menziona, quale elemento fondamentale, la presenza di un regime fiscale di esenzione o particolarmente agevolato, che comporti la presenza di un livello impositivo ridotto o nullo, il quale deve trovarsi combinato con uno o più dei c.d. “fattori chiave” o degli “elementi complementari” individuati dal medesimo Rapporto.
I fattori chiave (key factors) indicati dal Rapporto sono: l’isolamento del mercato domestico (rectius del sistema tributario ordinario) rispetto al regime preferenziale (ring fencing), attraverso la previsione esplicita o implicita della sua applicabilità ai soli soggetti non residenti o il divieto per i soggetti beneficiari di operare con soggetti residenti; la mancanza di un effettivo scambio di informazioni; l’assenza di trasparenza nelle procedure amministrative.
Accanto a tali fattori chiave, il Rapporto indica, quali elementi complementari che possono essere d’ausilio nell’identificazione degli harmful preferential tax regimes: l’artificiale definizione della base imponibile, la non adesione ai principi internazionali in materia di transfer pricing, la totale esenzione dei redditi di fonte estera, l’accesso ad un ampio spettro di trattati internazionali contro le doppie imposizioni, la possibilità che le aliquote fiscali o le basi imponibili possano formare oggetto di negoziazione con l’autorità fiscale, l’impenetrabilità del segreto bancario, la promozione del regime fiscale preferenziale come strumento di riduzione delle imposte su base internazionale, l’incoraggiamento di operazioni poste in essere esclusivamente per ragioni fiscali (tax driven).
Secondo il report del 1998 entrambe le categorie sopra menzionate pongono in essere pratiche fiscali dannose che influenzano l’allocazione delle attività finanziarie e dei servizi, che erodono le basi imponibili degli altri Paesi, che creano distorsioni nei modelli d’investimento, che minano l’equità e la neutralità dei sistemi fiscali e che incentivano l’elusione e l’evasione fiscale internazionale.
La sezione finale, come sopra accennato nell’esame della struttura del report, contiene 19 Raccomandazioni destinate agli Stati membri, nelle quali l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, preso atto della ridotta efficacia delle iniziative unilaterali o bilaterali intraprese dai Paesi aderenti al fine di mitigare il fenomeno delle pratiche fiscali dannose, suggerisce una serie di misure latu sensu di contrasto. Tra le previsioni, risulta rilevante l’attribuzione di una serie di compiti ad un costituendo Forum permanente sulle misure fiscali dannose, al fine di rendere concrete ed effettive le dichiarazioni di principio contenute nel Rapporto.
Al rapporto del 1998 sono seguiti ulteriori report[5] sulla problematica in oggetto. In particolare, le conclusioni raggiunte nel Rapporto “Harmful tax competition – an Emerging Global Issue”, furono riprese e confermate nel documento Towards Global Tax Cooperation - Progress in identifyng and eliminating Harmful Tax Practices del giugno 2000, all’interno del quale sono tra l’altro individuati 47 regimi fiscali privilegiati “potenzialmente dannosi“ e 35 giurisdizioni qualificabili come “tax haven”.
Il rapporto OCSE del 2000 individua le principali misure di contrasto ai paradisi fiscali non cooperativi. Nello specifico si ritiene a tal fine opportuno: a) evitare la concessione di deduzioni, crediti, esenzioni o altre forme agevolative in riferimento ad operazioni effettuate con paradisi fiscali non cooperativi o ad operazioni che beneficiano dei regimi dannosi da essi applicati; b) favorire lo scambio di informazione, adottando norme in materia di reporting che includano la trasmissione di informazioni puntuali e dettagliate in relazione alle operazioni poste in essere con paradisi fiscali non cooperativi e che prevedano l’applicazione di adeguate sanzioni in caso di informazioni incomplete o mancanti; c) adottare idonee normative antielusive, che comprendano la predisposizione di una regolamentazione in tema di Controlled Foreign Companies[6].
Tale report fu seguito da confronti bilaterali e multilaterali con i Paesi elencati nella lista dei tax havens, approccio questo che fu sostanzialmente confermato nel 2001 in The OECD’s Project on Harmful Tax Practices - The 2001 Progress Report del novembre 2001. Tali confronti portarono ad una serie di impegni ufficiali (cd. commitments) da parte di Paesi inclusi nella lista dei tax havens volti a ridurre le pratiche fiscali dannose[7].
Occorre notare che nel citato report del 2001 si rinviene una significativa modifica dell’ottica accolta nel Rapporto del 1998; difatti, a seguito di un articolato dibattito in seno alla Comunità internazionale[8], l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha eliminato dall’elenco degli elementi che contribuiscono a caratterizzare i tax havens non cooperativi il riferimento al livello di tassazione, ritenendo di dover basare tale qualificazione solamente sul grado di cooperazione dello Stato, e specificamente sui soli criteri di trasparenza e di scambio di informazioni. Viene inoltre abbandonato, al fine della classificazione di un Paese come tax haven, il criterio, fissato nel Rapporto del 1998, dell’assenza di “attività sostanziali”.
Secondo il successivo The OECD's Project on Harmful Tax Practise: the 2004 Progress Report, dei 47 regimi fiscali privilegiati identificati nel 2000, 18 erano stati aboliti o erano in fase di abolizione, 14 erano stati modificati in guisa da elidere le disposizioni dannose e 13 erano stati dichiarati potenzialmente non dannosi.
L’ultimo Rapporto licenziato dall’OCSE, denominato, The OECD’s Project on Harmful Tax Practices: 2006 update on progress in Member Countries, si conclude con l’affermazione del Comitato di aver raggiunto l’obiettivo originariamente assegnato dal Consiglio.
L’OCSE ha dappoi diffuso documenti di sintesi in cui sono individuati gli Stati che hanno sostanzialmente ottemperato alle richieste di adeguamento della propria legislazione fiscale a quanto raccomandato, quelli che hanno dimostrato disponibilità ed implementato alcune azioni volte all’adeguamento della propria legislazione, nonché le giurisdizioni che non hanno ottemperato alle raccomandazioni espresse dall’OCSE, da considerarsi a tutti gli effetti quali tax havens.
La problematica dei tax havens, è stata affrontata per le medesime finalità anche in ambito UE[9]. Nello specifico il Consiglio Ecofin dell’UE il primo dicembre 1997 ha adottato un Codice di Condotta[10] (Code of Conduct), che si propone di disincentivare l’attuazione, da parte degli Stati membri, di misure idonee ad incidere sulla localizzazione delle attività imprenditoriali nel territorio dell’Unione[11], misure che, secondo quanto il Codice si premura di sottolineare, possono derivare da disposizioni legislative, da disposizioni regolamentari o da pratiche amministrative.
Secondo quanto affermato dal Codice di Condotta, al fine di valutare il carattere pregiudizievole delle misure fiscali per il corretto funzionamento del mercato unico, è necessario ponderare e valutare l’eventuale presenza delle seguenti caratteristiche[12]: presenza di un trattamento fiscale effettivo nettamente inferiore rispetto al livello generale ordinariamente previsto, derivante dall'aliquota fiscale nominale, dalla base imponibile o da altri elementi pertinenti; previsione di agevolazioni o altre facilitazioni riservata esclusivamente ai soggetti non residenti o per operazioni effettuate con non residenti; isolamento rispetto all’economia nazionale delle disposizioni contenenti le misure di favore, in guisa tale da non incidere sulla base imponibile nazionale; applicabilità delle misure fiscalmente agevolative anche in assenza di una reale ed effettiva attività economica ovvero di una presenza economica sostanziale all’interno dello Stato membro che propone tali misure di favore; sussistenza di discipline, per la determinazione dei benefici spettanti ad imprese facenti parte di un gruppo multinazionale, che divergono dalle norme generalmente ammesse a livello internazionale; mancanza di trasparenza (lack of transparency).
Nell’approvare il Codice di Condotta in materia di tassazione delle imprese, gli Stati membri si sono impegnati ad evitare di introdurre nei propri ordinamenti misure fiscali pregiudizievoli (c.d. clausola standstill o status quo) modificando nel contempo le leggi e le pratiche amministrative contrarie ai principi stabiliti nel Codice, nonché eliminando (c.d. smantellamento o rollback) nel minor tempo possibile le misure fiscali di carattere non generalizzato idonee ad incidere sensibilmente sulla localizzazione delle attività produttive all’interno dell’Unione europea[13]. Inoltre, gli Stati dell’Unione si sono impegnati a scambiarsi reciprocamente informazioni sulle misure fiscali in vigore o previste che potrebbero rientrare nel campo di applicazione del Codice, ad istituire un gruppo incaricato della valutazione delle misure fiscali che possono rientrare nel campo di applicazione del codice e della supervisione della comunicazione delle informazioni relative a tali misure, nonché a promuovere l'adozione dei principi diretti ad eliminare le misure fiscali dannose nei Paesi terzi e nei territori cui non si applica il Trattato. In particolare, gli Stati membri che hanno territori dipendenti od associati o che hanno particolari responsabilità o prerogative fiscali su altri territori si sono impegnati, nell'ambito delle rispettive norme costituzionali, a garantire l'applicazione di tali principi nei suddetti territori.
Ad un apposito gruppo istituito dal Consiglio dei Ministri Ecofin nel 1998 è affidata la valutazione delle misure che possono rientrare nel campo di applicazione del Codice di Condotta, e la predisposizione di appositi rapporti a scadenze regolari. Seppure nel corso di tali lavori si siano manifestati frequenti dissidi tra Stati membri nonché con la stessa Commissione europea[14], i risultati complessivi non possono che dirsi positivi[15].
Nel raffronto tra il Rapporto OCSE ed il Codice di condotta si possono certamente notare significativi punti di contatto[16], pur non mancando tuttavia rilevanti distonie. Le principali disarmonie fra i due documenti sono ravvisabili nell’ambito applicativo, difatti il Codice di condotta riguarda la fiscalità delle imprese mentre le raccomandazioni dell’OCSE non hanno ad oggetto i redditi d’impresa nel senso tradizionale del termine; in aggiunta nel Codice di condotta vengono considerate come misure di concorrenza fiscale dannosa quelle relative alla tassazione delle imprese che condizionano, ovvero sono suscettibili di condizionare, in modo rilevante la scelta dell’ubicazione di attività imprenditoriali nel territorio della Comunità. Taluna dottrina[17], quanto al rapporto intercorrente tra i due documenti, ha ritenuto che il Codice di Condotta si configuri come “una sorta di una premessa (politica) alla analisi (tecnica) del Rapporto”.
3.2. Tax havens[18].
La maggior parte dei contributi scientifici aventi ad oggetti il fenomeno dei tax havens sono concordi nell’affermare la mancanza di una chiara ed univoca definizione di tax haven[19] ovvero la relatività di una tale definizione[20].
Dai primi anni 80[21] nella più parte di apporti scientifici in materia si comincia ad indicare, quale tratto distintivo dei tax havens, l’assenza di imposizione ovvero la presenza di aliquote puramente nominali.
I primi tentativi elaborati a livello internazionale, volti ad individuare, in modo sistematico, i criteri decisivi in base ai quali identificare un paradiso fiscale vengono compiuti in sede di Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; già prima della predisposizione del Rapporto del 1998 (Harmful tax competition – an emerging global issue), di cui si è detto supra, un primo studio venne licenziato, nell’ambito del Comitato Affari Fiscali dell’Organismo, nei primi anni ’80 ed ha portato alla pubblicazione del rapporto “L’évasion et la fraude fiscale internationales – Quatre études” del 1987. In detto scritto si indicano, quali caratteristiche tipizzanti dei paradisi fiscali “classici”: la presenza di un livello impositivo minimo o nullo su redditi, capitali e transazioni; la vigenza di una normativa sul segreto bancario e commerciale; la rilevanza del settore bancario, e specialmente di quello c.d. offshore; l’assenza di controlli sui cambi nei confronti dei non residenti; la sussistenza di agili collegamenti aerei, marittimi e di telecomunicazione; l’assenza di convenzioni per evitare le doppie imposizioni o l’esistenza di convenzioni con clausole restrittive in riferimento allo scambio di informazioni ovvero contenenti disposizioni idonee ad essere utilizzate con finalità elusive; fattori vari, tra i quali risultano maggiormente rilevanti la stabilità politica e finanziaria del Paese, il trattamento di favore in riferimento ai capitali esteri e la presenza di avvocati e consulenti in loco.
Come visto supra in sede OCSE vi è stata una forte mutazione di prospettiva. Mentre infatti, nel valutare se uno Stato od un territorio potesse o meno qualificarsi tax haven, nel rapporto del 1998 si indicano quattro elementi (no or only nominal taxes; lack of effective exchange of information; lack of transparency; no substantial activities), nel report del 2001 i riferimenti al livello di tassazione ed allo svolgimento di attività sostanziali vengono meno, divenendo conseguentemente determinanti gli elementi della mancanza di informazioni e dell’assenza di trasparenza.
La trattazione fin’ora condotta potrebbe spingere, essendo volta alla ricerca dei tratti comuni caratterizzanti i tax havens, a guardare al fenomeno come ad un unicum, in realtà diversi tax havens presentano differenti sfaccettature, conseguentemente è un errore pensare che ogni tax haven possieda i medesimi caratteri posseduti dagli altri; difatti vi sono alcuni Stati che sono considerati tax haven solo per alcuni soggetti societari e non per altri, altri Stati che sono considerati tali solamente per alcuni tipi di attività svolti da particolari soggetti societari, altri ancora che sono ritenuti tali solo per alcuni territori del loro Paese ma non per tutti, altri che risultano vantaggiosi per le persone fisiche ma non per le persone giuridiche o viceversa, ed altri ancora che sono considerati paradisi fiscali tout court. Molte sono le variabili potenzialmente in grado di spostare la preferenza (rectius: la convenienza) da un Paese ad un altro e si tratta di parametri o criteri che non rivestono sempre e soltanto natura fiscale[22].
Nel tentativo di trovare tratti comuni tra gli Stati considerati paradisi fiscali, la dottrina[23] ha proposta la seguente ripartizione:
a) Pure tax havens. Rientrano in tale categoria Stati che non prevedono imposte sul reddito, sulla ricchezza, di successione e donazione, nei quali è possibile costituire con estrema facilità una società o/o un trust e nei quali è rigidamente garantito il segreto bancario. Le autorità locali percepiscono in ogni caso alcune entrate dagli organismi giuridici ivi costituiti, tuttavia trattasi di entrate tendenzialmente fisse, indipendenti dalla produzione di un reddito, quali imposte annuali di registrazione, imposte di bollo e via discorrendo (si tratta della c.d. tax haven industry)[24]. Spesso nei no tax havens è possibile optare per una delle seguenti alternative: operare localmente ma essere soggetti, in caso siano istituiti, ad eventuali imposte sul reddito; non operare localmente ed avere la garanzia che per un certo arco temporale non si sarà soggetti ad imposizione (ciò si traduce nella facoltà di costituire exempt company).
b) No tax foreign income havens[25]. Tali Stati sottopongono ad imposizione solamente il reddito prodotto localmente dalle persone fisiche o giuridiche. Prevedono invece un’esenzione in riferimento al reddito estero ed alle attività riconducibili alla c.d. economia domestica, sicché non sarà sottoposto ad imposizione, a titolo esemplificativo, il reddito derivante dall’esportazione di manufatti locali.
c) Low tax havens. Rientrano in tali categoria Stati che impongono un esiguo onere fiscale sul reddito prodotto. Un gran numero degli Stati ricadenti in tale categoria[26] hanno stipulato accordi contro le doppie imposizioni.
d) Special tax havens. Gli ordinamenti degli Stati rientranti in tale categoria, pur prevedendo un livello impositivo normale, consentono la possibilità di costituire organismi giuridici peculiari che si prestano ad essere agevolmente utilizzati per operare economicamente, oppure prevedono esenzioni per lo svolgimento di talune attività[27].
[1] L’O.C.S.E. (acronimo di Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) – nel contesto internazionale si parla di OECD (organisation for economic co-operation and development) – è stata istituita il 30 settembre 1961 a seguito della soppressione dell’O.E.C.E., organizzazione creata nel 1948 per amministrare il c.d. Piano Marshall, nell’ambito della ricostruzione postbellica dell’economia europea. Attualmente aderiscono a tale Organizzazione 30 Paesi a cui si aggiunge la Comunità Europea (dati provenienti da www.oecd.org). Gli obiettivi dell’O.C.S.E. sono indicati nella Convenzione istitutiva e consistono nel: a) realizzare più alti livelli di crescita economica, di occupazione e del tenore di vita, garantendo il mantenimento della stabilità finanziaria; b) contribuire allo sviluppo dei paesi non membri; c) promuovere e liberalizzare il commercio mondiale su base multilaterale e non discriminatoria.
[2] Queste le finalità indicate dal quarto paragrafo dell’introduzione al Rapporto.
[3] Per un commetto al report del 1998 (Harmful Tax Competition: an Emerging Issue) cfr. F. ANDREOLI , Il rapporto OCSE sulla concorrenza fiscale dannosa, in Rivista di diritto tributario n. 1/1999, 7 e ss.
[4] La mancanza di tale previsione si traduce plausibilmente nell’incentivo a creare cd. “società di rifatturazione” e, in generale, strutture puramente “cartacee”, ove i profitti sono meramente contabilizzati in capo ad una struttura localizzata nel tax haven, senza che vi corrisponda una effettiva attività svolta sul territorio.
[5] Sul punto P. OCCHIUTO, “Concorrenza fiscale dannosa” in ambito OCSE e collegamenti con il diritto tributario interno, in Corriere tributario, n. 25/2002, 2227 ss; PINTO, The OECD 2001 Progress Report on Harmful Tax Competition, in European Taxation, 2002, 41 ss.
[6] Si rinvia al Capitolo IV per l’analisi della normativa italiana in materia.
[7] Ad oggi, sono ancora tre le giurisdizioni (Andorra, Liechtenstein, ed il Principato di Monaco) che figurano sulla lista Ocse dei paradisi fiscali non cooperativi.
[8] M. MEAZZA, Paradisi fiscali, l’OCSE corregge la rotta, in Il Sole 24-Ore, 25 giugno 2001, 3, riporta la dura presa di posizione del segretario di Stato americano, Paul O’Neill, sulla inaccettabilità del criterio del “livello di tassazione”.
[9] Cfr. Commissione CE, Verso il coordinamento fiscale nell’Unione europea. Un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM (97) 495 finale, Bruxelles, 1997; Commissione CE, Un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM (97) 564 finale, Bruxelles, 1997, che hanno portato all’adozione del Codice di condotta concernente la tassazione delle società, contenuto nel c.d. “pacchetto Monti”.
[10] Sulla natura di tale atto, in “F. ROCCATAGLIATA, Diritto tributario comunitario, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, Cedam, 2005, 1255, si evidenzia che il Codice di condotta non può definirsi un atto giuridico vincolante, ma un c.d. gentlement's agreement. Si tratta, in sostanza, di un impegno formale assunto, a livello politico, dai governi degli Stati membri.
[11] Un commento al Codice di condotta si ritrova, ex multis, in G. ROLLE, Mercato interno e fiscalità diretta nel Trattato di Roma e nelle recenti iniziative della Commissione europea, in Diritto e Pratica Tributaria, n. 1/1999, 57 ss.
[12] G. GOGLIA, Abrogato il regime agevolativo delle holding lussemburghesi, in Corriere tributario n. 43/2006, 3422.
[13] G. MELIS, Spunti sul “metodo di coordinamento fiscale aperto” quale possibile strumento per l’integrazione fiscale tra Stati dell’Unione Europea e Stati terzi, in diritto e pratica tributaria internazionale, n. 1/2008, 211.
[14] F. ROCCATAGLIATA, Diritto tributario comunitario, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, CEDAM, 2005, 1258, nota 137), segnala che la Commissione europea nel luglio 2003 ha presentato un ricorso alla Corte di giustizia richiedendo l'annullamento della decisione del Consiglio che autorizza il Belgio ad applicare fino al 2005 il suo regime fiscale preferenziale anche ai centri di coordinamento la cui autorizzazione scadeva prima di tale data. Secondo la Commissione, l'iniziativa del Consiglio era illegale, in quanto adottata in data successiva alla decisione negativa definitiva della stessa Commissione (del 17 febbraio 2003) presa nell'ambito dei suoi poteri esclusivi in materia di aiuti di Stato (comunicato stampa IP/03/1032 del 16 luglio 2003).
[15] Difatti dal 1998 ad oggi gli Stati membri sembrano essersi astenuti dall'introdurre nuove misure fiscali potenzialmente pregiudizievoli secondo le disposizioni del codice di condotta. Inoltre alcuni progetti di legge sono stati trasmessi in via preventiva all'esame del gruppo e molte misure suscettibili di rientrare nell'ambito di applicazione dei Codice sono state ritirate ben prima della data finale prevista dal Codice o sono in via di graduale eliminazione. Vedi Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo Prima relazione annuale sull'applicazione del Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese e degli aiuti di Stato di carattere fiscale; documento COM (1998) 595 finale dei 25 novembre 1998. Con specifico riguardo allo Stato italiano, giova mettere in luce lo spontaneo adeguamento agli impegni presi il 1° dicembre 1997 deducibile dal mancato avvio dell'attività al centro finanziario di Trieste nonostante quest’ultimo avesse ottenuto l'autorizzazione ad operare dalle stesse autorità comunitarie, ma in epoca precedente all'approvazione del codice di condotta. Per quanto concerne i profili di correlazione rinvenibili tra le politiche comunitarie in materia di concorrenza e di fiscalità, cfr. M. MONTI, How 'Tax Aids Affects Competition, in EC Tax Review, Kluwer, 1999, 4, 208.
[16] Lo stesso Rapporto OCSE ammette la sussistenza di numerosi elementi di comunanza con il Codice di Condotta. Per un esame della stretta relazione esistente tra il Codice di condotta e le altre proposte comunitarie facenti parte del cd. pacchetto di misure contro la concorrenza fiscale dannosa si vedano non solo le stesse conclusioni del Consiglio Ecofin che ha approvato il Codice di condotta il 1° dicembre 1997 (GUCE 6 gennaio 1998, C2, 2/01, cit.), ma anche quanto affermato dalla Commissione nei due documenti preparatori al predetto Consiglio Ecofin: COMMISSIONE CE, Verso il coordinamento fiscale nell'Unione europea, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM (97) 495 finale, Bruxelles, 1° ottobre 1997; e COMMISSIONE CE Un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa nell'Unione europea, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM (97) 564 finale, Bruxelles, del 5 novembre 1997.
[17] Cfr. G. MARINO, La considerazione dei “paradisi fiscali” e la sua evoluzione, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, Cedam, 2005, 894.
[18] L’espressione “paradiso fiscale” trae origine dalla locuzione inglese tax haven (lett. rifugio fiscale) e dall’impropria, ma certamente suggestiva, traduzione fattane dai francesi (che parlano di paradis fiscaux). In questa sede si eviterà la riproposizione delle varie classificazioni presenti in dottrina (si distingue infatti ad esempio tra tax haven interni ed esterni, tax haven personali e societari, tax haven fiscali e bancari, etc.), riesaminate ex multis da G. PEZZUTO, Paradisi fiscali e finanziari, Milano, 2001, a cui pertanto si rinvia.
[19] Lo stesso Report dell’OCSE on Harmful Tax competition: an emerging global issue, ammette che il concetto di tax haven “...does not have a precise technical meaning”; sulla mancanza di una definizione univoca vedi P. VALENTE, Elusione fiscale internazionale: strumenti unilaterali di contrasto e disposizioni convenzionali in materia di treaty shopping, in Diritto e Pratica tributaria n.2/98, , 11 ss. Lo stesso Autore (in VALENTE, Fiscalità Sopranazionale, Il Sole 24-Ore, Milano, 2006, 448) nell’azzardarne una definizione, afferma che i paradisi fiscali sono “giurisdizioni autonome che finanziano la propria spesa pubblica senza prelevare imposte sui redditi né imporre alcun carico fiscale ai propri contribuenti (se non in misura trascurabile), presentandosi così come mete ambite per le imprese che vi si rifugiano per evitare di essere sottoposte a livelli di tassazione elevata nei paesi a cd. fiscalità ordinaria”. Nel contesto internazionale è discretamente conosciuta la definizione fornita dal Black’s Law Dictionary, secondo il quale per tax haven deve intendersi “a country that imposes little or no tax on profit from the transactions carried on from that country” (Cfr. B. A. GARNER, Black’s Law Dictionary, 7th ed., West Group, 2001, 1474). Nota è anche la definizione avanzata all’interno del The Modern Dictionary for the Legal Profession, secondo cui tax haven è un “tax shelter in a foreign countries that is preferable to other countries because of that countrie’s educated labour force, modern commerce system, advanced equipment and technology, good transportation, and good climate”, in G. W. BEYER, Modern Dictionary for the Legal Profession, II ed., William S. Hein & Co, Inc., Buffalo, New York, 1996, 751. Secondo C. GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005, un tax haven classico può essere considerato come una giurisdizione che si presta attivamente all’elusione delle imposte che sarebbero state altrimenti pagati negli Stati a fiscalità elevata.
[20] M. LUPOI, Tax Havens, (voce), Enciclopedia Giuridica Treccani, 1, Roma, 1995, secondo il quale: “La nozione di tax haven è, pertanto, eminentemente, relativa; sul piano internazionale, la relatività consiste non solo nel tipo di tassazione che viene evitata (dalla quale, cioè, si è al “riparo”), ma anche dal suo livello che si avrebbe senza il ricorso al Tax Haven.
[21] Si veda a titolo esemplificativo V. UCKMAR, Tax Evasion and tax avoidance – General Report – IFA Congress, Florence, 1983, 41, secondo il quale “....the concept of tax haven is generally taken to mean a country withno - or low tax – on resident and non-resident individuals and corporate entities”.
[22] Per una disamina dettagliata cfr. P. VALENTE, Elusione fiscale internazionale: strumenti unilaterali di contrasto e disposizioni convenzionali in materia di treaty shopping, in Diritto e pratica tributaria n. 2/1998, 22 e ss.; G. PEZZUTO, Paradisi fiscali e finanziari: la pianificazione fiscale internazionale, le indagini internazionali del fisco e della magistratura, Milano, 2001, 4-15. BORIO G. F., La pianificazione fiscale internazionale. Questioni attuali e prospettive future, Milano, 2002.
[23] BARTIMMO M., Guida al paradiso fiscale, in Commercio Internazionale n.22/1992, p.1341. Vedi anche BORIO G. F., La pianificazione fiscale internazionale. Questioni attuali e prospettive future, Milano, 2002, 47 e ss.
[24] Spesso gli Stati rientranti in tale categoria sono luoghi di villeggiatura, come ad esempio Bahamas o Bermuda, privi di qualsiasi risorsa economica e dunque spinti ad attirare investitori esteri.
[25] Ne costituiscono un esempio Liberia e Panama.
[26] A tale categoria, a titolo esemplificativo, possiamo ricondurre le British Virgin Islands.
[27] Alle categorie menzionate taluni aggiungono i c.d. Immigration countries, ossia Paesi che per ragioni di sottoaffollamento, favoriscono l’ingresso delle persone fisiche, garantendo loro l’assenza di imposte su vitalizi e rendite provenienti dal Paese di origine.
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