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Diritto al rimborso. Doveva essere esaminata la fondatezza delle contestazioni sollevate dalla società ricorrente sul diritto al rimborso. Cassazione accoglie il ricorso del contribuente.

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Estratto: “(...) è consolidato in giurisprudenza il principio per cui, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito di imposta, l'azione volta al relativo recupero è sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale, sulla cui decorrenza non incidono né il limite temporale stabilito per il controllo formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né i limiti alla proponibilità della relativa eccezione, posti dall'art. 2, comma 58, della legge 24 dicembre 2003, n. 350: la prima disposizione è volta, infatti, ad imporre un obbligo dell'Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all'esercizio dei diritti del contribuente, mentre la seconda contiene un mero invito rivolto agli uffici, non suscettibile di applicazione diretta da parte del giudice (v., per tutte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7706 del 27/03/2013 Rv. 626121 — 01)”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5,

Ordinanza n. 33018 del 14 dicembre 2019

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 406/41/2013, depositata in data 25 ottobre 2013, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso proposto in data 11.5.2011 dalla S.B.S. con unico socio contro il silenzio rifiuto della Agenzia delle Entrate — Direzione Provinciale di Milano sulla istanza, presentata il 31.12.2010, di rimborso del credito IVA dell'importo di euro 112.423,70 derivante da pretesi versamenti effettuati in eccesso per l'anno di imposta 2006.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva in proposito la eccezione di decadenza del diritto al rimborso, proposta dalla Agenzia delle Entrate ai sensi dell'art. 21, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, ritenendo tardiva la istanza in relazione alla tipologia del credito IVA richiesto a rimborso, derivante da pretesi versamenti effettuati in eccesso che, ai fini del diritto al rimborso, avrebbero dovuto essere riconosciuti dall'Ufficio.

Con l'atto di appello, depositato in data 6.5.2014, la contribuente deduceva difetto di motivazione della sentenza di primo grado poiché la domanda di rimborso era fondata sul principio di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. ovvero sul diritto soggettivo di ottenere il rimborso di quanto pagato senza giusta causa che legittimavano la azione di ripetizione dell'indebito, come era comunque noto all'Ufficio, in quanto ne aveva confermato la esistenza mediante la comunicazione di irregolarità del 22.1.2010 e la identificazione nel software Serpico di un credito di euro 65.508,00.

La Agenzia delle Entrate opponeva il difetto di giurisdizione del giudice tributario con riguardo alla eccezione di indebito oggettivo e / o di ingiustificato arricchimento e, nel merito, che era intervenuta in ogni caso la decadenza biennale della domanda di rimborso poiché la comunicazione di irregolarità non aveva riconosciuto alcun credito IVA in capo al contribuente, bensì aveva soltanto menzionato un maggior credito da verificare. Decidendo sull'appello, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza n. 1898/12/2015, depositata in data 7 maggio 2015, ha confermato la sentenza di primo grado e compensato le spese.

La CTR ha rilevato, preliminarmente, la "non infondatezza della eccezione posta in appello relativa al difetto di motivazione della sentenza impugnata correlata all'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., ovvero al diritto soggettivo dell'appellante ad ottenere il rimborso di quanto pagato senza giusta causa, e nell'esercizio dell'azione per indebito oggettivo ex art. 2041 c. c. in quanto l'esperimento di tale azione può essere promossa solo presso il competente Giudice Ordinario, rilevando in capo al Giudice Tributario a cui è rivolta il difetto di giurisdizione", ma, quindi, decidendo nel merito, ha confermato la intervenuta decadenza dal diritto al rimborso del credito IVA relativo alla annualità di imposta 2006 poichè la domanda di rimborso era stata presentata solo nel 2010, in violazione dell'art. 21 comma 2 del D. Lgs. n. 546 del 1992, "trattandosi di una pretesa eccedenza di versamenti di IVA che, ai fini della restituzione, avrebbe dovuto essere riconosciuta dall'Ufficio". Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso il contribuente con atto presentato per la notifica il 7.12.2015, pervenuto alla notificata in data 18.12.2015, affidato a sei motivi di ricorso e successiva memoria.

La Agenzia delle Entrate si è costituita al solo fine di partecipare alla eventuale udienza di discussione della causa ex art. 370 comma 1 cpc.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo di ricorso la società B.S. lamenta, con riguardo alla prima parte della motivazione della sentenza di appello, la violazione degli artt. 2033 e 2041 del c.c., in relazione al vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 cpc, per avere il giudice di appello configurato la giurisdizione del giudice ordinario, pur senza indicare il motivo alla base di tale decisione, benchè, in base alla giurisprudenza consolidata delle sezioni unite della Corte di Cassazione, richiamata dalla contribuente fin dal giudizio di merito, la giurisdizione del giudice ordinario sussistesse nella sola ipotesi di riconoscimento da parte della Amministrazione Finanziaria del diritto del contribuente al rimborso del credito IVA senza alcuna riserva e con precisa quantificazione del rimborso, mentre nella specie la situazione era ben diversa posto che l'Ufficio aveva negato ripetutamente di avere proceduto alla ricognizione del credito ed anche la comunicazione di irregolarità, notificata in data 22.1.2010, avendo indicato a pagina 3 un "maggior credito da verificare rivolgendosi ad un qualsiasi ufficio dell'Agenzia delle Entrate", aveva escluso in radice che il credito IVA fosse stato riconosciuto dall'Ufficio impositore nel suo esatto ammontare. 1.1. Con il secondo motivo, in una prospettiva subordinata rispetto al primo motivo, lamenta poi la contraddittorietà e la illogicità manifesta della sentenza impugnata che si traduceva in violazione di legge costituzionalmente rilevante ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, poiché l'affermato difetto di giurisdizione del giudice tributario avrebbe impedito al giudice di appello di entrare nel merito e di formulare statuizioni inconciliabili con la affermata carenza di giurisdizione.

1.2. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, considerata la loro connessione, colgono in parte nel segno laddove affermano che erroneamente la sentenza di appello, nella prima parte della motivazione, avrebbe escluso la giurisdizione del giudice tributario.

1.3. Pur con espressioni non completamente chiare, la sentenza di appello afferma infatti il difetto di motivazione della sentenza di primo grado - così come prospettato con specifico motivo di appello dalla società B.S. per contrastare la tesi della Agenzia delle Entrate che aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice tributario in relazione alla domanda di indebito oggettivo o di ingiustificato arricchimento promossa dalla società ricorrente - poichè la azione di ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2041 c.c. sarebbe in effetti appartenuta alla giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice tributario.

1.4. Tale affermazione, come sostenuto nel primo motivo di ricorso per cassazione, è certamente erronea poiché le azioni di rimborso di imposte appartengono tutte alla giurisdizione tributaria.

Fin dal 2001 le sezioni unite di questa Corte hanno affermato il principio per cui tutte le azioni di rimborso di imposte sono devolute alla giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie, posto che l'art. 19, lett. g) del D.L. n. 546 del 1992 (come già l'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972) non limita o modifica il criterio generale di attribuzione della giurisdizione siccome fissato nell'art. 2 (già art. 1 del d.P.R. n. 636 del 1972), e pertanto non autorizza discriminazioni fra controversie aventi ad oggetto il rifiuto di rimborsi d'imposte già originariamente non dovute (in quanto tali rimesse ordinariamente alla cognizione delle commissioni tributarie) e controversie concernenti il diritto al rimborso nascente da fatti successivi al compimento dell'operazione imponibile (in quanto tali suppostamente rimesse invece alla giurisdizione del giudice ordinario), ma si limita - nell'ambito oltretutto di tutto un più generale sistema che nega la possibilità di configurare in campo tributario un'azione indirizzata alla ripetizione dell'indebito nei termini di cui all'art. 2033

del codice civile e con la conseguente devoluzione delle relative controversie al giudice ordinario - a prevedere un'azione generale di rimborso, individuando uno specifico atto (il rifiuto di restituzione) la cui impugnazione costituisce un veicolo necessario per l'introduzione del processo innanzi alle commissioni tributarie (v. Sez. U, Sentenza n. 207 del 14/05/2001 Rv. 546638 — 01).

Tale principio è stato sempre mantenuto fermo successivamente nel senso che l'azione di ripetizione dell'indebito, sia soggettivo che oggettivo, nel diritto tributario, si traduce nella possibilità di presentare istanza di rimborso, trovando applicazione l'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, oltreché in caso di errore materiale, in quello di inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento e, dunque, in maniera indifferenziata in tutte le ipotesi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell'errore al versamento, all"an" od al "quantum" del tributo (v. Cass. Sez. 5 - n. 14608 del 29/05/2019 Rv. 654112 — 01 e precedenti conformi).

La giurisdizione del giudice ordinario, in tema di rimborso di tributi è, per converso, limitata al solo caso in cui non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione, il "quantum" della restituzione e le modalità della sua esecuzione, attesa la riserva alle commissioni tributarie, disposta dall'ad. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di tutte le cause di cognizione aventi ad oggetto tributi per cui vi sia contestazione di qualsiasi genere, anche semplicemente relativa al quantum ed alle modalità di restituzione (v. Sez. U, Sentenza n. 25931 del 05/12/2011 Rv. 620050 — 01).

1.5. Occorre tuttavia aggiungere che l'erronea affermazione del difetto di giurisdizione del giudice tributario sulla domanda di rimborso di IVA, contenuta nella prima parte motivazionale della sentenza impugnata, di cui si è doluta la ricorrente con i primi due motivi di ricorso, si è rivelata peraltro irrilevante ai fini della decisione del giudice di appello, il quale, non solo nel dispositivo non ha fatto il minimo accenno a tale affermazione, poiché ha confermato integralmente la sentenza di primo grado emessa sul presupposto della giurisdizione del giudice tributario, ma non ne ha tratto neppure le conseguenze derivanti dal difetto di giurisdizione posto che ha sùbito dopo deciso la controversia nel merito sulla base, appunto, del presupposto della giurisdizione tributaria. 1.6. Ciò posto, è principio consolidato quello per cui, laddove si discuta della corretta interpretazione di norme di diritto, il controllo del giudice di legittimità investe direttamente anche la decisione e non è limitato soltanto alla plausibilità della giustificazione, sicché, come desumibile dall'ad. 384, comma 4, c.p.c., il giudizio di diritto può risultare incensurabile anche se mal giustificato perché la decisione erroneamente motivata in diritto non è soggetta a cassazione ma solo a correzione quando il dispositivo sia conforme al diritto (v., per tutte, Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20719 del 13/08/2018 Rv. 650017 — 01; n. 13086 del 24/06/2015 Rv. 635730 — 01).

1.7. Nella specie, essendo stata dedotta con il ricorso per cassazione la violazione delle regole di diritto sul riparto della giurisdizione e quindi la violazione di una norma di diritto, per avere il giudice di appello erroneamente affermato dapprima che la azione di ripetizione dell'indebito apparteneva al giudice ordinario, ma poi ritenuto la propria giurisdizione e quindi deciso nel merito la controversia, alla luce del sopraesposto principio, non rilevano, quindi, i vizi motivazionali della decisione impugnata, perché, come si desume dall'ad. 384 c.p.c., quando viene sottoposto a sindacato il giudizio di diritto, il controllo del giudice di legittimità non è limitato alla plausibilità della giustificazione, ma investe direttamente anche la decisione (v., per tutte, Cass., sez. 3, 6 luglio 1973, n. 1935, m. 365027, Cass., sez. 1, 13 giugno 1972, n. 1863, m. 358896). Sicché un giudizio di diritto potrà risultare incensurabile anche se mal giustificato, perché, secondo quanto prevede appunto l'ad. 384 c.p.c., comma 4, la decisione erroneamente motivata in  diritto non è soggetta a cassazione, ma solo a correzione da parte della corte, quando il dispositivo sia conforme al diritto (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054, m. 605546). 1.8. Anche il ricorso per cassazione che denunci, in ipotesi, il vizio di motivazione della sentenza, perché meramente apparente, in violazione dell'art. 132 c.p.c., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell'appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell'art. 384 c.p.c. (v. Cass., Ordinanza n. 6145 del 01/03/2019 Rv. 653076 —01).

1.9. Ne consegue che, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha apoditticamente affermato, senza incidenza sul dispositivo e sulla ulteriore motivazione della stessa sentenza, che la azione di ripetizione dell'indebito tributario appartiene alla giurisdizione ordinaria, mentre invece appartiene a quella tributaria, il primo motivo di ricorso — assorbito il secondo motivo — deve essere rigettato poiché ha sentenza ha deciso nel merito la azione proposta sul presupposto della propria giurisdizione.

2. Il terzo ed il sesto motivo possono essere ugualmente esaminati congiuntamente poiché attinenti, entrambi, al preteso riconoscimento del credito IVA da parte dell'Ufficio finanziario.

2.1. Con il terzo motivo la ricorrente si duole, sempre ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, del travisamento dei fatti di causa e della violazione del principio di non contestazione di cui all'art. 115 cpc, applicabile anche al processo tributario, poiché la omessa contestazione in giudizio, da parte dell'Ufficio, del credito IVA vantato dalla contribuente, configurava l'acquiescenza dell'Ufficio alla spettanza del diritto al rimborso.

2.2. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta, poi, la omessa pronuncia ed omessa motivazione su fatti decisivi del giudizio, in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, con riferimento agli artt. 2944 c.c., 112 e 132 cpc, 18 Dispos. Att. cpc e 1, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1991, per non avere la sentenza impugnata considerato che la decadenza era stata interrotta dal riconoscimento del diritto al rimborso insito nella comunicazione di irregolarità notificata alla parte nel 2010, così come indicato nell'atto di appello e nella memoria difensiva, il che rendeva "singolare che l'Amministrazione finanziaria nel gennaio del 2010 avesse comunicato al contribuente che occorreva indicare un maggior credito in dichiarazione".

2.3. Il terzo motivo, dedotto sotto il profilo della violazione di legge, è inammissibile.

2.4. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, come nel caso in esame in cui si deduce un travisamento dei fatti della causa - per avere l'Ufficio riconosciuto un maggior credito IVA senza trarne poi le dovute conseguenze - inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (v. per tutte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 —01; n. 195 del 11/01/2016 Rv. 638425 — 01; Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 — 03).

2.5. In ogni caso, pur essendo pacifico che il principio di non contestazione, di cui all'art. 115, comma 1, c.p.c., si applica anche nel processo tributario, pur se, attesa l'indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l'esistenza (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 12287 del 18/05/2018 Rv. 648373 - 01), dovendo essere coordinato con quello, correlato alla specialità del contenzioso, secondo cui la mancata specifica presa di posizione dell'Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente in via subordinata non equivale ad ammissione dei fatti posti a fondamento di essi, né determina il restringimento del "thema decidendum" ai soli motivi contestati (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 7127 del 13/03/2019 Rv. 653319 — 01; N. 23710 del 2018 Rv. 650522 - 01, N. 29613 del 2011 Rv. 621057 — 01), tuttavia è altrettanto pacifico, sulla base di una giurisprudenza di questa Corte ampiamente consolidata, che tale principio opera tra parti, entrambe presenti nel giudizio, in relazione a fatti che siano stati chiaramente esposti da una parte, e non siano stati contestati dalla controparte, che pure ne abbia avuto l'opportunità.

La parte che lo invochi, pertanto, in sede di impugnazione è gravata dell'onere di indicare specificamente in quale parte dell'incartamento processuale il fatto sia stato esposto, al fine di consentire al giudice di verificare la chiarezza dell'esposizione, e se la controparte abbia avuto occasione di replicare ed abbia o meno concretamente replicato.

2.6. L'odierno ricorrente non ha rispettato questi precisi oneri processuali, ed anzi neppure ha chiarito a quali fatti, che dovrebbero ritenersi non contestati, ha inteso operare riferimento, poiché da un lato, ha sostenuto genericamente che l'Ufficio non avrebbe posto in discussione con le proprie difese l'entità del credito IVA, ma nel contempo ha riconosciuto che, al contrario, lo stesso Ufficio aveva reiterato nel giudizio la contestazione già formulata nella comunicazione di irregolarità notificata in data 22.1.2010, per cui si trattava di un "maggior credito da verificare rivolgendosi a qualsiasi ufficio della Agenzia delle Entrate".

Dalla sentenza impugnata pag. 1) risulta poi che, nella costituzione in grado di appello, l'Ufficio aveva ribadito che la somma indicata come credito dal contribuente non rappresentava un credito riconosciuto dall'Ufficio, bensì una pretesa di maggiore credito ancora tutta la verificare da parte della Agenzia, così come d'altronde indicato nella comunicazione di irregolarità notificata alla contribuente nel 2010, per cui è da escludere che vi stato un riconoscimento della esistenza e della entità del preteso credito IVA da parte della Agenzia delle Entrate, mentre invece risulta provato che la Agenzia ha sempre fatto valere, anche come specifica deduzione in appello, la propria difesa consistente nel difetto di allegazione e di prova, da parte del contribuente (gravato del relativo onere), dei fatti costitutivi del proprio credito che erano ancora tutti da provare.

2.7. Il sesto motivo è ugualmente inammissibile poiché, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d'impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l'omessa motivazione, che richiede l'assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d'ufficio, e l'insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d'appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro.

L'esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l'apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira invero a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (v. per tutte, Cass. Sez. 1-, Ordinanza n. 26874 del 23/10/2018 Rv. 651324 — 01). 2.8. In ogni caso la doglianza sarebbe pure infondata poiché dallo stesso ricorso per cassazione risulta chiaramente che la Agenzia delle Entrate, non solo non ha mai riconosciuto la sussistenza del credito IVA, ma lo ha anzi espressamente contestato nel giudizio, come emerge pure dalle difese della Agenzia trascritte nella sentenza impugnata e dal contenuto del primo motivo di ricorso per cassazione con cui la ricorrente sostiene la giurisdizione del giudice tributario proprio perchè la Amministrazione Finanziaria aveva sempre contestato la sussistenza del credito.

3. Sono invece fondati il quarto motivo e il quinto motivo di ricorso, fra di loro collegati, con cui la ricorrente deduce l'errore di diritto posto in essere dalla sentenza impugnata, con riguardo alla seconda argomentazione contenuta nella motivazione della stessa, consistente nella applicazione del termine di decadenza biennale di cui all'art. 21 del D. Lgs. n. 546 del 1992 decorrente dal momento del pagamento, poichè nella specie sarebbe invece applicabile il termine di prescrizione ai sensi dell'art. 2946 c.c., in base all'orientamento della Corte di Cassazione per cui, una volta consolidatosi il diritto al credito IVA, la Agenzia è tenuta al rimborso nell'ordinario termine decennale di prescrizione, non potendo invocare alcuna decadenza.

In via subordinata al mancato accoglimento del quarto motivo, lamenta poi che il termine di prescrizione, pur se ritenuto biennale, incominciava a decorrere dal momento in cui il diritto al rimborso dell'IVA versata in misura superiore al dovuto era esercitabile e cioè dopo il decorso di due anni e tre mesi dalla presentazione della dichiarazione annuale, a norma degli artt. 30 e 38 bis del DPR n. 633 del 1972.

In proposito ha dedotto che, nella specie, aveva presentato all'Ufficio, in data 22 luglio 2008, una dichiarazione integrativa per il 2007 (modello integrativo IVA 2007), allegata con il n. 3 al ricorso introduttivo, come risultava pure dalla comunicazione di avvenuto ricevimento allegata al modello IVA (documento n. 2 allegato all'atto di appello), per cui, rispetto alla dichiarazione integrativa, la istanza di rimborso doveva essere ritenuta tempestiva anche con riguardo al termine biennale di cui all'art. 21 del D. Lgs. n. 546 del 1992.

3.1. La ricorrente sostiene, in sostanza, in primo luogo, che, nel caso di richiesta di rimborso di IVA, sarebbe superato da tempo, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, il termine biennale di decadenza per la presentazione della domanda di rimborso, applicandosi soltanto, "una volta consolidatosi il credito", il termine decennale di prescrizione.

3.2. In effetti è consolidato in giurisprudenza il principio per cui, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito di imposta, l'azione volta al relativo recupero è sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale, sulla cui decorrenza non incidono né il limite temporale stabilito per il controllo formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né i limiti alla proponibilità della relativa eccezione, posti dall'art. 2, comma 58, della legge 24 dicembre 2003, n. 350: la prima disposizione è volta, infatti, ad imporre un obbligo dell'Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all'esercizio dei diritti del contribuente, mentre la seconda contiene un mero invito rivolto agli uffici, non suscettibile di applicazione diretta da parte del giudice (v., per tutte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7706 del 27/03/2013 Rv. 626121 — 01).

Infatti, posto che l'indicazione nella dichiarazione di un credito d'imposta costituisce già istanza di rimborso, il corrispondente diritto alla restituzione può essere esercitato a partire dall'inutile decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza contenuta nella dichiarazione, su cui si forma il silenzio-rifiuto, impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. g), del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, senza che sia necessario attendere la scadenza dei termini entro cui l'Amministrazione deve esercitare i propri poteri di liquidazione, controllo formale o accertamento vero e proprio, che non riguardano l'esercizio dei diritti del contribuente (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21734 del 15/10/2014 Rv. 632511 -01).

3.2. In particolare, in tema d'IVA, ai fini del rimborso dell'eccedenza d'imposta, è sufficiente la manifestazione di volontà mediante la compilazione, nella dichiarazione annuale, del quadro "RX4", sebbene non accompagnata dalla presentazione del modello "VR", che costituisce solo un presupposto per l'esigibilità del credito, sicché, anche in caso di cessazione d'attività, nella quale non è possibile portare in detrazione l'eccedenza l'anno successivo, una volta esercitato tempestivamente in dichiarazione il diritto al rimborso, non è applicabile il termine biennale di decadenza, previsto dall'art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma solo a quello ordinario di prescrizione decennale, di cui all'art. 2946 c.c.; ciò in base al principio per cui, ove il credito di imposta sia già desumibile dalle dichiarazioni del contribuente e non sia contestato dall'Amministrazione finanziaria, non è necessaria una specifica istanza di rimborso, che costituisce solo il presupposto di esigibilità per l'avvio del relativo procedimento, per cui non trova applicazione il termine biennale di decadenza previsto dall'art. 21, comma 2, ultima parte, del d.lgs. n. 546 del 1992, ma solo quello di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. (v., per tutte, Cass Sez. 5, Sentenza n. 19115 del 28/09/2016 Rv. 641101 — 01; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 4559 del 22/02/2017 Rv. 643105 - 01).

3.3. Tali principi consolidati e del tutto pacifici sono stati correttamente invocati, nel caso in esame, dalla ricorrente, la quale, avendo indicato il credito nella dichiarazione integrativa IVA 2007, presentata il 22 luglio 2008, rispetto al quale ha poi chiesto nel 2010 il rimborso, aveva attivato con la dichiarazione integrativa l'adempimento relativo alla dichiarazione ed alla volontà di recuperare il credito di imposta, per cui la successiva istanza di rimborso, costituente il presupposto per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso, non era sottoposta al termine biennale di decadenza, trattandosi di credito dichiarato e che, pur non espressamente riconosciuto in sede di controllo automatizzato, non era stato neppure negato, avendo l'Ufficio, con la comunicazione di irregolarità notificata in data 22.1.2010, soltanto rimesso la sua valutazione ad un momento successivo.

3.4. Diverso problema è poi quello della spettanza o meno del rimborso che, in caso di contestazione da parte dell'Ufficio, in base ad una giurisprudenza consolidata di questa Corte, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, può sempre essere provato dal contribuente in sede contenziosa per opporsi ad una richiesta di pagamento da parte dell'Ufficio (v. Cass. Sez. Un. Sentenza n. 13378 del 30/06/2016 Rv. 640206 — 01).

3.5 Così come il credito non si consolida automaticamente qualora l'Amministrazione non abbia adottato alcun provvedimento di liquidazione del credito esposto nella dichiarazione dei redditi ovvero siano decorsi i termini per operare la rettifica, poiché resta sempre fermo il potere di contestazione del credito da parte dell'Amministrazione, senza che, peraltro, ciò contrasti con l'art. 1 del I Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto tale norma garantisce tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati, nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possano ritenersi parte del patrimonio dell'individuo (v., da ultimo Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 25464 del 12/10/2018 (Rv. 650717 — 01; Sezioni Unite N. 5069 del 2016 Rv. 639014 — 01), allo stesso modo Il contribuente che abbia commesso un errore nella dichiarazione dei redditi, dal quale sia derivato un maggiore prelievo fiscale, come dedotto nel caso in esame, può quindi procedere alla correzione chiedendo all'amministrazione il rimborso di quanto pagato in eccesso gravando peraltro sul contribuente, che impugni il silenzio-rifiuto dell'Amministrazione, l'onere di provare, in base alle regole generali, il vantato diritto al rimborso (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 14044 del 23/05/2019 Rv. 654327 — 01; n. 3404 del 2019 Rv. 652522 — 01; N. 29879 del 2017 Rv. 646293 —01; n. 7389 del 2019 Rv. 653324 — 01; n. 25464 del 2018 Rv. 650717); e ciò in base al principio generale per cui, in caso di impugnazione del provvedimento espresso o tacito di diniego del rimborso, il contribuente è tenuto alla dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria, qualora l'Ufficio finanziario contesti nel giudizio, come nel caso in esame, la certezza del credito o si riservi di valutarne la sussistenza (v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12291 del 18/05/2018 Rv. 648374 — 01). 3.6. Non conforme a tali principi è la decisione impugnata laddove ha ritenuto la decadenza dal diritto al rimborso, senza esaminare la fondatezza delle contestazioni sollevate dalla società ricorrente in sede contenziosa in merito alla spettanza del rimborso. 4. La sentenza impugnata va pertanto cassata con riguardo al quarto ed al quinto motivo di ricorso con rinvio alla CTR della Lombardia anche per le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

 La Corte, accoglie il quarto ed il quinto motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese dei giudizio di cessazione, ad altra sezione della CTR della Lombardia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V sezione civile, il 10 settembre 2019.

 

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