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Autotrasportatori: tra aumenti di tasse e controlli fiscali

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Autotrasportatori: tra aumenti di tasse e controlli fiscali

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A finire nella rete della Guardia di Finanza sempre più spesso anche i piccoli imprenditori dediti al trasporto stradale delle merci costretti che da un lato devono combattere con la sempre costante pressione fiscale e nel contempo difendersi da accuse di presunta evasione fiscale.

I principali controlli si soffermano su presunti redditi non dichiarati, sulle imposte presunte non pagate e sui contributi versati ai lavoratori dipendenti.

Secondo talune di queste verifiche, in pratica, gli autotrasportatori indicherebbero nella busta paga dei loro dipendenti una parte della retribuzione quale indennità di trasferta o rimborso chilometrico, al fine di godere di agevolazioni fiscali e contributive.

Tali importi, in sostanza, sarebbero superiori ai chilometri effettivamente compiuti dall’autotrasportatore o, addirittura, sarebbero attribuiti a dipendenti che non avrebbero mai eseguito una trasferta con l’effetto di godere dei vantaggi riconosciuti sotto il profilo fiscale.

Tramite questo meccanismo, secondo i controllori, si abbatterebbe il cuneo fiscale, vale a dire la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro per l’assunzione del personale e l’importo netto percepito da quest’ultimo.

Quello che però non viene detto è che la categoria degli autotrasportatori italiani è notevolmente penalizzata rispetto a quella dei colleghi europei e ciò non solo perché l’Italia ha il costo di esercizio per chilometro più alto di tutta Europa ma anche a causa delle recenti misure fiscali che introducono un maggiore aggravio di tasse.

Il lavoro del “trasfertista”, il quale per contratto presta la propria attività in sedi sempre diverse, è infatti un lavoro molto faticoso che richiede una grande responsabilità ed un grande impegno anche economico che parte sin dall'iscrizione all'Albo nazionale degli autotrasportatori.

A penalizzare gli autotrasportatori italiani, dunque, non solo la fiscalità ma gli elevati costi di esercizio causati sia dalle carenze di infrastrutture ma anche dalle spese assicurative di mezzi, persone e merci, il caro gasolio e, non ultimo, i costi dei pedaggi.

Ciò rende questa categoria professionale penalizzata rispetto agli altri Paesi d’Europa dove il costo chilometrico di esercizio quasi si dimezza rispetto all’Italia.

Per far fronte a questo gap, quindi, i trasportatori italiani sono costretti a viaggiare in rimessa, abbassando molto i costi pur di sostenere la concorrenza transalpina. Ove ciò non bastasse, devono fare anche i conti con i frequenti controlli fiscali attuati da Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate.

Dal punto di vista fiscale/tributario una delle principali preoccupazioni che hanno gli autotrasportatori italiani riguarda, poi, le continue riduzioni delle deduzioni forfettarie relative alle spese non documentate. Questi importi, infatti, rispetto agli anni precedenti sono in grande diminuzione, non solo per quanto riguarda i trasporti effettuati all’interno della Regione di residenza e in quelle confinanti ma anche nel caso di trasporto merci fuori dalle Regioni confinanti.

Con queste riduzioni, e quindi con queste diminuzioni dei benefici fiscali concessi ai già ultratassati autotrasportatori, il rischio è di dare il colpo di grazia ad una categoria che negli ultimi anni ha visto un netto calo dei ricavi ed anche una grande chiusura di imprese.

Vediamo, quindi, alcuni casi in cui gli autotrasportatori si sono difesi contro l’Agenzia delle Entrate vincendo il relativo processo

Corte di Cassazione, Sentenza n. 21064 del 07 agosto 2019

Questo contenzioso ha preso avvio da un avviso di accertamento per Iva, Irpef ed Irap, giustificato dall'applicazione degli studi di settore relativi all'attività di autotrasportatore per conto terzi.

In particolare, a seguito di accertamento con adesione l’Agenzia delle Entrate avrebbe rivelato uno scostamento fra quanto dichiarato dall’autotrasportatore e quanto accertato rispetto all'ammontare dei ricavi.

Il contribuente ha così deciso di proporre ricorso nei confronti dell'Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza che lo aveva condannato al pagamento delle imposte in quanto i giudici di merito avevano completamente evitato di considerare le sue difese relative ad esempio ad un periodo di malattia che lo aveva costretto ad assumere un dipendente al suo posto affrontando i relativi costi, all’esame della sua reale situazione lavorativa che riguardava piccole committenze locali, all’analisi dei suoi mezzi di trasporto e costi di manutenzione contestando, infine, l’applicabilità di un recente studio di settore.

La Suprema Corte ha, per tali motivi, dato ragione al contribuente convinta che la prova presuntiva dell'evasione non può scaturire dal solo scostamento numerico tra gli importi dichiarati dall’autotrasportatore rispetto agli studi di settore di riferimento.

A parere del Collegio, infatti, è necessario basare la ricostruzione induttiva del reddito dell’autotrasportatore anche su altri elementi derivanti dalla specificità del caso concreto.

Ed infatti, la Corte ha ribadito che gli studi di settore, basandosi su una ricostruzione del reddito su dati statistici, deve essere supportata dal contraddittorio con il contribuente il quale può dimostrare le circostanze concrete che motivano lo scostamento del reddito dichiarato rispetto a quello presupposto.

Comm. Trib. Reg. di Milano, sentenza n. 5001 del 18 aprile 2016

Questa vicenda ha avuto origine dal ricorso promosso da un autotrasportatore impegnato nell’attività di recupero detriti e macerie provenienti da demolizioni e li trasportava in discarica, accusato di disporre un’autonoma organizzazione e costretto perciò al pagamento dell’IRAP.

In questo caso l’Agenzia delle Entrate individuava gli elementi di un’organizzazione strutturata nei due autocarri posseduti, nella proprietà di un box per parcheggiarli e nelle prestazioni di terzi.

Il contribuente ha, invece dimostrato di possedere in realtà un solo autocarro mentre l’altro era stato venduto, le prestazioni di terzi erano documentate tramite fatture relative all’attività di stoccaggio/smaltimento dei rifiuti e rappresentando questi dei costi di esercizio che non possono essere considerati per aumentare i ricavi, il box era di proprietà del padre pensionato che lo aveva messo a disposizione del figlio.

Per tutti questi motivi la Commissione ha ritenuto che non sussistessero i requisiti per considerare l'attività dell’autotrasportatore autonomamente organizzata. L’Irap non era quindi dovuta.

Comm. Trib. Reg. per la Toscana, Sentenza  n. 336 del 07 febbraio 2017

Anche questo caso ha avuto avvio dal ricorso promosso da un autotrasportatore artigiano sul silenzio rifiuto serbato dall'Agenzia delle Entrate alla sua istanza di rimborso dell'IRAP. In particolare, a parere degli accertatori il requisito dell’autonoma organizzazione sarebbe connaturato nella stessa nozione di impresa.

La CTR, invece, così come il giudice di primo grado, ha dato ragione al contribuente prevedendo che non si ha autonoma organizzazione quando il contribuente si avvalga di beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività e non ricorra al lavoro altrui. Ed infatti, in questo specifico caso, il contribuente aveva dimostrato di svolgere il lavoro di autotrasportatore unicamente attraverso un solo automezzo e senza ricorrere all’ausilio di alcun dipendente esterno.

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Le informazioni sopra riportate sono state scritte da un avvocato che collabora con professionisti del nostro studio ma la loro rispondenza al sistema vigente non è garantita da DLP Studio Tributario, né nessuno dei suoi avvocati, né nessun altro, non rispecchia la professionalità media di DLP Studio Tributario e non sono state sottoposte ad ulteriori controlli da parte del nostro studio.

Ulteriori approfondimenti sono comunque dovuti in dipendenza delle specificità dei singoli casi concreti, anche (ma non solo) per verificare che le informazioni siano aggiornate al momento in cui servono.

 

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