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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 14551 del 28 maggio 2019
Rilevato che
M., esercente la professione di Dottore Commercialista, in data 4 febbraio 2002 chiedeva il rimborso della somma di € 5.729,06 complessivamente versata per gli anni 1998, 1999 e 2000 a titolo di IRAP ritenendo non dovuto tale importo; che il M. ha proposto ricorso avverso il silenzio rifiuto formatosi in relazione a detta istanza ritenendo non dovuta l'imposta e l'illegittimità della stessa; che con sentenza n. 28/2/2010 pubblicata il 22 febbraio 2010 la Commissione Tributaria Provinciale di Macerata ha accolto il ricorso; che con sentenza n. 155/4/13 pubblicata il 10 dicembre 2013 la Commissione Tributaria Regionale delle Marche ha parzialmente accolto l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate di Macerata avverso detta sentenza di primo grado con esclusivo riferimento al regolamento delle spese, confermando nel merito la sentenza impugnata affermando che il motivo relativo al difetto del presupposto impositivo non era nuovo essendo stato dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado; nel merito il giudice dell'appello ha rilevato che non sussiste, nella fattispecie in esame, un'autonoma organizzazione nel senso indicato dalla Corte Costituzionale sull'argomento e cioè con riferimento al valore aggiunto determinato dall'organizzazione produttiva, mentre, d'altra parte, il contribuente ha fornito la prova di non possedere particolari dotazioni di beni strumentali, di non avvalersi del lavoro di terzi e di operare prevalentemente come revisore contabile e sindaco di società, e non risulta provato quanto sostenuto dall'Agenzia delle Entrate secondo cui il M. si sarebbe avvalso della struttura organizzativa di uno studio associato di fatto; che l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su tre motivi; che M. ha resistito con controricorso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso e comunque il suo rigetto nel merito, ed ha presentato memoria.
Considerato che
con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 in relazione all'art. 360, n. 3 cod. proc. civ., in particolare si deduce che nella fattispecie in esame l'attività svolta dal M. costituirebbe un'attività autonomamente organizzata in proprio finalizzata alla prestazione di servizi e supportata dalla presenza di un'associazione per cui sussisterebbero i presupposti impositivi dell'IRAP. Il motivo così descritto è inammissibile non cogliendo la ratio decidendi della sentenza impugnata. Il giudice dell'appello, infatti, non ha affermato che il reddito prodotto da associazione professionale è esente da IRAP, ma, al contrario, ha affermato che non risulta provata la tesi dell'Ufficio secondo cui il contribuente opera avvalendosi di un'associazione professionale di fatto.
Che con il secondo motivo si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. con riferimento al difetto di prova da parte del contribuente, dell'inesistenza del requisito organizzativo. Il motivo è inammissibile alla luce della modifica dell'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. introdotta dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 convertito in legge 134 del 2012 applicabile alle sentenze pubblicate a partire dall'Il settembre 2012 e, quindi, anche a quella oggetto del presente giudizio pubblicata il 10 dicembre 2013. Né rileva nel presente giudizio di Cassazione il comma 3 del citato art. 54 secondo cui le disposizioni del medesimo articolo non si applicano al processo tributario di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto il giudizio di Cassazione è comunque regolato dal codice di procedura civile e non dalle norme sul processo tributario come desumibile dall'art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992 che prevede il ricorso per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali senza definire uno speciale giudizio tributario di cassazione. Orbene il nuovo testo del n. 5) dell'art. 360 cod. proc. civ. introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il "come" e il "quando" (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la "decisività" del fatto stesso". È questo il principio di diritto pronunciato dalle Sezioni Unite ad interpretazione delle modifiche apportate dal Decreto Sviluppo (d.l. n. 83/2012) all'art. 360, n. 5, c.p.c. sul ricorso di legittimità.
Osserva la Cassazione che nella riformulazione dell'art. 360, n. 5 c.p.c. è scomparso ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d'ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. La ratio legis è chiaramente espressa dai lavori parlamentari, laddove si afferma che la riformulazione della norma in esame è finalizzata ad evitare l'abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris. In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall'art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per "mancanza della motivazione". Pertanto, l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all'esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile". A seguito della riforma del 2012 scompare dunque il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull'esistenza (sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta) della motivazione. Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell'art. 360 cod. proc. civ. concerne, pertanto, l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l'esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.
Che con il terzo motivo si assume, in subordine, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. con riferimento alla circostanza dell'esercizio in forma associata oltre che in forma individuale, dell'attività professionale e della cospicua consistenza dei beni strumentali e delle spese per le prestazioni di collaboratori professionali. Il motivo è infondato avendo il giudice dell'appello sommariamente considerato il fatto storico del cui omesso esame si lamenta la ricorrente. D'altra parte la decisione impugnata, invero, non si discosta da principi regolatori della materia definitivamente certificati da Cass., Sez. U., Sentenza n. 9451 del 10/05/2016, laddove si afferma che, «con riguardo al presupposto dell'IRAP, il requisito dell'autonoma organizzazione - previsto dall'art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 - , il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente; a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive». sostegno di tale principio, le Sezioni Unite hanno rimarcato che, «se fra "gli elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell'interessato, potenziandone le possibilità necessarie", accanto ai beni strumentali vi sono i mezzi "personali" di cui egli può avvalersi per lo svolgimento dell'attività, perché questi davvero rechino ad essa un apporto significativo occorre che le mansioni svolte dal collaboratore non occasionale concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica professionalità espressa nella "attività diretta alla scambio di beni a di servizi", di cui fa discorso l'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, e ciò vale tanto per il professionista che per l'esercente l'arte, come, più in generale, per il lavoratore autonomo ovvero per le figure "di confine" individuate nel corso degli anni dalla giurisprudenza di questa Corte. E', infatti, in tali casi che può parlarsi, per usare l'espressione del giudice delle leggi, di "valore aggiunto" o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di "quel qualcosa in più". Diversa incidenza assume perciò l'avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell'espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all'attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o, appunto, generico. Lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali - "eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza dì organizzazione" - non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia minimale si arresta all'impiego di un collaboratore»; orbene, dalla lettura combinata della sentenza d'appello e del ricorso per cassazione emerge che, nella specie, il thema decidendum riguarda l'esistenza di un'associazione di fatto di cui si sarebbe avvalso il M. nell'esercizio della sua attività professionale. Il giudice dell'appello, con giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, ha escluso tale tipo di organizzazione considerando la documentazione prodotta costituita dalle dichiarazioni UNICO e ritenendo l'insussistenza di particolari dotazioni strumentali e di collaborazione di terzi, e lo svolgimento prevalente di funzioni di revisore contabile e sindaco di società, il che esclude che i parametri enunciati dalle Sezioni Unite siano stati superati, nella specie, dall'attività del contribuente. Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; Condanna l'Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di giudizio in favore del controricorrente liquidate in € 1.500,00 oltre esborsi per € 200,00, spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori di legge. Roma, 30 gennaio 2019.
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