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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 11065 del 19 aprile 2019
FATTI DI CAUSA
In esito a controllo eseguito ai sensi dell'art.11 D. Lgs. N.374/1990 e concluso con p.v. del 23.10.2014, l'Agenzia delle Dogane, Ufficio di Bergamo, procedeva alla revisione delle bollette di accertamento ed emetteva nei confronti della D. s.r.I., quale importatrice, e delle altre Società spedizioniere rappresentanti della medesima, diversi avvisi di rettifica con i quali veniva contestata, per l'anno 2011, la mancata inclusione nel valore delle merci, acquistate da produttori operanti in paesi extra UE, delle spese di trasporto, del costo delle assicurazioni e dell'importo delle royalties dovute dalla società importatrice licenziataria alle imprese licenzianti titolari dei rispettivi marchi (F., P., L., W. e U.), con conseguente applicazione delle sanzioni ex art.303 co.3° TULD. La CTP di Bergamo accoglieva i diversi ricorsi, successivamente riuniti, proposti dalla D. e dalle società di spedizione che la rappresentavano, ed annullava gli avvisi, condannando l'Agenzia alla rifusione delle spese di lite. La decisione veniva poi confermata, in seguito ad appello proposto dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dalla CTR della Lombardia con la sentenza oggetto del presente giudizio. In particolare i Giudici d'appello, dato atto che, in seguito all'acquiescenza prestata dalle società ricorrenti in ordine all'inclusione nella base imponibile delle spese di trasporto e di quelle di assicurazione, la controversia aveva ad oggetto la sola pretesa inclusione in tale valore imponibile delle royalties che la società importatrice e licenziataria era obbligata a corrispondere a ciascuna delle licenzianti in virtù dei contratti di licenza, da calcolarsi sull'ammontare dei ricavi dalle vendite effettuate in Italia, nonché sulle sanzioni applicate per l'erronea minor quantificazione del valore medesimo; individuate le norme regolatrici della fattispecie negli artt.23, 143 e 160 delle Disposizioni di Applicazione del Codice Doganale Comunitario (d'ora in avanti DAC e CDC); hanno ritenuto che l'Agenzia non avesse fornito la prova dell'esistenza "di un rapporto di controllo tra il titolare della licenza ed il fornitore estero"; in particolare rilevavano che gli elementi sintomatici indicati dall'Agenzia non sarebbero riconducibili all'elencazione esemplificativa (ma non esaustiva) proposta dalla Commissione Europea per individuare il menzionato legame richiesto dall'art.143, tale cioè da determinare "il fatto che il licenziante possa essere in grado di esercitare, in diritto ed in fatto, un potere di costrizione nei confronti del produttore della merce". Invece, ritiene la CTR, le circostanze indicate dall'Agenzia, per le quali il produttore è obbligato a rispettare nella produzione gli elevati standard qualitativi richiesti dal licenziante, così come la necessità di preventiva approvazione dei campioni di produzione, dell'imballaggio, del materiale pubblicitario, delle idee creative, non dimostrerebbero il richiesto controllo operativo sul produttore, ma sarebbero semplici indici della pretesa di garanzia di elevata qualità e di tutela delle condizioni ambientali di lavoro, imposti al produttore venditore per la salvaguardia del marchio e dell'immagine commerciale del suo detentore. Inoltre, hanno concluso i Giudici d'appello, "le royalties non sono dovute ai licenzianti in base agli acquisti, ma in base alle vendite dai produttori, per cui le medesime royalties non sono determinabili all'atto dell'importazione delle merci", e sono quindi estranee al prezzo d'acquisto dai produttori. L'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, al quale resistono con controricorso la s.r.l. unipersonale D., che ha modificato la sua denominazione in "H.", e le Società di spedizione in epigrafe menzionate. La sola controricorrente H. s.r.l. unipersonale ha inoltre depositato in data 7 febbraio 2019 memoria di costituzione di nuovo difensore ed illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo l'Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art.360 c.1° n.4 c.p.c., dell'art.132 co.2° n.4 c.p.c. e dell'art.36 D. Lgs. N.546/1992 poiché gli argomenti utilizzati per escludere il controverso rapporto di controllo costituirebbero una motivazione del tutto apparente, avendo la CTR trascurato di considerare gli elementi sintomatici analiticamente descritti nell'atto di appello; in particolare la CTR, pur richiedendo la prova del potere del licenziante di decidere a chi il produttore potrebbe vendere le merci, avrebbe considerato non raggiunta tale prova senza esaminare la specifica indicazione di siffatte facoltà attribuite rispettivamente nella sezione 18 par.4 del contratto F. e nella sezione 7 dei contratti L., P. e W.; nonché, per quanto concerne altre forme di controllo sulla produzione, nelle sezioni 8 di entrambi i contratti, nelle sezioni 7 e 10 e 3 F. e 6 degli altri; così indebitamente riducendo tale complesso di poteri ad una mera forma di controllo sulla qualità dei prodotti, laddove gli obblighi imposti al licenziatario gli conferirebbero altresì un potere di revoca dell'incarico al terzo produttore non titolare dei requisiti richiesti. Con il secondo motivo, l'Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione ex art.360 co.1° n.3 c.p.c. degli artt.29 e 32 Reg. CEE n.2913/1992 nonché degli artt.157-160-143 Reg. CEE n.2454/1993, nonché degli artt.2724-2729 c.c. e dei principi in tema di onere della prova: premesso che i rilievi svolti con il primo mezzo sarebbero sufficienti ad evidenziare che il pagamento delle royalties costituisse un'effettiva condizione di vendita, ancorchè non oggettivata esplicitamente, si duole del fatto che la CTR ne abbia escluso la configurabilità sulla scorta del mero rilievo che la base di computo delle stesse fosse individuato nell'ammontare del fatturato delle vendite da parte dell'importatore: invero, sostiene la ricorrente, qualsiasi metodo d'individuazione della base di computo delle royalties si adotti, "le licenzianti difficilmente accetterebbero la produzione e la rivendita di prodotti con propri marchi da parte di società che non corrispondessero alcun diritto di licenza", e, diversamente opinando, basterebbe modificare il metodo di computo dei diritti medesimi per eludere l'art.32 del CDC. Infine con il terzo motivo deduce, sempre ai sensi dell'art.360 co.1° n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art.303 co.1° e 2° DPR n.43/1973 e 70 DPR n.633/1972 in relazione all'ingiusto annullamento delle sanzioni, conseguito all'erronea applicazione delle norme poste a fondamento degli avvisi di rettifica impugnati.
2. Il primo motivo è infondato. E' principio noto ed espresso ripetutamente nella giurisprudenza di questa Corte, anche dopo la modifica legislativa dell'art.360 c.p.c. operata dall'art.54 D.L. n.83 del 2012, che la violazione dell'art.132 n.4 del c.p.c. per carenza dei requisiti minimi garantiti costituzionalmente ricorre soltanto quando la carenza motivazionale sia tale da non consentire in alcun modo di verificare l'esattezza e la logicità del ragionamento giudiziale (da ultimo cfr. Cass. Sez.L ord. 17.05.2018 n.12096; Cass. Sez.VI-V ord. 7.04.2017 n.9105), ovvero quando sussistano contraddizioni di tale evidenza da rendere impossibile la ricostruzione di una chiara ratio decidendi (cfr. Cass. SU 7.04.2014 n.8053); in altri termini "nelle ipotesi di "mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un "fatto storico", che abbia formato oggetto di discussione e che appaia "decisivo" ai fini di una diversa soluzione della controversia" (Cass. Sez.III 23.10.2017 n.23940); ove, appare opportuno chiarire, la contraddittorietà deve riguardare la compatibilità logica intrinseca tra più affermazioni logicamente contrastanti che si elidono reciprocamente, rendendo impossibile individuare quale sia il principio di diritto applicato nel caso concreto. Orbene, nella specie la CTR non solo ha espresso la conclusione delle proprie valutazioni circa l'insussistenza del controllo del licenziante sull'impresa estera produttrice (recte, del legame ai sensi dell'art.143 DAC tra le due imprese), ma ha anche dimostrato di aver considerato e valutato come insufficienti in senso contrario gli indici di controllo offerti e valorizzati dall'Agenzia appellante, spiegando, sia pure sinteticamente, che gli stessi rappresentavano esclusivamente strumenti convenzionali per garantire la qualità del prodotto finale che avrebbe circolato con il marchio e la reputazione commerciale delle titolari dei singoli marchi utilizzati per la sua commercializzazione. Parimenti infondate sono le censure specifiche relative alla pretesa contraddittorietà della motivazione circa l'esistenza di un potere costringente di scelta del produttore della merce (enunciato in forme diverse nei vari contratti), sia perché la pretesa contraddittorietà non tocca un punto in sé decisivo della controversia, ma uno degli svariati indici valutabili (e di fatto presi in esame) dal Giudice; sia perché in concreto la ipotizzata insanabile contraddittorietà non sussiste, poiché la valutazione di incompatibilità delle clausole contrattuali esaminate con la libertà di scelta del contractor estero da parte non già del licenziante ma dell'importatore è quaestio facti rimessa all'apprezzamento del Giudice, circa la quale la CTR ha espresso una valutazione implicitamente negativa (alla quale implicitamente la ricorrente intende sostituire la propria valutazione di senso contrario), ma non già insanabilmente contraddittoria con la premessa astratta contenuta nell'enunciato generale, se non per il mezzo di una interpretazione della clausola contrattuale difforme da quella postulata dal Giudice d'appello, che è invece censurabile ai sensi del n.5 art.360 c.p.c. soltanto nei limiti nei quali tal genere di motivo è ancora proponibile.
3. Il 2° motivo, così come formulato, deve essere dichiarato inammissibile in conseguenza del rigetto del primo, ancorchè appaia fondato nella parte in cui censura l'affermazione da parte della CTR secondo cui «...le royalties non sono dovute ai licenzianti in base agli acquisti ma in base alle vendite dai produttori (n.d.e.: rectius importatori), per cui non sono determinabili all'atto delle importazione delle merci
3.1. Invero in relazione a tale questione la Corte di giustizia (con sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dijsseldorf) ha stabilito che l'art.32, § 1, lettera c), del codice doganale non prevede che, al fine di valutare se i corrispettivi o i diritti di licenza siano componenti del valore delle merci importate, l'importo degli stessi sia determinato o determinabile al momento della conclusione del contratto di licenza o al momento dell'insorgenza dell'obbligazione doganale. Difatti, l'art. 161 del reg. n. 2454/93 fissa sì la presunzione relativa che il pagamento del corrispettivo o diritto di licenza si riferisca alle merci oggetto di valutazione quando il metodo di calcolo di esso si basa sul prezzo delle merci importate; ma aggiunge che «Tuttavia, il pagamento del corrispettivo o del diritto di licenza, può riferirsi alle merci oggetto della valutazione quando l'ammontare di tale corrispettivo o diritto di licenza venga calcolato senza tener conto del prezzo delle merci importate». Tali principi, che qui s'intende ribadire, sono stati già recepiti da Cass. Sez.V 6.04.2018 n.8473. Infatti, in una situazione simile, in cui «...l'importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza dipende dalla percentuale del volume d'affari generato con la vendita a terzi delle merci importate in base al contratto di licenza» (punto 49 della sentenza in causa C-173/15), la Corte di giustizia ha appunto stabilito che il versamento di tali corrispettivi o diritti «si riferisce» alle merci da valutare. In altri termini, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d'appello, le modalità di calcolo delle royalties non incidono sulla necessità della loro inclusione nel valore doganale, come ha successivamente esplicitato il paragrafo 1, secondo nucleo normativo, dell'art. 136 del regolamento di esecuzione n.2015/2447/UE, a norma del quale «Il metodo di calcolo dell'importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza non è determinante».
3.2. Al fine di valutare l'inammissibilità del motivo, occorre prendere le mosse dal regolamento n.2454/93, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, che stabilisce che «...quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell'articolo 29 del codice [doganale] si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento: - si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e - costituisce una condizione di vendita delle merci in causa» (art.157, paragrafo 2). Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative: - in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; - in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e, - in terzo luogo, che l'acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare. In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d'importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare «soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all'importazione, -le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l'importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e - l'acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore (art. 159). Ancora in particolare, per il caso in cui l'acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo (come nel caso di specie, nel quale non sono indicati né dedotti rapporti di immedesimazione o controllo tra licenziante e licenziataria), il regolamento prescrive che «...le condizioni previste dall'articolo 157, paragrafo 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all'acquirente di effettuare tale pagamento» (art. 160). La disciplina generale fissata dal paragrafo 2 dell'art. 157, dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo; ne consegue che le «condizioni di vendita delle merci in causa» devono rispondere ai presupposti rispettivamente richiesti dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate. Orbene, né l'art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale («...c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare...»), né l'art. 157, paragrafo 2, del regolamento n.2454/93 precisano cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare. Tuttavia la Corte di giustizia, con la sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dijsseldorf, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n.3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all'incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l'identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza. In generale, dunque, il pagamento in questione è una «condizione di vendita» delle merci da valutare qualora, nell'ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore - o la persona ad esso legata - e l'acquirente, l'assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un'importanza tale per il venditore che, in difetto, quest'ultimo non sarebbe disposto a vendere.
3.2. Nel caso in esame la CTR ha di fatto adeguato le proprie valutazioni ai parametri normativi offerti da entrambe le discipline particolari contemplate dagli artt. 159 e 160 del reg. n. 2454/93, di fatto adottando due convergenti rationes decidendi. Per un verso, i diritti di licenza si riferiscono difatti anche ai marchi di fabbrica; per altro verso, la loro corresponsione spetta ad un soggetto diverso dal venditore. Ed è irrilevante che tale soggetto non sia qualificato come terzo: per l'identificazione delle "condizioni di vendita" è difatti sufficiente, com'è specificato nel punto 67 della sentenza della CGE già indicata, che il pagamento dei corrispettivi dei diritti di licenza sia richiesto all'acquirente da «una persona legata al venditore». Occorreva pertanto verificare in concreto la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra il fornitore asiatico della licenziataria D. e le titolari dei diritti di licenza, ed apprezzare la sua forza. Occorreva cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C-173/15, punto 68), «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull'acquirente, tale da poter garantire che l'importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente». Sul punto, l'allegato 23 delle DAC - Note interpretative in materia di valore in dogana all'articolo 143, paragrafo 1, lettera e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l'una controlla direttamente o indirettamente l'altra), stabilisce che «si considera che una persona ne controlli un'altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda». Una volta che, come già esposto in relazione al precedente motivo, la CTR ha espresso una sua valutazione di segno negativo circa la significatività delle clausole contrattuali al fine di ritenere o meno la sussistenza di siffatto controllo, e che tale valutazione, respinto il precedente motivo, deve considerarsi punto fermo ed intangibile dell'indagine circa la sussistenza della condizione di vendita, è evidente che l'accertamento dell'esistenza di un eventuale errore interpretativo delle medesime norme circa l'altro presupposto normativo (cioè la riferibilità del pagamento delle royalties alla vendita delle merci importate) non potrebbe condurre ad alcun risultato utile per l'Agenzia, poiché mancherebbe pur sempre un presupposto essenziale per ritenere sussistente la condizione di vendita, e cioè il rapporto di legame e/o controllo delle licenzianti rispetto alla venditrice (cfr. Cass. sez.V ord. 11.05.2018 n.11493; Cass. sez.VI-V ord. 18.04.2017 n.9752; Cass. sez.III 14.02.2012 n.2108). Né appare dotato dei requisiti minimi di specificità l'accenno critico circa la postulata evidenza della sussistenza delle condizioni di vendita, sul solo presupposto che "le licenzianti difficilmente accetterebbero la produzione e la rivendita di prodotti con propri marchi da parte di società che non corrispondessero alcun diritto di licenza": infatti l'argomento, introdotto ai sensi del n.3 dell'art.360 c.p.c., è assolutamente disancorato dall'iter argomentativo della sentenza e non contiene alcuna censura circa l'esatta individuazione ed interpretazione della normativa quale applicata alla fattispecie (cfr. Cass. Sez.I 29.11.2016 n.24298); sembra invece riproporre una critica di falsa applicazione delle suesposte norme, sotto la specie di una non corretta sussunzione dei dati di fatto, accertati ed evincibili dai documentati rapporti contrattuali tra licenziante e licenziataria, nelle nozioni di condizione di vendita. Peraltro poiché tali rilievi implicano piuttosto una diversa valutazione della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa, ed in particolare riproponendo censure circa la corretta ermeneusi di alcune clausole dei contratti di licenza, come già cennato in riferimento al precedente motivo, la censura si rivela anche inammissibile (cfr. Cass. Sez.I ord. 14.01.2019 n.640; Cass. Sez.V 24.07.2014 n.16872; Cass. Sez.III 26.09.2005 n.18782).
4. Quanto all'ultimo motivo, lo stesso appare inammissibile siccome investente un capo della sentenza totalmente dipendente, logicamente e giuridicamente, dai capi afferenti la fondatezza della pretesa circa la determinazione delle maggiori basi imponibili, e la cui decisione, in caso di accoglimento del ricorso, non potrebbe che essere rimessa al Giudice di rinvio (Cass. Sez.V 5.11.2014 n.23558).
5. In sintesi, il ricorso, essendo infondato il 1° motivo ed inammissibili gli altri due, deve essere rigettato, con la conseguente conferma dell'impugnata sentenza. Le spese, attesa la novità delle questioni sollevate, e risolte anche alla luce di recenti pronunce sia della CGE che di questa Corte, debbono essere opportunamente compensate.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e conferma la sentenza impugnata. Compensa le spese di questa fase del giudizio. Deciso in Roma, il 20 febbraio 2019
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