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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 2889 del 31 gennaio 2019
Rilevato che:
l'Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della sentenza n. 29/04/11, depositata il 5.07.2011 dalla Commissione Tributaria Regionale dell'Abruzzo, Sez. Staccata di Pescara, con la quale, in riforma della decisione del giudice di primo grado, era riconosciuto alla E., ente britannico di gestione di fondi pensione, il diritto al rimborso delle ritenute alla fonte applicate sui dividendi distribuiti alla società negli anni 1999-2001, con condanna della Amministrazione finanziaria 'al versamento di € 673.430,59, oltre interessi, pari al credito d'imposta richiesto; ha riferito che l'ente richiedeva il rimborso di una somma corrispondente al credito d'imposta spettante ai residenti in relazione ai dividendi percepiti dalle società italiane partecipate, invocando a tal fine l'art. 10 della Convenzione Italia - Regno Unito stipulata il 21.10.1988 a tutela dalle doppie imposizioni. L'Amministrazione, dopo aver rimborsato un primo importo, rifiutava il rimborso delle somme intere, sostenendo la mancanza dei presupposti (per essere all'epoca i Fondi pensione inglesi non assoggettati ad imposizione nel Paese di residenza e ritenendosi pertanto a loro inapplicabile il credito d'imposta previsto dal medesimo art. 10. Nel contenzioso seguitone la Commissione Tributaria Provinciale di Pescara rigettava il ricorso dell'Ente con sentenza n. 17 del 2009, mentre la Commissione Tributaria Regionale, con la decisione ora impugnata, accoglieva l'appello del Fondo inglese. L'Agenzia censura con tre motivi la sentenza: con il primo per violazione e falsa applicazione dell'art. 101 co. 2 Cost., dell'art. 2 della I. n. 904 del 1977, dell'art. 10, paragrafo 4, della Convenzione tra Italia e Regno Unito del 21.10.1998 sulle doppie imposizioni, in relazione all'art. 360 co. 1, n. 3 c.p.c. e 62, co. 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, perché erroneamente la CTR avrebbe fatto diretta applicazione del principio comunitario di non discriminazione, che non sarebbe immediatamente applicabile dal giudice nazionale, dovendo invece essere prima recepito da una normativa nazionale; con il secondo per violazione e falsa applicazione dell'art. 56 del Trattato CE, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. e 62 co. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992, per aver erroneamente ritenuto che il sistema di tassazione dei Fondi pensione di diritto britannico fosse in contrasto con il principio comunitario di libera circolazione dei capitali per quanto affermato dalla Corte di Giustizia con sentenza del 19.11.2009 in causa C-540/07, con indebita estensione della portata effettiva della medesima pronuncia; con il terzo per violazione e falsa applicazione dell'art. 53 Cost., nonché insufficiente, contraddittoria e illogica motivazione su fatti controversi e decisivi della causa, in relazione all'art. 360 co. 1, nn. 3 e 5 c.p.c., e dell'art. 62 co. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992, per l'erroneo accoglimento integrale della domanda principale di pagamento di una somma corrispondente al credito d'imposta, senza alcuna base normativa ed in violazione del principio di capacità contributiva, nonché in assenza del presupposto della maggiore gravosità del peso impositivo gravante sul fondo britannico rispetto ad un corrispondente fondo pensione italiano. Ha chiesto pertanto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione. Si è costituito l'ente, il quale, contestando i motivi del ricorso, ne ha chiesto il rigetto.
Considerato che:
i motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi e volti a censurare la decisione sotto profili distinti ma tutti riconducibili ai principi eurocomunitari ed alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, sono infondati. L'Agenzia lamenta innanzitutto che le conclusioni cui perviene il giudice regionale siano prive di basi normative. L'assunto è del tutto errato. Come già avvertito anche da ultimo da questa Corte (Cass., sent. n. 26377 del 2018) deve innanzitutto escludersi che la soluzione della controversia possa ricondursi alla sola Convenzione tra Italia e Regno Unito del 1998, che regolava il divieto di doppia imposizione previo accertamento dei presupposti emergenti in quella disciplina pattizia. Essa di contro va inquadrata nei principi enucleati dalla giurisprudenza eurocomunitaria con le sentenze della Corte di Giustizia Denkavit (causa C-170/05), Amurta (causa C-379/05), Aberdeen Property Fininvest Alpha Oy (causa C-303/07), nonché dalla sentenza Commissione - Repubblica Italiana del 19 novembre 2009 (causa C-540/07), certo la più significativa per quanto di interesse. Quest'ultima ha esaminato la compatibilità con le disposizioni comunitarie del regime nazionale di ritenuta alla fonte sui dividendi percepiti da partecipanti estere, ossia da società stabilite negli altri Stati membri e negli Stati aderenti all'Accordo SEE, avvertendo che il regime di imposizione diretta sia più oneroso rispetto a quello applicato ai dividendi domestici.
Va considerato che dal gennaio 2004, mese dal quale entrava in vigore il d.lgs. n. 344 del 2003 istitutivo dell'IRES, il regime di tassazione dei dividendi domestici ha abbandonato il previgente criterio del riconoscimento del credito d'imposta, in suo luogo applicandosi una tassazione definitiva del 5% sul dividendo, con conseguente esclusione dall'imponibile del restante 95% (art.89 T.U.I.R.). Invece i dividendi percepiti da società estere continuavano ad essere regolati fiscalmente ex art. 27 del d.P.R. n. 600 del 1973, ed a convenzioni bilaterali in materia, quale quella stipulata con il Regno Unito, a ritenuta alla fonte del 15%. Soltanto a far data dall'i gennaio 2008, con l'introduzione del comma 3 ter all'articolo 27 cit., il regime di tassazione dei dividendi corrisposti alle società UE e SEE si è allineato al regime interno, mediante applicazione di una ritenuta ridotta con aliquota dell'1,375°/0 (pari al 5% dell'aliquota Ires vigente). La Corte di Giustizia non ha accolto l'eccezione sollevata dalla Repubblica Italiana, secondo cui i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non sarebbero in realtà trattati diversamente dai dividendi distribuiti a società residenti, in quanto le convenzioni contro la doppia imposizione permetterebbero di detrarre l'imposta trattenuta alla fonte in Italia da quella dovuta nell'altro Stato membro. Ciò perché anche l'eventuale intervento di una Convenzione tra gli Stati poteva solo astrattamente sempre garantire il rispetto del Trattato contro la doppia imposizione. La ragione è stata rinvenuta nella considerazione, per certi aspetti ovvia ma ad un tempo non scontata, che "...d'applicazione della convenzione contro la doppia imposizione permetta di compensare gli effetti della differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale"; giacché "solo nell'ipotesi in cui l'imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall'imposta, dovuta nell'altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale, la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente"... "l'imputazione presuppone segnatamente che i dividendi provenienti dall'Italia siano sufficientemente tassati nell'altro Stato membro", posto che "se tali dividendi non sono tassati o se non lo sono a sufficienza, la somma ritenuta alla fonte in Italia o una frazione di essa non può essere detratta. In tal caso la differenza di trattamento derivante dall'applicazione della normativa nazionale non può essere compensata dall'applicazione delle previsioni della convenzione contro la doppia imposizione". Inoltre "la scelta di tassare nell'altro Stato membro i redditi provenienti dall'Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica Italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall'altro Stato membro": si è sostenuto pertanto che fosse priva di fondamento la tesi difensiva della Repubblica Italiana, volta a sostenere "che l'imputazione dell'imposta ritenuta alla fonte in Italia sull'imposta dovuta nell'altro Stato membro, in applicazione delle previsioni delle convenzioni contro la doppia imposizione, consenta in ogni caso di compensare la differenza di trattamento derivante dall'applicazione della normativa nazionale". La convenzione bilaterale contro la doppia imposizione non garantiva di per sé, in mancanza di emersione di condizioni di effettiva compensabilità, la parificazione di trattamento dei dividendi distribuiti a società appartenenti ad altri Stati membri rispetto a quelli sedenti in Italia. La Corte europea dunque ha avvertito come l'eliminazione della 'disparità di trattamento' tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane non era garantita dalla disciplina della doppia imposizione e ciò tutte le volte che la società percipiente in altro Stato membro non avesse avuto modo di compensare in tale Stato l'imposta pagata in Italia (a mezzo di ritenuta), perché non tassata nel proprio Stato di appartenenza o non sufficientemente tassata. Deve allora affermarsi la necessità di applicare, anche con effetti retroattivi, quanto stabilito dalla sentenza del 2009, la quale costituisce vera e propria fonte normativa di origine comunitaria, come tale suscettibile di applicazione diretta -anche nelle ipotesi in cui non sia richiamata dalla parte interessata-, e ciò anche in sede di disapplicazione di quella disciplina interna che ne risultasse in contrasto, per i suoi effetti discriminatori, con i principi UE da essa individuati (cfr. Cass., 2468/2016). È peraltro indiscusso che nel caso di specie la domanda originaria della contribuente era volta proprio al ripristino di un trattamento paritario nella tassazione dei dividendi percepiti da società estere rispetto al regime interno applicato alle società italiane. E la finalità della domanda di rimborso, sul piano sostanziale oltre che formale, non era quella della elisione della doppia imposizione, ma quella della esclusione della disparità di trattamento. La fattispecie denunciata era infatti proprio quella trattata dalla sentenza C-540/07, nella quale la 'non tassazione' nel Regno Unito, precludendo l'effetto compensativo e di riequilibrio della doppia imposizione economica subita in Italia, impediva l'equiparazione di trattamento tra società italiane e quella inglese ricorrente. Impedimento che veniva meno proprio con la richiesta di rimborso. In virtù del regime di esenzione del quale usufruivano all'epoca nel Regno Unito i redditi inerenti al regime pensionistico, doveva ritenersi insussistente un prelievo fiscale 'compensabile' in detto Stato, con conseguente fondatezza della domanda proposta dalla società resistente. Non è dunque corretto, come preteso dall'Ufficio, subordinare il rimborso della ritenuta alla circostanza che la società percipiente estera abbia effettivamente compensato nel Paese UE di residenza l'imposta sul dividendo proveniente dall'Italia. In conclusione l'intero ricorso va rigettato. Considerato che Al rigetto del ricorso, deve seguire la condanna dell'Ufficio alla rifusione delle spese di causa, nella misura specificata in dispositivo,
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in € 7.000,00, oltre spese generali nella misura forfettaria del 1 5% e accessori. Così deciso in Roma, il giorno 28 novembre 2018.
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