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Cassazione. Va confermata la nullità dell’avviso formato sulla base di mere presunzioni senza reali riscontri probatori. Respinto il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate

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Estratto: “gli elementi indicati dall'ufficio a sostegno della pretesa apparivano ancorati a mere presunzioni, cui non hanno fatto seguito riscontri probanti di alcun genere. Il giudice di appello ha poi evocato «ad ulteriore sostegno delle valutazioni di cui immediatamente sopra», il riferimento alle sentenze del giudice penale che sono pervenute alla conclusione secondo cui «i fatti addebitati non risultavano provati nella loro materialità»”.

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Corte di Cassazione, Sez. V,

Ordinanza n. 1167, 17 gennaio 2019

FATTI DI CAUSA

L'Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, contro la sentenza resa dalla CTR Calabria n. 232/7/12, depositata il 5 dicembre 2012, che ha rigettato l'appello proposto dall'Agenzia avverso la decisione della CTP di Reggio Calabria, con la quale è stato accolto il ricorso proposto da A. s.r.l. contro avviso di rettifica parziale relativa ad IVA ripresa a tassazione per l'anno di imposta 1991. Per quanto ancora rileva, il giudice di appello ha ritenuto la sentenza ivi impugnata meritevole di conferma, perché essa, in quanto «frutto di equilibrata e positiva valutazione dell'imponente documentazione di cui ai fascicoli in esame, non si presta ad alcuna censura...». Ha aggiunto che non fu compiuta nessuna valutazione sulla rilevante produzione documentale di parte, né sulla inerenza e congruità delle prestazioni fatturate; che è mancata un'analisi sulla regolarità del libro dei verbali di assemblea; che nessuna giustificazione trova l'utilizzo del metodo induttivo. A conferma di tali conclusioni, la CTR ha richiamato altre decisioni di commissioni tributarie, nonché le sentenze del giudice penale, le quali hanno escluso la materialità dei fatti. Si difende il contribuente con controricorso, depositando pure la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

l. - Con il primo motivo, la ricorrente deduce la «violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'articolo 360, n. 3, c.p.c. Motivazione apparente», per avere errato nel ritenere sussistente un accertamento di tipo induttivo e per errata interpretazione degli atti, nonché per non avere dato contezza delle ragioni del decidere. Con il secondo motivo, essa contesta il difetto di motivazione ex art. 360, comma l, n. 5, c.p.c., per non avere la sentenza impugnata riportato i motivi di impugnazione ed avere rinviato alla motivazione del primo grado, nonché omesso la pronuncia quanto alla domanda, in violazione dell'art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992. Con il terzo motivo, lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. e 654 c.p.p., in quanto la sentenza penale di assoluzione non ha valore di giudicato nel giudizio tributario.

Rileva il Collegio che la questione è stata già risolta dalla S.C. sulla base di plurime decisioni, da cui non vi è ragione di discostarsi (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23326; 3 novembre 2014, n. 23417, 4 novembre 2014, n. 23508 e n. 23510; 5 novembre 2014, n. 23626 e n. 23627), secondo cui tutti e tre motivi devono essere disattesi.

2. - Invero, il primo motivo è inammissibile, posto che la censura di omessa pronuncia va adeguatamente proposta secondo i canoni enunciati da questa Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 24 luglio 2013 n. 17931) e che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, comma l, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi, riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (per tutte, Cass. n. 24553/2013). Sulla base di tali principi, il primo motivo non riesce a superare lo sbarramento del vizio di inammissibilità: dalla lettura del medesimo, la ricordata rubrica già evidenzia una commistione inestricabile di vizi fra loro incompatibili, quali risultano quello della motivazione apparente e di omessa pronunzia, mentre esso contiene prospettazioni tra loro eterogenee, volte a sostenere la violazione di legge (quando prospetta l'errore del giudice per avere ritenuto essere in presenza di un accertamento di tipo induttivo), l'omessa pronunzia sulle eccezioni, nemmeno riproposte anche solo succintamente nel motivo (con violazione ulteriore dell'art. 366 c.p.c.) e la motivazione apparente: senza che nemmeno la parte ricorrente abbia invocato alcuna disposizione di legge nella quale classificare il vizio prospettato.

3. - Anche il secondo motivo è inammissibile, atteso che al suo interno parte ricorrente contesta il difetto di motivazione, evocando l'art. 360, comma l, n. 5, c.p.c., ma facendo ancora una volta contestuale riferimento alla violazione dell'art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, che attiene alla diversa ipotesi di nullità assoluta della sentenza (Cass. n. 28113/2013). Ma quel che più rileva è la circostanza che la censura non rispetta i requisiti di specificità dei motivi del ricorso innanzi alla Corte di legittimità, ai sensi degli art. 360 e 366 c.p.c., e di rilevanza e decisività dei fatti asseritamente pretermessi (Cass. n. 9368/2006, n. 1014/2006), in alcun modo riportati o richiamati nella censura. D'altra parte, a volere interpretare la censura come volta a contestare il vizio di motivazione, tenuto conto dell'epoca di pubblicazione della sentenza, successiva all'entrata in vigore del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato, fra l'altro, l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. - va detto che la novella ha introdotto una disciplina più stringente, limitativa della possibilità di denuncia dei vizi di motivazione al caso di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come hanno chiarito a più riprese le Sezioni Unite di questa Corte nelle sentenze n. 8053/2014, 8054/2014 e 19881/2014. Anche sotto tale profilo il motivo è dunque inammissibile, non facendo alcun esplicito riferimento ai fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e che la CTR avrebbe omesso di esaminare.

4. - Il terzo motivo di ricorso è infondato, in quanto non tiene conto del fatto che il giudice di appello non ha basato la propria decisione sul giudicato penale, ed, anzi, ha evidenziato le ragioni della decisione (sopra esposte) ed aggiungendo che, a suo avviso, gli elementi indicati dall'ufficio a sostegno della pretesa apparivano ancorati a mere presunzioni, cui non hanno fatto seguito riscontri probanti di alcun genere. Il giudice di appello ha poi evocato «ad ulteriore sostegno delle valutazioni di cui immediatamente sopra», il riferimento alle sentenze del giudice penale che sono pervenute alla conclusione secondo cui «i fatti addebitati non risultavano provati nella loro materialità». Onde risulta che la CTR abbia ancorato la sua decisione ad una specifica e plurima valutazione del materiale indiziario, offerto dall'ufficio. Ma, a fronte di tale decisione, non viene qui formulata una censura idonea a consentire la rivisitazione dell'operato giudiziale della CTR. Nel caso di specie, il giudice di appello non si limitato a rilevare l'esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari o ad estenderne automaticamente gli effetti con riguardo all'azione accertatrice dell'ufficio tributario. Al contrario, la sentenza impugnata ha esercitato i suoi autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del complessivo materiale probatorio acquisito agli atti, verificando la rilevanza della sentenza penale assolutoria ai fini dell'accertamento materiale dei fatti riguardanti la fattispecie al suo esame. Ne deriva, pertanto, che la doglianza esposta dall'Agenzia non coglie nel segno.

5. - Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in favore della controricorrente, liquidate in euro 5.500,00 per compensi, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre 2018.

 

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