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Nel nostro panorama legislativo, le conseguenze per chi emette false fatturazioni sono molto severe, tanto da integrare anche i presupposti per la imputabilità a titolo di reato penale.
In particolare, una prima ipotesi punita dal nostro Ordinamento, emerge ogniqualvolta taluno emetta fatture (o altra documentazione contabile), correlate ad operazioni inesistenti. Recita, difatti, il primo comma dell’art. 8 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000: “ E' punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.
L’intenzione del Legislatore, come evidente, è quella di contrastare la condotta di chi, al fine di consentire a soggetti terzi di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, emette o rilascia delle fatture riferite ad operazioni mai concretamente verificatesi. La volontà di contrastare tali tendenze evasive e fraudolente è ancor più rimarcata se si considera che il Decreto Fiscale 2020 (Decreto Legge n. 124 del 2019) ha inasprito fortemente la pena sopra riportata, in precedenza prevista nei limiti edittali da un anno e sei mesi a sei anni. Tale ultima minor pena, tuttavia, è stata mantenuta per l’ipotesi in cui le somme oggetto di evasione non superino i complessivi euro 100.000,00.
Non solo. Il tema della falsa fatturazione e gli interventi riformatori sopracitati, sono altresì rinvenibili nell’art. 2 del medesimo Decreto Legislativo n. 74 del 2000. Esso punisce, ancora una volta, con la pena della reclusione da quattro ad otto anni, chi, con intenti evasivi, indichi nelle periodiche dichiarazioni dovute per legge degli elementi passivi fittizi: ciò, per mezzo di fatture per operazioni inesistenti.
Ecco dunque che, mentre nel primo caso ci si trova innanzi alla condotta posta in essere da chi emette le fatture in favore della condotta fraudolenta altrui, nell’ipotesi ora in esame il Legislatore punisce altrettanto severamente (prevedendo, comunque, un’identica ipotesi di attenuazione della pena nel caso in cui le somme evase non superino gli euro 100.000,00) chi, nell’attuazione di propri interessi fiscali (o per meglio dire, di evasione fiscale), inserisce nelle proprie scritture contabili obbligatorie degli elementi passivi fittizi, quali costi in verità non deducibili o addirittura mai sostenuti.
Entrambi gli illeciti sopra descritti vengono ricondotti nel concetto di “frodi carosello”, mutuando tale definizione proprio dagli scambi e passaggi fittizi che le contraddistinguono.
Ovvio è, inoltre, che le condotte sopra descritte comportano altresì asprissime conseguenze, anche dal punto di vista fiscale.
Di seguito, dunque, una breve analisi di tre casi giurisprudenziali in cui le Corti italiane hanno sancito dei principi favorevoli al contribuente e/o al proprio consulente, a cui vengano contestate le cosiddette “frodi carosello”.
1) Onere della prova. Cassazione civile sez. VI, sentenza del 15 gennaio 2020 n. 716.
Con questa recentissima pronuncia la Corte di Legittimità ha precisato la non sufficienza del verbale di contestazione redatto dalla Guardia di Finanza per provare l’esistenza di condotte del contribuente riconducibili alle false fatturazioni. Spetta invero indispensabilmente al Fisco rendere dimostrazione delle ragioni per cui sarebbero state detratte le false fatture in mala fede.
2) Posizione del consulente fiscale. Cassazione penale sez. III 15 maggio 2019 n. 36461.
Quanto alle contestazioni mosse circa un’eventuale responsabilità del consulente nel reato di false fatturazioni, gli Ermellini hanno chiaramente enunciato l’esigenza di individuare in capo a tale soggetto un contributo concreto, seriale e ripetitivo. Non solo: sono richieste la consapevolezza e la coscienza circa l’attività fraudolenta, anche laddove il “beneficio fiscale” sia ricaduto esclusivamente sul cliente.
3) Identità soggettiva delle fatture: Cassazione penale sez. III, sentenza n. 53319 del 28 settembre 2018.
Quest’ultimo interessante caso ha preso le mosse dalla contestazione del reato di cui all’art. 8 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, nei confronti di alcuni contribuenti: a questi veniva contestata la soggettiva inesistenza di alcune fatture. In particolare, il capo d’imputazione prevedeva che i prevenuti, dopo aver indotto in errore i fornitori delle prestazioni di cui alle fatture […] sul fatto di trattare con una società realmente esistente e realmente commerciale (società, invece, realizzata artificiosamente solo per dissimulare la destinazione non esclusivamente commerciale […] si facevano emettere le fatture […] relative ad operazioni soggettivamente inesistenti (in quanto intercorse tra soggetti diversi) […].
La Suprema Corte annullava la sentenza della Corte d’Appello per insussistenza del fatto, rigettando con fermezza la ritenuta inesistenza soggettiva delle fatture.
Il principio sancito dai Giudici di Cassazione è il seguente: il delitto di emissione di fatture di cui all’art. 8 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, per operazioni soggettivamente inesistenti si configura esclusivamente in caso di fatturazione che presenta una diversità tra uno o entrambi i soggetti indicati nel documento e coloro che hanno posto in essere l'operazione oggetto di imposizione fiscale e, pertanto, ha rilievo penale la sola identità individuale del soggetto e non le diverse qualifiche, qualità o altri elementi che connotano il soggetto dell'operazione inesistente. Sicché, nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto integrato il reato in esame in ragione della mancata qualifica, nella realtà, di soggetto esente IVA da parte dell’acquirente, come invece dichiarata nella fattura: trattasi di una mera condizione soggettiva, che non integra una diversità nei soggetti parte della scrittura contabile e pertanto non legittimante una contestazione di falsità soggettiva.
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