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Consulente del lavoro: neppure l’esperto giuslavorista si sottrae all’accertamento tributario

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Consulente del lavoro: neppure l’esperto giuslavorista si sottrae all’accertamento tributario

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Il consulente del lavoro, quale professionista dotato di molteplici competenze indirizzate verso la consulenza in ambito giuslavorista, non è immune da accertamenti fiscali volti ad assicurare il recupero delle imposte evase nell’esercizio del suo lavoro.

Si tratta di una figura sempre più presente nel panorama occupazionale italiano, diventando un fondamentale punto di riferimento per tutte le attività inerenti all’amministrazione del personale per conto di aziende, enti pubblici e organizzazioni.

Nello specifico, il consulente del lavoro costituisce sempre più spesso una preziosa risorsa a disposizione dell’azienda supportandola nella gestione delle persone sotto il profilo amministrativo e burocratico. Egli, infatti, si occupa delle problematiche relative all’inquadramento del personale dipendente, sotto il profilo giuridico, economico, fiscale e amministrativo sin dal momento della stipula del contratto e per tutte le vicende successive al rapporto di lavoro, quali licenziamenti, demansionamenti, trasferimenti, congedi, e via dicendo. Tra gli altri al consulente possono essere delegati gli assolvimenti dei vari obblighi previdenziali ed assicurativi del personale assicurando sempre il rispetto ed il costante aggiornamento delle leggi vigenti in materia.

Figura sempre più importante a supporto sia delle piccole che delle grandi aziende, e non solo, il consulente del lavoro affronta un lungo iter prima di diventare un professionista in questo settore ad alta concorrenza e dove l’esperienza e l’anzianità costituiscono un importante sbarramento alle nuove leve. Infatti, dopo il percorso universitario nelle materie giuridiche o economiche, un periodo di praticantato obbligatorio di 18 mesi presso un consulente, l’esame di stato e l’abilitazione professionale, il consulente deve iscriversi all’albo professionale per esercitare la professione.

È a questo punto che la scelta sulle concrete modalità di esercizio ella professione si biforca. Lo specialista del lavoro può infatti decidere di esercitare la professione alle dipendenze di un’azienda o di un ente quale responsabile delle risorse umane, oppure scegliere la libera professione.

In quest’ultimo caso egli deve aprire un proprio studio ed iniziare a prendere contatti con le aziende che potrebbero avere bisogno della sua professionalità. O ancora, egli può operare anche alle dipendenze di un altro studio che già si occupa di consulenza sul lavoro o presso studi associati dove operano varie figure quali avvocati, commercialisti e revisori dei conti.

Ovviamente l’esercizio della libera professione comporta l’assolvimento degli obblighi fiscali, quindi apertura della partita Iva, e previdenziali per il professionista che deve adoperarsi per la ricerca dei clienti e quindi per l’instaurazione delle collaborazioni con le varie aziende. È proprio nella fase iniziale della carriera che il consulente, specie per farsi conoscere ed acquisire credito, deve accettare spesso anche onorari bassi rispetto alle tariffe consigliate.

Sia che il volume degli affari sia troppo alto che, al contrario, considerabile antieconomico, l’Agenzia delle Entrate dubita di eventuali scostamento rispetto ai dati estrapolati dagli studi di settore o ISA, gli indici sintetici di affidabilità fiscale, attraverso cui si valuta su base statistica, l’affidabilità della dichiarazione dei redditi del consulente del lavoro.

Ma non solo, consulenti accusati di svolgere anche attività non dichiarate, spesso in qualità di amministrato di fatto di società, oppure dotati di organizzazioni considerate talmente strutturate da essere soggette al pagamento dell’IRAP.

Sono questi casi frequenti che vedono coinvolti i Cdl negli accertamenti fiscali relativi ad imposte sia dirette che indirette presuntivamente evase che a volte potrebbero non tener conto della reale situazione lavorativa del professionista. Quest’ultimo si vede così costretto a rivolgersi ad un avvocato tributarista per dimostrare la sua regolarità fiscale e contabile. Questo è quello che si è verificato nelle pronunce di seguito riportate.

Corte di Cassazione, sentenza n. 549 del 15 gennaio 2020

Sotto il profilo dei maggiori ricavi conseguiti, con questa pronuncia la Cassazione è stata chiamata ad affrontare il ricorso di un contribuente a cui era stato notificato un avviso di accertamento ai fini IRPEF, IRAP ed IVA per presunti maggiori ricavi non dichiarati desunti da una serie di movimentazioni bancarie considerate non giustificate, relative sia a prelevamenti che versamenti, riferibili al consulente del lavoro ed ai suoi familiari.

In particolare, a parere del contribuente, l’Agenzia delle Entrate, a seguito delle indagini bancarie svolte, non aveva sufficientemente indicato in maniera analitica i movimenti bancari sospetti da sottoporre a tassazione in quanto derivanti da maggiori ricavi, né allegato i relativi estratti conto.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del consulente ritenendo che la presunzione legale di maggior reddito, derivante dalle risultanze dei conti correnti bancari, può applicarsi solamente per i versamenti e non anche per i prelevamenti, essendo il contribuente un lavoratore autonomo e non, invece, titolare di reddito d’impresa.

Comm. Trib. Reg. per il Lazio, sentenza n. 5776 del 07 settembre 2018

Relativamente all’omessa dichiarazione dei redditi per attività lavorativa non dichiarata, la CTR laziale ha affrontato con questa sentenza il caso di un consulente del lavoro accusato di svolgere l’attività di amministratore di fatto di una società ed avendo egli omesso di tenere la relativa contabilità traendone un indebito lucro.

Il contribuente, al contrario, contestava di non essere amministratore della società, di non possedere alcuna quota, e di svolgere per la stessa solamente mansioni di consulenza in materia di lavoro, emettendo regolari fatture e dichiarando il relativo reddito.

La CTR ha accolto il suo ricorso non avendo l’Agenzia provato la qualità di amministratore di fatto attribuita al consulente del lavoro né potendosi desumere questo ruolo dagli atti compiuti dallo stesso, quale la consegna di modelli ed i contatti con il notaio per il trasferimento all’estero della società. A parere dei giudici, infatti, si tratta di atti rientranti nell’alveo della consulenza professionale da cui non si poteva desumere il suo ruolo di amministratore che, al contrario, sarebbe dovuto essere continuativo e significativo.

Corte di Cassazione, sentenza del 03/05/2019 n. 11651 -

Infine, sotto il profilo dell'autonoma organizzazione ai fini IRAP, con questa sentenza la Cassazione ha accolto il ricorso di un consulente del lavoro a cui era stato negato il rimborso IRAP in quanto si sosteneva che egli avesse un’autonoma organizzazione (desunta da beni strumentali del valore di circa 50.000 euro e dall’elevata entità dei ricavi).

Il contribuente aveva, al contrario, dimostrato di aver esercitato l'attività senza l'ausilio di dipendenti, utilizzando beni strumentali di modesto valore.

I giudici hanno dato ragione al consulente in quanto nè l'entità dei ricavi, nè il costo dei beni strumentali, nè il ricorso ad un dipendente con mansioni semplicemente esecutive può dimostrare l’esistenza dell'organizzazione, essendo plausibile che l’entità dei ricavi sia frutto delle capacità del professionista, particolarmente bravo nel suo lavoro.

 

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