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Dichiarazione dei redditi parziali o addirittura mai presentate, mancata emissione di scontrini fiscali e contabilità disordinate sarebbero la regola per i titolari di macellerie o dei rivenditori di carne sia al dettaglio che all’ingrosso. Metodi collaudati usati dai titolari delle macellerie con fatturazioni elevate per dissimulare il reale volume di affari dell’attività.
Ed ancora, auto di lusso, ville e case secondarie sarebbero sinonimo di un giro d’affari ingente che le Fiamme Gialle tentano di ricostruire minuziosamente.
Ma è tutto da chiarire quanto vi sia di vero nei numeri ricostruiti con accertamento induttivi (che rimangono fondati su ragionamenti “ipotetici” – del tipo se hai acquistato tot secondo me hai venduto tot – e non su prove certe) dell’Agenzia delle Entrate.
Presupponendo che le macellerie, specie in un periodo storico in cui le tendenze alimentari stanno cambiando vertiginosamente indirizzandosi verso nuovi prodotti di origine vegetale a discapito di quelli di origine animale, abbiano un giro d’affari milionario è infatti tutto da dimostrare.
E ciò senza tenere conto che una macelleria di un piccolo centro isolato non può minimamente essere messa a confronto con una di grandi dimensioni, sita in una via principale di una grande città. Ed ancora, una macelleria che vende al dettaglio non può reggere il confronto con una macelleria che vende all’ingrosso.
Sono questi gli errori in cui incappa, sulla base di quello che si vede nelle stesse sentenze, l’Agenzia delle Entrate, la quale non di rado tenta di ricostruire il reale fatturato delle macellerie contestando, in primis, la discrepanza tra quanto dichiarato al fisco e quanto invece effettivamente guadagnato.
In particolare, a diversi macellai, ai quali (anche in questo casi vi è giurisprudenza) non sempre è stato garantito un contraddittorio paritario in sede di indagini e verifiche fiscali, viene contestata la non congruità dei ricavi dell’impresa rispetto alle risultanze degli studi di settore.
In poche parole, se la macelleria dichiara meno rispetto a quanto ipotizzato dallo studio di settore, allora scatta il dubbio di presunte irregolarità contabili.
Tali irregolarità, tuttavia, non possono soltanto essere supposte ma vanno analiticamente confutate e dimostrare allegando la relativa documentazione e/o giustificazione a supporto dell’operato degli accertatori.
Proprio l'esiguità delle prove e le presunzioni sono elementi che inducono a dubitare della correttezza dell'operato dell'Amministrazione Finanziaria.
Infatti, l’Agenzia dovrebbe fornire elementi concreti che siano chiaro indice della maggiore capacità contributiva delle macellerie oggetto di accertamento.
L’errore principale in cui l’Agenzia incorre è il ricorso all'accertamento induttivo per scovare la tenuta irregolare della contabilità aziendale.
Per funzionare tale accertamento dovrebbe fondarsi su elementi certi, precisi e concordanti e non su semplici presunzioni o calcoli generici.
Solo così, infatti, sarebbe possibile avvicinarsi, senza tuttavia raggiungere la certezza, ad un calcolo verosimile della redditività di un’impresa, nel nostro caso di un’attività di macelleria.
Quello della rivendita delle carni, inoltre, è un settore particolare dove la maggiore redditività dell’impresa e quindi la determinazione dei ricavi si desume dalle presunzioni di resa, di ricavato e di ricarico, calcolate spesso a tavolino dall'Agenzia delle Entrate.
In particolare, tali calcoli si basano su una presunta resa a peso morto di un animale vivo. In buona sostanza in alcuni casi si presume che da un capo di bestiame abbattuto si riesca a ricavare una determinata quantità di carne senza considerare che tale resa è estremamente variabile e dipenda dalla tipologia di bestiame, variando da periodo a periodo, da razza a razza, ecc.. Insomma, queste percentuali non possono essere stabilite in misura fissa anche perché dipendono anche da fattori soggettivi quali la capacità del macellaio, la richiesta del mercato e della clientela.
Ecco allora che quando tali calcoli vengono effettuati senza tener conto di questi elementi e quindi senza considerare le condizioni soggettive del venditore, il particolare tipo di prodotti e le qualità del mercato, le risultanze a cui arriva l’Agenzia possono essere poco attendibili e/o verosimili.
Vediamo, di seguito, i casi in cui il macellaio avvinto da accertamenti fiscali, in realtà è risultato essere vittima di pretese non dovute.
Comm. Trib. Reg. per la Liguria, sentenza n. 607 del 10 maggio 2019
Con questa pronuncia la CTR per la Liguria ha accolto il ricorso di un titolare di una piccola macelleria il quale aveva ricevuto un questionario dall'Agenzia delle Entrate attraverso cui era stata richiesta tutta la documentazione fiscale per una data annualità.
Successivamente, senza richiedere alcun chiarimento o ulteriori informazioni, era stato notificato al macellaio un avviso di accertamento, contestandogli la non congruità della ditta alle risultanze degli studi di settore, oltre a diverse irregolarità nella compilazione dello studio stesso. Era stata poi determinata la percentuale di ricarico e accertato un maggior reddito di impresa. Il contribuente, avvinto dall’avviso, ha contestato gli errori a cui era incorsa l’Agenzia la quale non aveva utilizzato nessuna media ed aveva adoperato un margine di ricarico non giustificato. Infatti, secondo il contribuente l'Ufficio avrebbe dovuto rilevare i margini di ricarico basandosi sulla totalità delle merci vendute ed effettuare una media ponderata dei vari margini di ricarico. La CTR ha accolto la sua tesi ritenendo illegittima la presunzioni di ricavi effettuata dall’Agenzia in quanto basata su una percentuale di ricarico ricavata dalle medie di settore, e fondata solamente su alcuni prodotti anziché sull'inventario generale dei beni. Inoltre, era errato il calcolo fondato sulla media aritmetica semplice, anziché con quello della media ponderale esistendo varie tipologie di merce venduta.
Comm. Trib. Prov. di Lucca, sentenza n. 116/2007
Questa controversia ha avuto origine da un avviso di accertamento notificato ad un esercente l'attività di commercio al dettaglio ed all'ingrosso di macelleria e generi alimentari per maggiori imposte dovute determinate attraverso una ricostruzione analitico-induttiva dei ricavi. L’agenzia contestava in particolare l’errata applicazione del sistema di ventilazione dei corrispettivi per l'attività di macelleria in quanto l’impresa riguardava sia vendita al dettaglio che attività di trasformazione di materia prima e commercio all'ingrosso di carni. La CTP ha ritenuto errato l'accertamento induttivo attuato dall’Agenzia in quanto lo stesso deve basarsi su elementi certi, precisi e concordanti e non su semplici presunzioni o calcoli generici e unilaterali.
I ricavi, in questo caso, erano stati determinati non su elementi certi, ma solo su presunzioni ovvero sulla resa, sul ricavato e sui prezzi e senza prendere in considerazione le condizioni soggettive del venditore, i tipi di prodotti e le qualità del mercato.
Corte di Cassazione, sentenza n. 17229 del 28 luglio 2006
Anche in questa sentenza più datata la Cassazione ha dato ragione al contribuente, un contribuente esercente l’attività di macelleria e di vendita di bestiame vivo a cui era stato accertato un maggior reddito.
In particolare, la Suprema Corte si è attestata sulla stessa posizione dei giudici di merito ritenendo che l’accertamento induttivo costituisce un'eccezione rispetto all'accertamento analitico. In questo caso, inoltre, l’Agenzia avrebbe dovuto procedere alla constatazione di violazioni gravi numerose e ripetute che avrebbero portato ad una determinazione di maggiori ricavi. Infine, un occhio agli studi di settore che, riguardando medie statistiche, prescindono dal caso concreto e, per questo, non possono costituire l'unico elemento per l'accertamento induttivo.
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