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Il settore dell’abbigliamento, relativo tanto ai marchi di lusso quanto la c.d. fast fashion o il commercio al dettaglio, è quello che, secondo alcuni, si presta di più rispetto agli altri ai tentativi di frode e speculazione.
Tra le principali accuse rivolte ai soggetti operanti nel settore: case di moda che producono nei Paesi a basso costo per poi rivendere nei mercati internazionali e sposterebbero materia imponibile tra Stati ad alta tassazione e quelli a bassa tassazione, fornitori che speculerebbero sui margini, commercianti etichettati come evasori fiscali.
Gli imprenditori operanti nel commercio al dettaglio di abbigliamento sono costretti a fare i conti con penetranti verifiche fiscali.
I controlli incrociati eseguiti nei confronti degli operatori commerciali sono volti a portare alla luce eventuale sottrazione di imponibile all’Erario.
Quanto però questi controlli siano effettivamente attuati garantendo l’effettivo contraddittorio con il contribuente ed analizzando le sue osservazioni, questo è un dato tutto da chiarire.
Una delle principali falle del sistema riguarda il controllo dei ricavi realizzati dal commerciante operante nel settore dell’abbigliamento operato in base alle risultanze degli studi di settore.
Si tratta di uno strumento adoperato dall'Amministrazione Finanziaria per assicurare una maggiore efficacia dell’accertamento in tema di imposte sui redditi, Iva e Irap. Attraverso gli elementi raccolti ed elaborati tramite analisi economiche e statistiche, l’Amministrazione arriva quindi a stimare ricavi e compensi dovuti dai commercianti operanti nel settore dell’abbigliamento.
Tuttavia, l’accertamento dovrebbe essere attuato ricorrendo a dati ed informazioni ulteriori rispetto al mero scostamento dei dati dichiarati dal contribuente rispetto a quelli relativi alla media del settore.
Ciò non sempre non accade. Infatti, accanto alle risultanze emerse dagli scostamenti rispetto agli studi di settore l’Amministrazione, dopo aver assicurato il contraddittorio con il contribuente, dovrebbe valutare le specificità di ogni singolo caso, quali la dimensione del negozio (se era di piccole dimensioni), il tempo di gestione, la presenza di personale dipendente o l’eventuale stagionalità dell’impresa.
Un altro aspetto che viene tenuto in considerazione per verificare la regolarità fiscale di un negozio di abbigliamento riguarda la gestione del magazzino e la rotazione delle scorte, sempre comparato con i dati derivanti dallo studio di settore, attraverso cui vengono rideterminati eventuali maggiori ricavi non dichiarati.
Ed ancora, sempre passati sotto lo screening degli studi di settore anche le eventuali violazioni accertate e relative, ad esempio, alla mancanza di inventario iniziale e finale, all'omesso rilascio di scontrini fiscali, alle eventuali incongruenze dell'indice di rotazione del magazzino.
Quanto però questi studi siano attendibili ed effettivamente comparati alla reale situazione economica dell'impresa di abbigliamento per determinare, appunto, i maggiori ricavi non dichiarati non si può essere così certi e sicuri.
E poi vi sono le presunte frodi e quindi la presunta ideazione di un disegno criminoso che prevede l’acquisto di beni da operatori fittizi, non esistenti, e sprovvisti di organizzazione di mezzi e personale. In questo caso la questione dirimente riguarda spesso l’effettiva conoscibilità da parte dell’imprenditore dell'inesistenza delle ditte fornitrici mirata a causare un danno erariale. La mala fede va però dimostrata e non solo presunta.
Di seguito 3 esempi di casi in cui il commerciante si è opposto alle accuse ed ha vinto il processo instaurato contro l’Agenzia delle Entrate a seguito di ricorso.
Corte di Cassazione, sentenza n. 12132 del 08 maggio 2019
Questa vicenda ha affrontato il ricorso promosso da due soci titolari di un negozio di abbigliamento per adulti contro gli avvisi di accertamento diretti sia alla società che ai soci per il recupero a tassazione IRPEF, IRAP, IVA derivante da un maggiore imponibile non dichiarato. Tale importo era stato ricavato sulla base dello scostamento tra i ricavi dichiarati e i ricavi desunti dallo studio di settore proprio di questo comparto.
Tuttavia, i contribuenti erano riusciti a provare le ragioni dello scostamento rilevato tra i ricavi dichiarati e quelli presunti derivanti in particolare dalla mancanza di un adeguato passaggio generazionale nella gestione societaria, dalla crisi che aveva investito il settore dell'abbigliamento, dalla chiusura di un punto vendita e riduzione del personale.
Tutte queste circostanze, negative per la vita dell’azienda, avrebbero infatti determinato uno scostamento in negativo che è stato ritenuto credibile dalla Cassazione la quale ha accolto il ricorso dei contribuenti rimandando la decisione nuovamente ai giudici di merito per un nuovo riesame del caso.
Comm. Trib. Reg. per il Piemonte, sentenza n. 461 del 17 marzo 2017
Dello stesso tenore della precedente pronuncia anche questa sentenza di merito, in cui il contribuente, esercente l'attività di commercio al dettaglio di abbigliamento, ha impugnato l'avviso di accertamento per maggiori ricavi desunti dalla non congruità dei dati dichiarati con gli indici di riferimento.
L’esercente ha dimostrato di essere stato vittima di un errore contabile che gli ha causato un tracollo finanziario, finanche a portandolo alla vendita della propria abitazione e determinato da un’operazione di disinvestimento di titoli contabilizzato nelle sopravvenienze attive piuttosto che nel patrimonio netto. A causa di ciò è stato costretto a chiudere l'attività e a rimanere senza impiego di lavoro.
La CTR ha dato ragione al contribuente presupponendo che gli studi di settore debbano essere supportati da elementi gravi, precisi e concordanti che però in questo caso non sono stati dimostrati o allegati dall’Agenzia delle Entrate. D’altro canto, invece, il contribuente ha dimostrato di essere stato costretto a chiudere la sua attività commerciale a causa di un dissesto provocato da un errore contabile.
Comm. Trib. Reg. per la Puglia, sentenza n. 3474 del 04 dicembre 2018
Il terzo ed ultimo caso riguarda un’attività di commercio all'ingrosso di abbigliamento ed accessori a cui venivano notificati avvisi di accertamento per una maggiore IVA dovuta e venivano applicate delle sanzioni. Ciò in quanto, a parere degli accertatori, la società aveva effettuato acquisti da fornitori inesistenti, privi di qualunque organizzazione di mezzi e persone. Gli veniva, quindi, contestata l'inesistenza soggettiva delle fatture emesse a favore del negozio e la conseguente non detraibilità della relativa IVA.
La CTR ha tuttavia ritenuto non provata la pregressa conoscenza del meccanismo fraudolento da parte dei contribuenti. Ed infatti nelle forniture non si faceva alcun riferimento allo Stato di sdoganamento, vi erano stati contatti diretti con le imprese fornitrici anche i fini delle condizioni di acquisto, vi era stato il trasferimento della merce, ecc.
La CTR ha anche ritenuto che ai fini della detraibilità dell'IVA, in caso di effettivo ricevimento della merce da parte dell’esercente, la mancanza di documenti di trasporto non comporta la conoscibilità da parte della stessa dell'inesistenza delle ditte fornitrici.
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