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Compensi non dichiarati, collaboratori in nero, assunzioni di familiari sono le irregolarità spesso contestate a medici odontoiatri nel momento in cui sono titolari di un ambulatorio dentistico ben avviato.
La categoria dei dentisti, chiamata ad osservare una rigida fiscalità e rispettare sempre e comunque gli studi di settore, è soggetta a frequenti controlli fiscali che spesso conducono a contestare la percezione in nero di proventi di decine di migliaia di euro, riguardanti prestazioni professionali effettuate - afferma l’Agenzia spesso con metodologie “presuntive” e quindi senza prove reali ma elaborando delle tesi ipotetiche - senza emettere la relativa ricevuta / fattura.
Quello che gli viene contestato è di ricorrere a diversi stratagemmi al solo scopo di alleggerire il carico fiscale, come per esempio ingigantire le spese, il canone di locazione ecc. ed abbattere così l’utile dichiarato.
Sotto il mirino del Fisco vi è anche l’emissione di fatture inferiori al costo delle prestazioni effettuate o, addirittura, acquisizione di compensi totalmente in nero.
Eppure il dentista è un professionista che per esercitare le sue prestazioni necessita di dotazioni strumentali molto costose oltre che di scorte quotidiane a continuo deperimento (ad esempio guanti, disinfettanti, mascherine, ecc.).
Avviare uno studio dentistico è un investimento importante che può essere ripagato solo lavorando duramente, in maniera etica e trasparente e, soprattutto, affrontando dei costi fissi per garantire ai pazienti un servizio ottimale ed economicamente competitivo.
Ecco allora che il ricorso ad espedienti seguito dall’accertamento fiscale e dall’applicazione di esose sanzioni può diventare un evento nefasto per uno studio dentistico non solo a livello di immagine e credibilità ma, indirettamente, anche di qualità delle prestazioni mediche erogate.
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Che cosa viene contestato ai dentisti
L’amministrazione Finanziaria per mezzo della Guardia di Finanza insinua spesso il dubbio sui reali guadagni percepiti dal medico dentista rispetto a quanto dichiarato.
Se il professionista dichiara poco rispetto alla media allora c’è – secondo i verificatori - sicuramente qualcosa che non torna. Eppure la crisi del settore ha toccato anche questa categoria, ma in diversi casi ricavi più bassi rispetto ad altri anni vengono “letti” come prova dell’evasione piuttosto che l’incidenza della crisi e/o di altri fatturi contingenti rispetto a quella specifica attività di impresa.
Si presume in alcuni casi che a determinati consumi di guanti, aspira saliva, bicchieri di plastica ecc. corrisponda un certo numero di appuntamenti fissati e di prestazioni erogate.
La principale accusa che viene mossa ai medici dentisti riguarda, per l’appunto, lo scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente e quelli ragionevolmente attesi al solo fine di diminuire le tasse dovute la Fisco.
Questi accertamenti si basano sull’acquisizione delle scritture contabili ed extracontabili recuperate durante gli accesi negli studi dentistici. Ma oggetto di indagine sono anche le cartelle dei pazienti, gli appunti di eventuali anticipi non ancora fatturati, la verifica della durata media delle sedute o le fatture relative ad acquisti di guanti e dotazioni.
Anche l’omessa fatturazione degli acconti (anche se poi fatturati al saldo) viene nella prassi contestata dall’Agenzia delle Entrate, e gli acconti vengono in determinati casi considerati come ulteriori denari, percepiti in nero (gli acconti potrebbero essere identificati dall’Agenzia, ad esempio, attraverso l’esame delle cartelle cliniche), distinti da quelli poi fatturati al saldo.
Talora gli accertamenti si fondano solo su indizi scarsamente supportati da riscontri concreti.
Ecco allora che contro il provvedimento che ridetermina il reddito ed irroga la sanzione il dentista può proporre ricorso alle Commissioni tributarie e difendersi cercando di ottenere l’annullamento del provvedimento impositivo.
Questo è quello che si è verificato in molti casi, così come nei casi riguardanti i seguenti professionisti, coinvolti in verifiche fiscali rivelatasi poi non fondate.
Corte di Cassazione, Sezione Civile, ordinanza n. 23378 del 19 settembre 2019
Questo caso ha avuto origine da un controllo sulla contabilità di un dentista basato sulla ricostruzione dei ricavi del suo studio analizzando gli acquisti per materiale destinato alle terapie svolte.
L’amministrazione Finanziaria ha per questo contestato al medico maggiori ricavi e quindi un maggiore imponibile Irpef.
Inoltre, era emerso, a parere degli accertatori un’incongruenza tra i ricavi dichiarati e le ore di attività lavorate ed i dati risultanti dallo studio di settore e dagli estratti conto bancari.
Il dentista ha allegato, sin dal primo momento, e già nel corso dell’accertamento per adesione, diversi documenti con cui ha dimostrato di aver sostenuto effettivamente dei costi nel corso dell’anno di imposta contestato, per circa 50 mila euro.
In particolare il professionista ha prodotto la documentazione contabile attestante i costi quali quietanze, fatture che sarebbero dovuti essere stati considerati per la determinazione del suo reddito.
Per questi motivi la Cassazione ha accolto il ricorso del dentista, rinviando la decisione alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto che dovrà nuovamente pronunciarsi in diversa composizione su questo caso.
Corte di Cassazione, Sezione Civile, Sentenza n. 25487 del 10 ottobre 2019
Anche con questa pronuncia gli ermellini hanno dato ragione all’odontoiatra che si è visto notificare un avviso di accertamento ai fini IRPEF per i suoi presunti maggiori ricavi rispetto a quelli indicati nella dichiarazione dei redditi, i quali si discostavano dagli studi di settore di riferimento.
La contestazione si fondava sul numero degli aspirasaliva e delle giornate lavorative svolte.
Il dentista, in particolare, ha fondato la sua difesa sue due elementi: in primis l’impossibilità di correlare il numero degli aspirasaliva, regolarmente fatturati, al numero delle prestazioni svolte. Tant’è che la stessa Agenzia delle Entrate ha precisato che il numero di strumenti destinati alla sterilizzazione non può fungere da indicatore di maggior reddito in quanto, per esigenze di tutela della salute pubblica, non si possono riutilizzare per lo stesso paziente.
In secondo luogo il contribuente ha fatto presente che l’Amministrazione, fondandosi sul rapporto tra giornate lavorative e prestazioni eseguite, ha del tutto ignorato la sua attività residua svolta in altro centro medico dentistico, documentata da regolare fattura.
La Cassazione ha così accolto il ricorso del medico dentista ritenendo che l’Agenzia delle Entrate non avesse adeguatamente dato rilievo a questi fatti.
Sentenza del 02/01/2018 n. 16 - Comm. Trib. Reg. Emilia Romagna
Anche con questa recente pronuncia la Commoissione Tributaria per la Regione Emilia Romagna ha dato ragione al medico odontoiatra, in qualità di lavoratore autonomo.
In particolare, i giudici hanno ritenuto che per il dentista l'accertamento induttivo di un maggior reddito non può fondarsi sulla rilevazione delle rimanenze dello studio (esempio guanti monouso e bicchieri di plastica) oppure sull’antieconomicità dell'attività svolta.
In particolare, le indagini sulle rimanenze contrastava con la contabilità regolarmente tenuta dal dentista che era assolutamente in linea con gli studi di settore ed, infine, con la circostanza accertata che il professionista tornava al lavoro dopo una lunga causa dovuta a problemi di salute e personali.
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