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Corte di Cassazione, Sez. 5
Ordinanza n. 21799 del 29 agosto 2019
Considerato che:
1. La CTR del Lazio accoglieva il gravame interposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza con la quale la CTP di Roma aveva parzialmente accolto il ricorso di S. s.r.l. per l'annullamento dell'avviso di accertamento XXX con il quale era stata contestata alla predetta società, in riferimento all'anno d'imposta 2003 e per quel che qui unicamente rileva, l'illegittima detrazione dell'IVA pari ad euro 347.347,43 in relazione a fatture di acquisto di autovetture di provenienza intracomunitaria riconducibili ad operazioni soggettivamente inesistenti;
2. in particolare, l'avviso di accertamento scaturiva da indagini svolte nei confronti della ditta C., con sede in XXX, all'esito delle quali tale ditta risultava essere una "cartiera" creata al solo scopo di acquistare e rivendere autoveicoli e di interporsi tra il fornitore estero e il cliente nazionale, e da un processo verbale di contestazione emesso nei confronti di S., con il quale si rilevava l'annotazione di fatture passive per importi imponibili e IVA derivanti da acquisti di autoveicoli al fine dell'eventuale commissione della frode fiscale costituente falsità in dichiarazione; il procedimento penale nei confronti del legale rappresentante della società M.S. si concludeva con decreto di archiviazione ex art. 411 c.p.p.;
3. riteneva la CTR, richiamando precedenti di legittimità, che «ove l'Amministrazione finanziaria, contesti al contribuente la indebita detrazione di fatture in quanto afferenti a prestazioni inesistenti, spetta al contribuente l'onere di provare la legittimità e correttezza dell'operazione mediante l'esibizione dei relativi documenti contabili. Detta prova non può, peraltro, essere costituita dalla sola esibizione di mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente e che, pertanto, rappresentano un mero elemento indiziario, la cui presenza od assenza deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali.» (pp. 2-3 della sentenza);
4. avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione S. affidato a cinque motivi, cui replica l'Agenzia delle Entrate con controricorso; parte ricorrente ha depositato memoria.
Ritenuto che:
5. con il primo motivo di ricorso S. denuncia difetto di motivazione, non avendo la CTR affrontato l'unico punto controverso della causa, ovverosia «se l'i.v.a. versata ad un fornitore coinvolto in una c.d. "frode carosello" sia indetraibile sempre o solo a condizione che la Società acquirente sia partecipe o, quanto meno, consapevole della frode» (p. 9 del ricorso); secondo la ricorrente, la pretesa fiscale si baserebbe unicamente sulla circostanza della provenienza delle fatture registrate dalla ditta C., pacifico essendo che i) C. aveva acquistato autovetture sempre e solo dagli stessi due soggetti stabiliti all'estero per rivenderle ad acquirenti italiani (tra cui S.), ii) la ricorrente aveva materialmente ricevuto le autovetture e pagato tanto il prezzo che l’IVA addebitatale in via di rivalsa da C., iii) la ricorrente aveva registrato le fatture passive intestate a C. detraendone l’IVA, iv) VIVA riscossa da C. non era stata dalla stessa versata; sempre secondo la ricorrente, dunque, tra tali circostanze non rientrerebbe quella della sua attiva partecipazione alla frode o comunque della sua consapevolezza della stessa, ciò «evidentemente sulla base dell'assunto che essa non fosse rilevante ai fini della pretesa» (p. 10);
6. con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633: posta la carenza motivazionale di cui al mezzo che precede, secondo S. la CTR avrebbe «implicitamente accettato la tesi dell'Ufficio, secondo cui il disconoscimento della detrazione sarebbe legittimo indipendentemente dalla consapevolezza della Società di far parte di un circuito fraudolento» (p. 13); in tal modo, tuttavia, la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con i principi unionali (art. 17 della direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE) e nazionali (art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972) in tema di detrazione dell'IVA, a mente dei quali il diritto alla detta detrazione dipenderebbe «unicamente dall'esistenza dell'operazione (così come) indicata in fattura e dalla sua inerenza all'attività esercitata, e prescinde, pertanto, dalla circostanza che il fornitore versi o meno il tributo incassato in via di rivalsa» (pp. 15-16) e purché l'acquirente risulti estraneo alla frode in quanto non sappia, o non possa sapere, di essere coinvolto nel meccanismo fraudolento, sicché «in assenza di consapevolezza da parte della S. s.r.l., il ruolo di C. non può reputarsi di "interposizione" e, tanto meno, "fittizia"» (pp. 19-20);
7. con il terzo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c.: ove invece la CTR avesse dato «implicita rilevanza alla buona fede, per escluderla in concreto, in mancanza della relativa dimostrazione da fornirsi ad opera del contribuente» (p. 21), in tal modo si sarebbe surrettiziamente integrata la motivazione dell'avviso di accertamento che (come argomentato nei motivi che precedono) non aveva preso in considerazione detto elemento psicologico; in ogni caso, l'affermazione della buona fede di S. era «stata operata dalla parte nel proprio motivo di ricorso per mero zelo difensivo ed al solo fine di» dimostrarne la sussistenza («sulla base di una serie di elementi, primo dei quali il decreto di archiviazione motivato proprio con l'estraneità della Società alla frode») qualora «l'Ufficio avesse correttamente applicato le regole che governano la detrazione, ritenendo rilevante l'atteggiamento psicologico della Società acquirente», ma «una volta constatato che la pretesa dell'ufficio era basata unicamente sulla contabilizzazione di fatture della C., ..., non può più darsi alcuno spazio alla consapevolezza o meno della Società» (p. 22), consapevolezza nemmeno affermata dall'amministrazione;
8. con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell'art. 2697 c.c.: la sentenza impugnata - se interpretata nel senso di aver ritenuto implicitamente la rilevanza dell'elemento soggettivo - violerebbe le regole relative all'onere della prova, addossando sulla contribuente un onere probatorio che graverebbe, secondo i principi generali, sull'amministrazione finanziaria, tenuta a dimostrare anche la consapevolezza della contribuente di far parte di un meccanismo volto all'evasione dell'IVA, profilo peraltro escluso dal decreto di archiviazione del procedimento penale a carico del legale rappresentante della contribuente;
9. con il quinto motivo si denuncia carenza di motivazione in ordine alla buona fede dell'acquirente: la lacunosa e contraddittoria sentenza impugnata, recependo pedissequamente le argomentazioni dell'amministrazione appellante, non indicherebbe le ragioni a sostegno della mancanza della buona fede della contribuente e della ritenuta insufficienza degli elementi di fatto indicati dall'appellata medesima (decreto di archiviazione ex art. 411 c.p.p.; regolarità delle fatture ricevute da C.; regolare tenuta della contabilità) a giustificare la detraibilità dell'IVA;
10. i motivi - che possono essere esaminati congiuntamente in quanto all'evidenza connessi, trattando tutti, sotto diversi profili, il tema della prova nell'ambito di un'operazione cd. soggettivamente inesistente inserita in una "frode carosello" - sono complessivamente fondati, peraltro nei sensi di seguito precisati;
10.1. non può consentirsi, in primo luogo, con la censura di inammissibilità mossa dall'Agenzia delle Entrate al primo mezzo poiché, al contrario di quanto da essa sostenuto, S. ha introdotto nel giudizio di primo grado, e poi in appello, il tema dell'insussistenza della propria consapevole partecipazione all'intento fraudolento di C., come si evince dagli atti defensionali citati alle pp. 5 e 7 del ricorso; da ciò peraltro discende che, una volta dato ingresso al detto tema nel processo, S. non può - fornendo una sorta di auto-interpretazione dei propri assunti difensivi (p. 22 del ricorso, terzo motivo, su cui retro, sub 7) - predicarne l'irrilevanza nel processo medesimo, per giunta dopo aver invocato gli orientamenti di giurisprudenza, sia della Corte di Giustizia che di questa Corte, sullo specifico tema;
10.2. da tanto consegue anche l'infondatezza dell'ulteriore censura di inammissibilità dei restanti motivi di ricorso che, pur formulati in termini di ipotesi ricostruttiva delle ragioni alla base della sintetica motivazione della sentenza impugnata, indicano nondimeno gli elementi (materiale consegna delle autovetture; versamento del prezzo e dell'IVA di rivalsa; decreto di archiviazione ex art. 411 c.p.p., elemento quest'ultimo particolarmente valorizzato in ricorso: pp. 22, 27 e 30-31) in relazione ai quali la contribuente afferma la legittimità della detrazione in discorso;
10.3. orbene, la CTR, nel ritenere errata la sentenza di primo grado laddove aveva meramente affermato la detraibilità, nella specie, dell'IVA da parte della cessionaria S. senza spiegarne le ragioni, offre a sua volta una motivazione affatto inappagante poiché non esplicita in alcun modo la propria valutazione delle emergenze istruttorie alla stregua delle regole di riparto dell'onere probatorio applicabili al caso in esame, risolvendo il proprio convincimento in null'altro che una mera petizione di principio (retro, sub 3: spetta al contribuente provare il diritto alla detrazione mediante indizi da valutarsi «nel contesto di tutte le altre risultanze processuali»);
10.4. Sulle operazioni soggettivamente inesistenti la Sezione, alla luce della giurisprudenza unionale, ha da tempo affermato il principio - cui deve darsi senz'altro continuità - secondo il quale in tema di IVA,l'amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, ha l'onere di provare non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (così, da ultimo, Sez. 5, 20 aprile 2018, n. 9851, nonché Sez. 5, 24 agosto 2018, n. 21104; si v. anche Sez. 5, 9 settembre 2016, n. 17818, secondo la quale, con riferimento all'onere probatorio gravante sul contribuente, non è sufficiente «la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti», ovvero, quanto alla regolarità delle scritture ed alle evidenze contabili del pagamento, «di dati e circostanze facilmente falsificabili»: Sez. 6- 5, 15 maggio 2018, n. 11873);
10.5. la generica ed apodittica motivazione offerta dalla CTR trascura del tutto i principi testé richiamati: come più sopra osservato, essa invero assume la legittimità dell'azione dell'ufficio senza spiegarne le ragioni, così come omette di esaminare gli elementi (qualificati come indiziari) offerti dalla contribuente nel - pur evidenziato - «contesto di tutte le altre risultanze processuali» e, quindi, di spiegare la non estraneità (nei sensi dianzi precisati) di S. all'inserimento dell'operazione in un'evasione dell'IVA;
10.6. riguardo, in particolare, all'esito del procedimento penale, non sembra poi inutile rammentare l'autonomia delle valutazioni rimesse al giudice tributario rispetto a quelle proprie del giudice penale, alla stregua del principio, fissato in tema di rapporti tra giudicato penale e giudizio tributario, per il quale «In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l'accertamento degli uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall'art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio» (così, da ultimo, Sez. 6-5, 24 novembre 2017, n. 28174; si v. in precedenza, le conformi Sez. 6-5, 28 giugno 2017, n. 16262; Sez. 5, 23 maggio 2012, n. 8129; Sez. 5, 27 settembre 2011, n. 19786; Sez. 5, 8 ottobre 2010, n. 20860).
11. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata per quanto di ragione, con rinvio alla CTR del Lazio che, in diversa composizione, procederà a nuovo esame attenendosi ai suesposti principi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, per quanto di ragione; cassa l'impugnata sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Roma, 3 ottobre 2018.
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