Estratto: “la CTR non ha in alcun modo accertato se, nel caso di specie, risultasse soltanto un rendimento di polizza calcolato attraverso l'adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate o se, invece, vi fosse un effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non necessariamente finanziario, con conseguente determinazione del rendimento netto ed applicazione della relativa aliquota“.
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Civile, Sez. 5, ordinanza Num. 6809 dell'11 marzo Anno 2020.
RILEVATO CHE
L.P.F. impugnava il silenzio rifiuto opposto dall'Agenzia delle entrate all'istanza di rimborso delle ritenute operate dal fondo previdenziale E., denominato P.I.A., sulle somme corrisposte al contribuente al momento della cessazione del rapporto di lavoro quale dirigente Enel, avvenuta in data 31.5.1996, in luogo del trattamento di pensione integrativa, la cui tassazione, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto essere effettuata ex art. 6 I. n. 482/85, mediante l'applicazione dell'aliquota del 12,5%.
La CTP, nel costituito contraddittorio con l'Ufficio, accoglieva il ricorso.
La CTR della Sicilia, con sentenza n. 158/01/13, pronunziata il 20.6.2013 e depositata il 4.7.2013, accoglieva l'appello dell'Ufficio avverso la decisione di prime cure e, per l'effetto, confermava il diniego del richiesto rimborso «in conseguenza della tardività dell'istanza».
In tale prospettiva, la CTR riteneva "troncante" l'intervenuta decadenza del contribuente dal termine per la presentazione dell'istanza di rimborso, fissato in 18 mesi a decorrere dalla data di effettuazione della ritenuta, secondo il tenore dell'art. 38, comma 2, d.P.R. n. 602/73 nel testo vigente al 18.12.2000, data nella quale le somme in esame erano state erogate al contribuente ed era stata operata la ritenuta; nella specie, l'istanza di rimborso era stata presentata il 21.6.2004 e, quindi, soltanto dopo il decorso del predetto termine.
La CTR, peraltro, non si limitava al riscontro del predetto effetto decadenziale, ma affrontava, altresì, il merito della controversia, osservando come le somme in questione non potessero essere equiparate ad una forma di indennizzo avente natura assicurativa, quanto, piuttosto, all'indennità di fine rapporto.
Avverso tale decisione propone ricorso il contribuente, sulla base di tre motivi.
Resiste l'Agenzia con controricorso. Il contribuente ha, altresì, depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1. Va osservato, in via preliminare, che l'impugnata decisione della CTR ha accolto una questione pregiudiziale di merito avente carattere assorbente, ritenendo la domanda di rimborso tardiva e, ciò nonostante, ha proceduto comunque all'esame delle ulteriori questioni attinenti al merito. In tale prospettiva, deve trovare applicazione l'orientamento di questa Corte, secondo cui «il giudice, decidendo su una questione che, benché logicamente pregiudiziale sulle altre, attiene al merito della causa, a differenza di quanto avviene qualora dichiari l'inammissibilità della domanda o il suo difetto di giurisdizione, o competenza, non si priva della "potestas iudicandi" in relazione alle ulteriori questioni di merito, sicché, ove si pronunci anche su di esse, le relative decisioni non configurano "obiter dicta", ma ulteriori "rationes decidendi", che la parte ha l'interesse e l'onere d'impugnare, in quanto da sole idonee a sostenere il "decisum"» (cfr. Sez. 1 - , n. 6985 del 11/03/2019, Rv. 653108 - 01; Sez. 5, n. 7838 del 17/04/2015, Rv. 635230 - 01).
Correttamente, pertanto, il contribuente ha proposto ricorso contro entrambe le rationes decidendi sulle quali si fonda la decisione impugnata.
2. Ciò posto, per ragioni di priorità logica deve essere esaminato il secondo motivo di ricorso, avente portata potenzialmente assorbente, con il quale viene dedotta la nullità della sentenza per violazione dell'art. 132 cod. proc. civ., in quanto la CTR non avrebbe enunciato le ragioni di fatto e di diritto attraverso le quali è pervenuta alla decisione.
Il motivo è infondato. Invero, dal pur succinto compendio giustificativo sviluppato a supporto della decisione è comunque evincibile l'iter logico-argomentativo che ha portato i giudici di appello a regolare la vicenda in esame in base alle regole concretamente applicate: tanto sia in relazione all'effetto decadenziale scaturente dall'intervenuto decorso del termine per la presentazione dell'istanza di rimborso, in conseguenza della sua fissazione in 18 mesi, ex art. 38, comma 2, d.P.R. n. 602/73 nel testo vigente alla data di erogazione delle somme in esame e di effettuazione della ritenuta (18.12.2000), avendo la CTR precisato che il diverso termine di 48 mesi sarebbe stato applicabile soltanto «con l'entrata in vigore della richiamata I. n. 388/2000 e cioè dal 1.1.2001»; sia in relazione al profilo "sostanziale" afferente alla natura delle somme erogate, ritenuta da equiparare all'indennità di fine rapporto ai fini impositivi e non a contratti di assicurazione sulla vita ai quali soli poteva applicarsi l'aliquota ridotta del 12,50%.
3. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 38 d.P.R. n. 602/73, nel testo introdotto dalla I. 13 maggio 1999, n. 133, art. 1, e dalla I. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 34, comma 6, nonché dell'art. 11 preleggi, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto non applicabile il più ampio termine di 48 mesi introdotto con le predette leggi di modifica.
Il motivo è fondato. Nella specie, deve richiamarsi il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 260 del 26/10/2011, dep. 2012; Sez. 6 - 5, n. 2016 del 29/01/2014, Rv. 629064 - 01; v. anche Sez. 5, n. 924 del 18/01/2005, Rv. 579402 - 01), secondo il quale il più ampio termine di decadenza per la presentazione dell' istanza di rimborso, stabilito in 48 mesi dalla data del versamento - in luogo dei 18 originariamente previsti dall' art. 38 cit. - , trova applicazione nel caso in cui, alla data di entrata in vigore della nuova normativa, sia ancora pendente il termine originario, mentre non è applicabile se e nella misura in cui, alla data predetta, tale termine sia già scaduto, avendo ciò determinato, in base ai principi generali in tema di efficacia delle leggi nel tempo, il definitivo esaurimento del rapporto tra il contribuente che pretende il rimborso e l'amministrazione finanziaria. Per quanto attiene, poi, l'individuazione della data alla quale fare riferimento per calcolare la durata del termine decadenziale da applicare, va rilevato che il citato art. 38 disciplina, ai commi 1 e 2, due diverse ipotesi, a seconda che la domanda di rimborso sia presentata dal soggetto che ha effettuato il versamento diretto (ossia il sostituto d'imposta diverso dall'amministrazione statale), oppure dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta.
Per entrambi i casi il termine di decadenza è stato elevato, come osservato, da diciotto a quarantotto mesi, ma nel primo caso (sostituto d'imposta) il termine è stato elevato dalla I. n. 133 del 1999, art. 1, comma 5, con decorrenza dal 18.5.1999; nei secondo caso (percipiente) e stato elevato dalla I. n. 388 del 2000, art. 34, comma 6, con decorrenza dall'1.1.2001, data di entrata in vigore della legge stessa.
Nel caso di specie, la domanda di rimborso è stata presentata dal percettore della somma erogata dal fondo P.I.A. dell'E.: trova pertanto applicazione l'art. 38, comma 2, cit. e, conseguentemente, la data di entrata in vigore del nuovo e più ampio termine decadenziale è quella de111.1.2001.
A tale data, in particolare, il predetto termine di decadenza, nella sua originaria estensione di 18 mesi, era ancora pendente e non era ancora decorso integralmente, posto che le somme in esame erano state erogate al contribuente ed era stata operata la ritenuta in data 18.12.2000.
In conclusione, quindi, nella fattispecie in esame la richiesta di rimborso risulta tempestiva, in quanto presentata entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata, secondo la formulazione dell'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973, nel testo modificato dall'art. 34, comma 6, della I. n. 388/2000.
4. Con il terzo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 I. 23.10.1992, n. 421; 6, comma 1, I. 26.9.1985, n. 482; 41, comma 1, lett. g-quater, 42, comma 4, d.P.R. 22.12.1986, n. 917 vigente ratione temporis, come integrato dall'art. 11, comma 3 I. 8.8.1995, n. 335 e come autenticamente interpretato dall'art. 1, comma 5, d.l. 31.12.1996, n. 669, conv, con mod. dalla I. 28.2.1997, n. 30, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. 4.1. Alla base della prospettazione del motivo, il ricorrente pone la nota pronuncia delle Sezioni Unite 22/06/2011, n. 13642, secondo cui, in tema di fondi
previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000 sono soggette al regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, solo per quanto riguarda la "sorte capitale", mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dall'art. 6 della I. 26 settembre 1985, n. 482. In tale prospettiva, premesso che il ricorrente era già iscritto al fondo di previdenza di cui si tratta in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993 e che le prestazioni in somma capitale sono state erogate anteriormente al 31.12.2000, si evidenzia come la CTR abbia totalmente trascurato la questione centrale e decisiva per la soluzione della controversia, consistente nell'individuare il "rendimento netto" imputabile alla gestione sul mercato, al quale applicare l'aliquota del 12,50%. In tale contesto argomentativo, il contribuente sostiene la tesi della differenziazione fra la fattispecie P.I.A., oggetto del presente giudizio, e la fattispecie afferente il fondo di previdenza complementare denominato Fondenel, costituitosi successivamente al Fondo P.I.A. nel 1998, ed assume che il rendimento, attese le caratteristiche del fondo P.I.A., sarebbe pari alla differenza fra capitale da corrispondere ed i premi (contributi) versati; inoltre, sottolinea che i "rendimenti" prodotti dalla gestione dei "vecchi fondi" avevano la caratteristica di rendimenti di origine assicurativa, anche se non prodotti da imprese assicurative, anche alla luce del modello gestionale di tipo assicurativo adottato, individuabile, ad esempio, nell'adozione da parte degli stessi Fondi delle riserve matematiche e dei sistemi tecnico-attuariali della capitalizzazione tipici delle imprese assicurative; aggiunge che le Sezioni Unite, quando hanno fatto riferimento al "rendimento netto" imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato, hanno inteso riferirsi al mero "rendimento di polizza", rapportato alla natura previdenziale - assicurativa propria della P.I.A.
Il ricorrente, infine, rimarca che l'aggettivo "finanziario" riferito al rendimento non era stato affatto menzionato dalle Sezioni Unite nella citata decisione.
4.2. Il motivo è fondato, seppure per ragioni diverse da quelle indicate dal ricorrente. Va osservato, sul punto, che questa Corte può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella patrocinata dal ricorrente, sempre che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l'esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'introduzione nel giudizio d'una eccezione in senso stretto. (Sez. 3, n. 18775 del 28/07/2017, Rv. 645168 - 01; Sez. 6 - 3, n. 3437 del 14/02/2014, Rv. 629913 - 01).
Ciò posto, occorre, altresì, premettere che la fattispecie in esame e le stesse argomentazioni formulate da parte ricorrente corrispondono a quelle ripetutamente esaminate dalla Corte sotto i connessi profili della individuazione della nozione di rendimento e della prova dello stesso. In tale prospettiva, il Collegio intende ribadire e dare continuità all'impostazione adottata dall'indirizzo prevalente di questa Sezione, con le precisazioni già evidenziate da alcune recenti decisioni, fra le quali possono validamente richiamarsi, per la puntualità e completezza argomentativa, Sez. 5, n.10285 del 26/04/2017, nonché Sez. 5, n. 15853 del 15/06/2018, Rv. 649228 - 01.
4.3. Appare opportuno, dunque, ripercorrere, in rapida sintesi, i termini della complessa questione che ha originato la sopra richiamata pronuncia delle Sezioni Unite. - A decorrere dal 1.1.1986 (in base al comma 4 dell'art. 12 del CCNL del 16 maggio 1985, recepito dall'Enel) venne prevista, a favore dei dirigenti Enel, la stipulazione di un'assicurazione sulla vita con la previsione dell'erogazione di una prestazione all'atto del collocamento a riposo. Successivamente, sempre nel 1986, in forza di un accordo fra l'Enel e la Federazione nazionale dirigenti di aziende industriali (Fndai), tale trattamento assicurativo fu sostituito con un rapporto di previdenza pensionistica integrativa (c.d. P.I.A., Previdenza Integrativa Aziendale) con prestazioni da erogare in forma di trattamento periodico (ciò peraltro con efficacia retroattiva al 1.1.1986, onde la previsione relativa alla stipula di polizze vita di fatto non venne mai applicata). - Tale forma di previdenza venne però dismessa nel 1998 e i fondi accumulati trasferiti a Fondenel, Fondo di Previdenza integrativa esterno, che doveva gestire una forma di previdenza complementare a capitalizzazione individuale, che consentiva ai dirigenti Enel che vi avevano aderito alla liquidazione dell'intero capitale accumulato in luogo della rendita vitalizia, previa richiesta al momento della cessazione del rapporto di lavoro. - Sotto il profilo del regime fiscale di tale prestaziorie, si registrava una contrapposizione fra: a) la tesi patrocinata dai dirigenti-contribuenti, secondo cui il capitale richiesto, in quanto originato da un contratto assicurativo, deve essere assoggettato alla ritenuta a titolo di imposta nella misura del 12,5% ai sensi dell'art. 6 legge 26 settembre 1985, n. 482 (e ciò quantomeno sulla differenza tra l'ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 % per ogni anno successivo al decimo se il capitale è corrisposto dopo almeno dieci anni dalla conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 42, comma 4, t.u.i.r.); b) la tesi dell'Amministrazione finanziaria, secondo cui detta erogazione non costituisce reddito di capitale in dipendenza di un contratto assicurativo sulla vita, ma va qualificata come reddito di lavoro dipendente, soggetto a tassazione separata ai sensi degli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 t.u.i.r.. 4.4. Nello sciogliere il nodo interpretativo ed il correlativo contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, la citata sentenza delle Sezioni Unite ha enunciato il principio di diritto che, come noto, afferma: «in tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, ad un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino a 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 (t.u.i.r.), solo per quanto riguarda la "sorte capitale" corrispondente all'attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dai 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 t.u.i.r.».
La Corte, pertanto, ha operato una distinzione fra la situazione dei soggetti già iscritti a forme pensionistiche complementari prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (28 aprile 1993) e quella degli iscritti a forme analoghe in epoca successiva a tale discrimine normativo-temporale ( l'art. 13, comma 9, del d.lgs. 124 del 1993 assoggetta le prestazioni in forma di capitale «comunque» a tassazione separata): discrimine discendente dalla norma interpretativa di cui all'art. 1, comma 5, dl. 31 dicembre 1996 n. 669, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 febbraio 1997 n. 30; ha, quindi, evidenziato che «a questa situazione "binaria", che distingue tra "vecchi iscritti" e "nuovi iscritti" a forme pensionistiche complementari, pose fine l'art. 12, comma 1, d.lgs. 18 febbraio 2000 n. 47 (come modificato dall'art. 9, comma 1, lett. a), d.lgs. 12 aprile 2001 n. 168), a norma del quale "per i soggetti che risultano iscritti a forme pensionistiche complementari alla data da cui ha effetto il presente decreto, le disposizioni introdotte dall'art. 10 ) relativamente al "trattamento tributario delle prestazioni pensionistiche erogate ai sensi del d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124) ... si applicano alle prestazioni riferibili agli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001.
Per i medesimi soggetti, relativamente alle prestazioni maturate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente"».
4.5. In conclusione, sono soggetti a tassazione separata, ai sensi degli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 t.u.i.r., senza alcuna distinzione circa la loro interna composizione, sia i capitali (tutti) maturati dai soggetti iscritti a forme pensionistiche complementari dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, sia i capitali maturati successivamente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti a forme pensionistiche complementari anteriormente all'entrata in vigore di quest'ultimo provvedimento.
Quanto, invece, ai capitali maturati anteriormente alla predetta data dai soggetti iscritti a forme pensionistiche complementari anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993 — in relazione ai quali occorre applicare, come detto, «le disposizioni vigenti anteriormente» — le Sezioni Unite hanno evidenziato che «il trattamento tributario delle prestazioni erogate non è, e non può essere, indipendente dalla composizione strutturale delle prestazioni stesse», le quali «nel caso concreto, trattandosi di un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono composte da una "sorte capitale", costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal lavoratore), e da un "rendimento netto", imputabile alla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato». «Sicché» — ha soggiunto la Corte —«possono essere tassate in modo analogo al t.f.r. esclusivamente le somme liquidate a titolo di capitale, mentre alle somme corrispondenti al rendimento di polizza (nella fattispecie P.I.A.), si applica la tassazione nella misura del 12,50 per cento ai sensi dell'art. 6 I. 26 settembre 1985 n. 482».
5. Successivamente alla citata pronuncia delle Sezioni Unite, si sono sviluppate tra le parti in lite contrapposte interpretazioni circa il concetto di «rendimento netto», cui applicare la ritenuta del 12,5%, che trovano riscontro anche nella presente controversia: si è, infatti, prospettata - anche da parte dell'odierno contribuente -, la tesi secondo cui, con riferimento almeno alla parte del capitale corrisposto riferibile agli accantonamenti in P.I.A. (anteriori dunque al 1998), il criterio impositivo previsto dall'art. 6, legge n. 482 del 1985 andrebbe comunque applicato alla differenza tra detto capitale e il complessivo ammontare dei premi, essendo stati questi ultimi versati in funzione di un programma avente origine assicurativa e in coerenza, pertanto, con quanto previsto dalla citata disposizione che riferisce il detto criterio, espressamente, ai «capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita, esclusi quelli corrisposti a seguito di decesso dell'assicurato». Per converso, l'Amministrazione finanziaria ha sostenuto che, avendo avuto il piano P.I.A. natura e scopo previdenziali e avendo esso operato attraverso l'accantonamento, secondo tecniche attuariali, di somme in assoluta prevalenza versate dall'ente datore di lavoro, idonee a costituire riserva matematica sufficiente a coprire sin da subito le prestazioni erogande (a loro volta commisurate su base retributiva, e non contributiva), queste ultime, a fini fiscali, in nulla si differenziavano dal TFR e andavano pertanto soggette, quale retribuzione differita, a tassazione separata ai sensi degli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 5.1. Sul punto, va ricordato che la successiva giurisprudenza di questa Corte ha adottato, con numerosissimi arresti, di gran lunga prevalenti su quelli di segno diverso, una lettura del principio affermato dalle Sezioni Unite secondo la quale il descritto più favorevole criterio impositivo può trovare applicazione limitatamente alle somme rivenienti dall'effettivo investimento, da parte del fondo, sul mercato finanziario, del capitale accantonato e che ne costituiscono il rendimento (cfr., ex plurimis, Cass. 29/12/2011, n. 29583; Cass. 12/01/2012, n. 280; Cass. 04/04/2012, n. 5376; Cass. 25/05/2012, n. 8320; 27/03/2013, nn. 7724-7728; Cass. 22/05/2013, nn. 12491- 12496; Cass. 02/10/2013, n. 22492; Cass. 09/10/2013, n. 22950; Cass. 12/02/2014, n. 3132; Cass. 12/02/2014, n. 3136; Cass. 19/03/2014, n. 6380; Cass. 09/04/2014, n. 8310; Cass. 04/02/2015, n. 1977; Cass. 22/05/2015, n. 10604; Cass. 13/01/2017, n. 720).
5.2. Ritiene il Collegio di aderire a questo orientamento, come osservato del tutto prevalente, facendo proprie altresì le precisazioni operate, fra le altre, dalla già richiamata sentenza n. 10285/17.
Va, pertanto, ribadito quanto affermato da tale ultima decisione, ossia, innanzitutto, che «l'applicazione del più favorevole meccanismo impositivo ex art. 6 legge n. 482 del 1985 si giustifica in ragione della "equiparazione" tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e (quelli corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione posta dagli artt. 41 (ora 44), comma 1, lett. g-quater), e 42 (ora 45), comma 4, t.u.i.r.. Non già, dunque, per effetto di una diretta riconduzione della fattispecie alla previsione di cui all'art. 6 legge n. 482 del 1985 (invero espressamente riferita solo ai capitali corrisposti da "imprese di assicurazione" in dipendenza di "contratti di assicurazione sulla vita, esclusi quelli corrisposti a seguito di decesso dell'assicurato"), ma solo in via di applicazione analogica di tale disposizione ai capitali corrisposti in dipendenza di contratti di capitalizzazione, analogia a sua volta giustificata dalla comune considerazione delle due fattispecie nel t.u.i.r., quali ipotesi omogenee di redditi di capitale.
Non si è mai dubitato, dunque, che la ragione della eventuale assoggettabilità a detto meccanismo dei capitali corrisposti, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ai dirigenti Enel aderenti al descritto fondo di previdenza integrativa, non vada ricercata — neppure con riferimento a quelli riferibili agli accantonamenti operati in regime di P.I.A. prima del 1998 — in una non predicabile natura assicurativa della prestazione, né tanto meno del soggetto erogante, quanto piuttosto nella possibilità di ravvisare in quelle prestazioni redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione (e nei limiti in cui tale possibilità sussista)».
Che non si tratti di redditi derivanti da contratti di assicurazione sulla vita lo si può desumere, del resto, dal contenuto degli accordi succedutisi nel tempo tra Enel e organizzazioni sindacali di categoria; lo stesso contribuente, del resto, affida la tesi della natura assicurativa delle prestazioni di che trattasi, ai fini predetti, alla considerazione che il fondo di previdenza integrativa denominato P.I.A. era destinato a garantire, sin da subito, una prestazione previdenziale complementare pari al 70% della differenza intercorrente tra la retribuzione individuale e il valore annuo massimo della pensione erogabile dal sistema previdenziale obbligatorio, e ciò attraverso la necessaria adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico attuariali di capitalizzazione «tipici delle imprese assicurative».
5.3. Orbene, in tale ottica, non può che ribadirsi che, contrariamente all'assunto della parte, che individua proprio in tale meccanismo il «minimo comune denominatore» che consentirebbe di considerare i rendimenti in questione di natura assicurativa, è evidente che si tratta, piuttosto, di un mero criterio matematico funzionale alla quantificazione delle risorse necessarie per garantire la copertura richiesta dalle prestazioni concordate, come tale neutro e privo di significato ai fini della qualificazione di queste ultime, che resta legata ad altri elementi, quali la causa del contratto e la provenienza delle risorse medesime. Pertanto, solo se - ed in quanto - i capitali corrisposti siano «redditi di capitale derivanti da contratti di capitalizzazione» si può giustificare l'applicazione del meccanismo impositivo di cui all'art. 6 legge n. 482 del 1985; e, a tale riguardo, si deve pertanto escludere la possibilità di distinguere tra P.I.A. e Fondenel — ossia tra rendimenti degli accantonamenti operati prima del 1998 nel fondo denominato P.I.A. e rendimenti riferibili invece alla gestione Fondenel del periodo successivo — e considerare i primi comunque assoggettabili al detto meccanismo in ragione di una presunta, ma come detto insussistente, natura assicurativa delle prestazioni. Va ribadito che tale distinta considerazione non può, in particolare, ricavarsi dal citato arresto delle Sezioni Unite, il quale invero descrive il fondo de quo in termini
chiari e univoci, e senza alcuna distinzione rispetto alle diverse configurazioni succedutesi nel tempo, quale «fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente» le cui prestazioni sono composte «da una "sorte capitale", costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal lavoratore), e da un "rendimento netto", imputabile alla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato».
Data tale premessa non può dubitarsi — anche per la congiunzione «sicché» che lega i due periodi da nesso logico di conseguenzialità — che il successivo riferimento testuale al «rendimento di polizza (nella fattispecie Pia)» abbia solo un valore descrittivo/esemplificativo della parte dei capitali corrisposti eventualmente tassabile nella misura del 12,50 % ai sensi dell'art. 6 legge n. 482 del 1985, fermo restando il requisito poco prima indicato perché un tale rendimento possa effettivamente identificarsi, rappresentato dall'essere lo stesso discendente dalla «gestione sul mercato del capitale accantonato».
Va, pertanto, confermata la conclusione che l'aliquota del 12,50 % ex art. 6 legge n. 482 del 1985 si applica ai capitali, maturati anteriormente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti al fondo di previdenza integrativa di che trattasi (P.I.A., poi Fondenel) prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, limitatamente a quella parte di essi costituita dal rendimento netto, derivante dalla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato.
Tale requisito deve essere accertato, dunque, anche per i capitali maturati e gli accantonamenti effettuati anteriormente alla trasformazione del fondo da P.I.A. a Fondenel.
5.4. Ciò posto, questo Collegio ritiene, altresì, condividere e di dare continuità all'ulteriore principio secondo cui, per somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento devono intendersi quelle derivanti dall'effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non necessariamente finanziario: invero, la limitazione di tale requisito ai soli investimenti nel mercato finanziario (secondo l'indicazione contenuta nella Risoluzione n. 102/E del 26 novembre 2012 . dell'A.d.e., avallata da diverse sentenze successive alla pronuncia delle SU.: cfr. Cass. nn. 7724-7728, 12491-12496, 22950 del 2013; nn. 3136, 6380 e 8310 del 2014; n. 1977 del 2015), non è desumibile dalla sentenza delle Sezioni Unite che fa riferimento soltanto alla «gestione sul mercato», senza alcuna aggettivazione.
5.5. È però da escludersi che tale requisito possa considerarsi soddisfatto dall'essere il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività ottenuta sul mercato dell'intero patrimonio dell'Enel (rapporto tra il margine operàtivo lordo e il capitale investito). Tale coerenza (del rendimento ottenuto dal capitale accantonato con quello ottenuto dal patrimonio dell'Enel) costituisce, infatti, comunque un dato estrinseco e non causale, nel senso che il primo non può comunque considerarsi frutto dell'investimento di quegli accantonamenti nel libero mercato, come richiesto perché abbia a configurarsi il reddito da capitale della specie richiesta, essendo al contrario esso stesso dipeso da un predeterminato calcolo di matematica attuariale.
5.6. Può in conclusione enunciarsi, ai sensi dell'art. 384, comma primo, cod. proc. civ., il seguente principio di diritto: «in tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati a decorrere dal 1° gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo vigente ratione temporis); b) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, invece, la prestazione è assoggettata a detto regime di tassazione separata solo per quanto riguarda la sorte capitale, costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore e corrispondente all'attribuzione 16 patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dall'art. 6 legge 26 settembre 1985, n. 482, alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento. Sono tali le somme derivanti dall'effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato — non necessariamente finanziario — non anche quelle calcolate attraverso l'adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate».
6. Tanto osservato, risulta evidente dalla motivazione della sentenza impugnata come la CTR non si sia posta il problema dell'individuazione del c.d. rendimento netto e non abbia fatto applicazione del sopra enunciato principio di diritto, essendo arrivata ad escludere tout court, per così dire "a monte", l'applicabilità dell'aliquota agevolata sulla base di una equiparazione integrale del trattamento corrisposto all'indennità di fine rapporto; equiparazione, fra l'altro, neppure adeguatamente argomentata.
In altri termini, la CTR non ha in alcun modo accertato se, nel caso di specie, risultasse soltanto un rendimento di polizza calcolato attraverso l'adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate o se, invece, vi fosse un effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non necessariamente finanziario, con conseguente determinazione del rendimento netto ed applicazione della relativa aliquota.
Tanto impone di accogliere il motivo in esame, sia pure per ragioni diverse da quelle sostenute nel suo svolgimento e fondate sulla ricostruzione della nozione di rendimento in modo conforme ai principi che precedono.
7. In conclusione, devono essere accolti il primo ed il terzo motivo di ricorso, mentre il secondo deve essere rigettato.
La sentenza impugnata deve essere, conseguentemente, annullata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla CTR della Sicilia, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla CTR della Sicilia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 13 giugno 2019
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