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L'IMPRESA BANCARIA HA IMPUGNATO LA SENTENZA PER NON AVER ADEGUATAMENTE MOTIVATO IN MERITO ALL' ATTRIBUIBILITÀ O MENO ALLA FILIALE MILANESE DEI CONTESTATI COMPONENTI NEGATIVI DEL REDDITO. ACCOLTO IL RICORSO.

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Estratto: è dato rilevare che la C.T.R. non ha spiegato, con chiarezza, le ragioni di condivisione dell'azione accertatrice, e cioè sulla base di quali elementi di fatto abbia ritenuto che l'importo in contestazione (euro 609.683), consistente in perdite su crediti e altri oneri connesse alla cessione (ad altri istituti di credito) di contratti di finanziamento, stipulati dalla succursale milanese con i propri clienti italiani, non rileverebbero come costi deducibili, ossia come componenti negativi del reddito della «SO», assoggettato ad imposizione fiscale in Italia”. 

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Civile, Sez. 5, sentenza Num. 7801 del 14 marzo 2020.

                                                            FATTI DI CAUSA

1. C.N.A. (in seguito: «CNA») è una società di diritto statunitense che svolge attività bancaria anche in Italia tramite la succursale di Milano, la quale, ai fini delle imposte sui redditi, si qualifica come una stabile organizzazione (anche: succursale milanese, filiale italiana, «SO», «branch») e concede linee di credito alla propria clientela italiana.

2. La stabile organizzazione impugnò, innanzi alla CTP di Milano, l'avviso di accertamento IRPEF, IRAP, per l'annualità 2003, emesso sulla base del processo verbale di constatazione della polizia tributaria, che recuperava a tassazione componenti negativi del reddito di impresa, per euro 609.683,00, in quanto correlati a ricavi ed attività riferibili alla casa madre statunitense.

3. La C.T.P. di Milano accolse il ricorso, con decisione (sentenza n. 114/01/2010) che, in esito all'appello dell'Agenzia, nel contraddittorio della contribuente, è stata parzialmente riformata dalla Commissione regionale che, in sostanza, ha ritenuto illegittimo l'avviso limitatamente all'irrogazione delle sanzioni, confermandolo nel resto.

4. La Commissione regionale, per quanto ancora rileva, richiamato il contenuto dell'art. 7, commi 2 e 3, della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi e le evasioni fiscali, vigente ratione temporis, ha affermato che: (a) l'art. 7, comma 3, cit., in tema di deducibilità delle spese attribuibili alle attività svolte dalla stabile organizzazione, è norma specifica che supera le eventuali, diverse disposizioni nazionali in tema di inerenza degli oneri connessi alla produzione di ricavi; (b) nella specie, la ripresa fiscale riguarda oneri sostenuti dalla «SO», la quale, per esercitare la propria attività creditizia, aveva utilizzato, oltre al proprio patrimonio, anche le risorse finanziarie rese disponibili dalla casa madre dietro corrispettivo; (c) in tal modo CNA ha sottratto all'erario nazionale, a favore di quello estero, il costo dell'approvvigionamento delle risorse finanziarie eccedenti il fondo di dotazione della stabile organizzazione ed ha gravato quest'ultima di oneri eccedenti quelli attribuibili all'attività svolta in Italia, ammessi in deduzione, ai sensi del terzo comma, dell'art. 7, della Convenzione, costituiti dagli interessi passivi a carico della filiale milanese e dalle spese connesse alla gestione dei crediti; (d) l'ufficio, seguendo un procedimento di calcolo non contestato dal punto di vista algebrico, ha legittimamente ripreso a tassazione la quota parte delle spese connesse all'attività esercitata dalla stabile organizzazione, utilizzando una provvista eccedente il fondo di dotazione, e, in tal modo, ha eliminato, testualmente: «il duplicato abbattimento di oneri ed ha conservato solo quello che ragionevolmente deriva dall'attività svolta in Italia.».

5. La banca statunitense ricorre per la cassazione di questa sentenza, sulla base di quattro motivi, illustrati con una memoria ex art. 378, cod. proc. civ.; l'Agenzia è rimasta intimata.

                                                  RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso [1. Violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 3 della Convenzione, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.], la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere riconosciuto che l'indeducibilità dei componenti negativi del reddito emersi a seguito della cessione a terzi di taluni contratti di finanziamento, stipulati dalla branch, trovasse il proprio fondamento giuridico nell'art. 7, comma 3, della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America„ contro le doppie imposizioni, vigente ratione temporis, la quale prevarrebbe sul diritto tributario interno, senza considerare che detto articolo non è applicabile a questa controversia tributaria, in quanto le disposizioni convenzionali non hanno la funzione di introdurre fattispecie o presupposti impositivi ulteriori rispetto a quelli previsti dalle norme tributarie interne degli Stati contraenti, ed intervengono, sempre e soltanto, in favore del contribuente (e mai contro di esso), ove questi ne invochi l'applicazione al fine di limitare il potere impositivo dello Stato contraente.

1.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte, di recente (Cass. 19/09/2019, n. 23355), occupandosi della Convenzione tra Italia e il Regno Unito in tema di doppia imposizione (il cui art. 7 ha lo stesso contenuto dell'art. 7 della citata Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America), ha precisato che: (a) la stabile organizzazione, dal punto di vista fiscale, è un'entità distinta ed autonoma rispetto alla «casa madre», i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1, lett. e), t.u.i.r.; (b) l'art. 7, § 2, della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con legge n. 329 del 1990, ), prevede che quando un'impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività nell'altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato contraente vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un'impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena indipendenza dall'impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione; (c) il Commentario OCSE (§ 18.3.), in merito al detto art. 7, ha chiarito che la stabile organizzazione deve essere dotata: «di una struttura patrimoniale appropriata sia per l'impresa, sia per le funzioni che esercita. Per tali ragioni, il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni - ossia quelli che costituiscono mere attribuzione di risorse proprie della casa madre - dovrebbe continuare ad applicarsi in via generale.». 

Nel caso di specie, la Commissione regionale si è conformata ai princìpi di diritto appena enunciati, laddove ha affermato che la Convenzione poneva dei limiti alla deducibilità dei componenti negativi del reddito della succursale italiana, intesi sia come interessi passivi che come spese connesse alla gestione del credito (nella specie, si è trattato delle perdite su crediti e degli oneri di commissione per la cessione di contratti di finanziamento). 

2. Con il secondo motivo [2. Violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 3 della Convenzione, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. nonché insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.], la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto legittima l'applicazione, da parte dell'Amministrazione finanziaria, dell'art. 7, comma 3, della Convenzione, senza compiere la necessaria valutazione in merito all'attribuibilità o meno alla filiale milanese dei contestati componenti negativi del reddito dell'impresa bancaria.

Assume al riguardo che, trattandosi di oneri correlati a taluni crediti da finanziamento, vantati dalla branch nei confronti della propria clientela italiana, l'applicazione dell'art. 7, comma 3, cit., con la conseguente indeducibilità degli stessi oneri dal reddito imponibile della «SO», sarebbe stata possibile solo laddove tali crediti fossero stati, in tutto o in parte, ascrivibili all'attività bancaria svolta da C.N.A. al di fuori del territorio dello Stato (e cioè non per il tramite della propria struttura organizzativa/stabile organizzazione italiana). 

La critica è estesa al percorso motivazionale della sentenza impugnata - insufficiente e contraddittorio, secondo la prospettazione della contribuente - ove non vengono illustrate le ragioni per le quali si è negata la riferibilità alla stabile organizzazione dei detti componenti negativi. In dettaglio, secondo la linea argomentativa della banca statunitense, sarebbe del tutto incomprensibile la ragione per la quale gli oneri sostenuti per la cessione di talune attività della succursale milanese (e cioè i contratti di finanziamento da quest'ultima conclusi con i clienti italiani, nell'esercizio della propria attività d'impresa) sono stati assimilati dalla C.T.R. ai costi: «dell'approvvigionamento delle risorse finanziarie eccedenti il fondo di dotazione della stabile organizzazione», per i quali opererebbe l'indeducibilità del reddito della branch, in forza della previsione dell'art. 7, comma 3, della Convenzione. Infatti - prosegue la ricorrente - altro è detto costo dell'approvvigionamento finanziario (interessi e commissioni passive sui finanziamenti ricevuti dalla casa madre americana, la cui deducibilità, tuttavia, non è oggetto di contestazione da parte dell'ufficio), altro è l'onere derivante dalla «perdita» subita dalla stabile organizzazione all'atto di realizzo delle proprie attività patrimoniali, la cui deducibilità, invece, è contestata dall'ufficio che, nell'avviso di accertamento, fa riferimento agli oneri di cui alla voce 120 del conto economico delle imprese bancarie, nel quale sono registrate le perdite su crediti da finanziamento, dedotti, nell'esercizio 2003, per euro 609.683,32, da imputare alla casa madre, e, quindi, indeducibili da parte della filiale italiana. 

2.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono.

Posto che si è in presenza di una doppia censura - violazione di legge e vizio di motivazione -, va prioritariamente esaminata la seconda doglianza (vizio di motivazione), accolta la quale resta assorbito il primo rilievo critico (violazione di legge). È utile puntualizzare, per un verso, che è legittima l'azione accertatrice dell'Amministrazione finanziaria che - conformandosi al canone giuridico per il quale, in ogni Stato, vanno tassati gli utili che si ritiene che la «SO» avrebbe conseguito se avesse assunto la 

configurazione di un'impresa distinta, svolgente attività identica o analoga, in condizioni identiche o analoghe, e in piena indipendenza dalla casa madre; per altro verso, che, nel presente, la materia è disciplinata dall'art. 152, t.u.i.r., in tema di «Reddito di società ed enti commerciali non residenti derivante da attività svolte nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione.» che, nell'attuale formulazione, è stato introdotto dall'art. 7, comma 1, lett. b), del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147, che non ha efficacia retroattiva (e, perciò, non è applicabile al caso di specie) e che, al secondo comma, prevede che: a) la «SO» si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati; (b) il fondo di dotazione riferibile alla «SO» è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. 

Fatta questa precisazione sul piano normativo, tornando al vizio motivazione della sentenza impugnata, è dato rilevare che la C.T.R. non ha spiegato, con chiarezza, le ragioni di condivisione dell'azione accertatrice, e cioè sulla base di quali elementi di fatto abbia ritenuto che l'importo in contestazione (euro 609.683), consistente in perdite su crediti e altri oneri connesse alla cessione (ad altri istituti di credito) di contratti di finanziamento, stipulati dalla succursale milanese con i propri clienti italiani, non rileverebbero come costi deducibili, ossia come componenti negativi del reddito della «SO», assoggettato ad imposizione fiscale in Italia. 

3. Con il terzo motivo [3. Nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.J, si deduce la nullità della sentenza impugnata perché corredata di motivazione soltanto apparente e, pertanto, sostanzialmente, omessa, nella parte in cui pretende di fare discendere l'indeducibilità, dal reddito della branch, ai sensi dell'art. 7, comma 3, della Convenzione, dei componenti negativi del reddito (le perdite su crediti) emersi a seguito della cessione a terzi di taluni contratti di finanziamento da essa stipulati con i propri clienti italiani, nell'esercizio della propria attività d'impresa, dalle modalità con cui la casa madre finanziava l'attività della filiale italiana (ossia in parte con capitale di rischio/fondo di dotazione e in parte con capitale di credito).

3.1. Il motivo è infondato. È insegnamento della Sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 03/11/2016, n. 22232) che: «La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto tale una motivazione caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione).». In senso conforme a tale principio di diritto, questa Sezione tributaria (Cass. 9105, n. 07/04/2017) ha affermato che: «Ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un'approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.».

Svolta questa premessa giuridica, nella specie la sentenza impugnata non è nulla, per motivazione apparente, in quanto essa spiega, sia pure in modo insufficiente (e ciò giustifica l'accoglimento della censura di motivazione insufficiente e contraddittoria sub § 2.), le ragioni che la sorreggono, vale a dire che: (a) la disposizione di riferimento è l'art. 7, comma 3, della Convenzione; (b) C.B.N., nello svolgere la propria attività creditizia nei confronti della clientela italiana, non direttamente, bensì avvalendosi della succursale milanese, ha sottratto al fisco italiano (a favore di quello statunitense) il costo degli approvvigionamento delle risorse finanziarie (ossia gli interessi passivi) eccedenti il fondo di dotazione della branch, e le spese connesse alla gestione del credito.

4. Con il quarto motivo [4. Nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia in merito ad uno dei motivi di ricorso formulati in primo grado e riproposti nelle controdeduzioni all'atto di appello

dell'ufficio, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.], la ricorrente assume che, nel ricorso introduttivo, aveva dedotto, come motivo d'infondatezza dell'avviso di accertamento, la circostanza che l'ufficio avesse applicato un modello di calcolo arbitrario e contrastante con le finalità di cui all'art. 7, della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l'Italia e gli Stati Uniti d'America; aggiunge di avere riproposto il medesimo argomento nelle controdeduzioni all'atto di appello dell'Agenzia; rileva che, nella sentenza impugnata, si legge che l'ufficio, «con un procedimento di calcolo algebricamente non contestato» ha dato applicazione all'art. 7, cit., riprendendo a tassazione la quota parte delle spese connesse all'attività esercitata dalla stabile organizzazione utilizzando la provvista eccedente il fondo di dotazione e, in tal modo, ha eliminato «il duplicato abbattimento di oneri ed ha conservato solo quello che ragionevolmente deriva dall'attività svolta in Italia.». Sulla base di questi presupposti, la ricorrente ascrive alla C.T.R. un error in procedendo per avere omesso di pronunciarsi sulla questione - sollevata dalla banca statunitense - relativa all'illegittimità del criterio di calcolo adottato dall'ufficio ai fini della quantificazione della pretesa tributaria contenuta nell'atto impositivo. 

4.1. Il motivo è infondato. È sufficiente ricordare che, secondo il pacifico insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass. 6/12/2017, n. 29191; conf.: 08/03/2007, n. 5351; 13/10/2017, n. 24155/2017, secondo cui: «Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia.»). 

Nella fattispecie concreta, la C.T.R., laddove ha condiviso l'azione accertatrice dell'organo di controllo (con la sola esclusione della legittimità dell'aspetto sanzionatorio), ha implicitamente rigettato l'eccezione formulata dalla contribuente in merito all'asserita nullità dell'atto impositivo; d'altra parte, nella sentenza impugnata si afferma, per un verso, che l'art. 7 della Convenzione, diversamente da quanto prospetta la banca statunitense, può esse utilizzato non solo a favore della contribuente, onde prevenire il rischio della doppia imposizione, ma anche contro di essa, come misura volta a scongiurare possibili frodi ed evasioni da parte del contribuente; inoltre, il giudice regionale ha precisato che, dal punto di vista algebrico (e soltanto da questo punto di vista), il calcolo della quota parte delle spese correlate all'attività della filiale milanese non era contestato. In realtà, come già precisato (§ 2), lo sviluppo argomentativo della sentenza, seppure esistente, si appalesa lacunoso e carente in quanto la Commissione regionale non ha illustrato, con chiarezza, le ragioni per le quali sono stati ritenuti indeducibili i componenti negativi, consistenti (non già negli interessi passivi sui finanziamenti che la filiale milanese ha ricevuto dalla casa madre statunitense, bensì) nelle perdite su crediti, derivanti dalla cessione dei contratti di finanziamento stipulati dalla branch con i propri clienti italiani. 

5. In base a queste considerazioni, accolto il secondo motivo (nei termini sopra precisati), rigettati il primo, il terzo e il quarto motivo, la sentenza è cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

                                                                     P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. 

Così deciso in Roma, il 14/01/2020

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